“Avolte abbiamo dei problemi perché, cazzo, siamo proprio illegali”. Queste sono le parole di Nairi Hourdajian, responsabile della comunicazione di Uber, in un messaggio inviato a un collega nel 2014, quando l’azienda rischiava la chiusura in Thailandia e in India. Emersa dai cosiddetti Uber files, più di 124mila documenti e corrispondenze del periodo tra il 2013 e il 2017, quest’ammissione coglie in pieno il modo in cui Uber è diventata la multinazionale che è oggi: infrangendo le leggi e coltivando rapporti con persone di potere. I documenti, resi pubblici da un consorzio internazionale di giornali, forniscono nuovi dettagli su alcuni aspetti che già conoscevamo.

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Gli Uber files mostrano come l’azienda si sia resa conto della necessità di stringere legami con i politici per evitare di essere cancellata a suon di leggi. I consulenti David Plouffe e Jim Messina hanno usato le loro relazioni all’interno dell’amministrazione Obama per aiutare Uber a espandersi in Europa e Medio Oriente. Uber ha costruito rapporti stretti con l’ex ministro delle finanze britannico George Osborne, con il presidente francese Emmanuel Macron, al tempo ministro dell’economia, e con l’ex vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroes, solo per citarne alcuni. Ha fatto pressioni sui governi per fare in modo che le leggi la inquadrassero come un’azienda tecnologica anziché come una di trasporti e ha messo in pericolo perfino i suoi autisti per il suo tornaconto. “La violenza garantisce il successo”, ha detto l’amministratore delegato Travis Kalanick dopo che alcuni dirigenti avevano espresso dubbi sulla scelta di mandare gli autisti a una protesta a Parigi nel 2016, in cui rischiavano di essere aggrediti.

Ha aumentato il traffico nelle grandi città, non ha fatto diminuire il numero delle auto private, ha allontanato i passeggeri dai trasporti pubblici e ha fatto crescere le emissioni

Uber sta già tentando di giocare d’anticipo nei confronti di queste cronache negative sui mezzi d’informazione, delle ripercussioni sulla sua reputazione e delle possibili reazioni delle autorità: in una dichiarazione ha cercato di far capire che i pessimi metodi documentati nell’inchiesta appartengono a un’epoca lontana. Ma non è vero. All’inizio degli anni 2010 Uber era in ascesa e la maggior parte dei mezzi d’informazione non poteva fare a meno di parlarne. L’azienda era sommersa di articoli favorevoli, che ignoravano come danneggiava i lavoratori e le comunità.

Come ho evidenziato nel libro Road to nowhere: what Silicon valley gets wrong about the future of transportation (Una strada senza uscita. Perché la Silicon valley si sbaglia sul futuro dei trasporti), si pensava che Uber avrebbe ridotto le auto private, diminuito il traffico, reso la mobilità più accessibile per le comunità svantaggiate, consentito agli autisti di guadagnare bene e che sarebbe stata complementare ai servizi di trasporto pubblico. O almeno così diceva Kalanick. Nel giro di pochi anni tutte le promesse si sono rivelate nella migliore delle ipotesi troppo ambiziose, nella peggiore delle bugie.

Uber ha peggiorato la vita praticamente di chiunque sia stato toccato dal suo successo. Una serie di studi hanno mostrato che l’azienda ha aumentato il traffico nelle grandi città, non ha fatto diminuire il numero delle auto private, ha allontanato i passeggeri dai trasporti pubblici e ha fatto crescere le emissioni. Contemporaneamente ha peggiorato le condizioni dei tassisti e ha spremuto i propri autisti (in prevalenza provenienti da comunità emarginate) per servire i giovani benestanti che vivono in città.

Le grandi promesse e la narrazione acritica fatta dai giornali hanno coperto il vero progetto dell’azienda: deregolamentare il settore dei taxi, erodere i diritti dei lavoratori e aumentare il controllo delle multinazionali sulla privacy delle persone. A beneficiarne realmente sono stati i primi investitori di Uber, che sono riusciti a incassare anche quando l’azienda si è quotata in borsa.

Contrariamente a quello che vuole far credere al pubblico, Uber non è cambiata. È ancora impegnata a invadere la privacy delle persone e a distruggere i diritti dei lavoratori o

Gli Uber files aggiungono altri dettagli, dal sessismo dilagante alla creazione di strumenti come il Greyball, un sistema messo in piedi per evitare controlli da parte delle forze dell’ordine. Eppure l’azienda vorrebbe farci credere che dopo l’uscita di scena di Kalanick sia cambiato tutto.

Quando nell’agosto 2017 Dara Khosrowshahi è diventato amministratore delegato, Uber ha trattato la questione come se si trattasse di una cultura aziendale sbagliata e Khosrowshahi ha promesso di fare pulizia. Ma anche se il modo in cui i dirigenti trattavano le donne e le minoranze sul posto di lavoro era un problema, il marcio arrivava al cuore del suo modello aziendale. E questo Khosrowshahi non poteva (e non voleva) cambiarlo.

La campagna più importante condotta da Khosrowshahi è stata quella per cancellare i diritti dei lavoratori in California. Nel settembre 2019 lo stato ha approvato il disegno di legge Assembly bill 5, che avrebbe costretto le aziende della gig economy (l’economia basata su prestazioni temporanee) a riconoscere i loro lavoratori come dipendenti anziché come appaltatori autonomi. Ma le aziende hanno unito le forze e hanno speso centinaia di milioni di dollari per convincere il pubblico a votare in un referendum chiamato Proposition 22, che secondo loro avrebbe migliorato le condizioni dei lavoratori, ma che in realtà ha fatto l’esatto contrario. Entusiasta per il voto sulla Proposition 22, Khosrowshahi ha lanciato una campagna in favore dell’istituzione di una categoria definita “IC+”, o “subappaltatore autonomo”. In base a questo progetto, i lavoratori sarebbero considerati subappaltatori autonomi, e perderebbero tutti i benefici derivanti dallo status di dipendente. Ma Uber ha promesso che riceveranno alcune protezioni, tra cui un salario minimo e dei benefici limitati. Tuttavia, l’esperienza della Proposition 22 ha già dimostrato che si tratta di promesse false: pochi lavoratori hanno avuto accesso ai magri benefici e il salario minimo promesso era di appena 5,64 dollari all’ora. Uber vuole diffondere questo modello in tutti gli Stati Uniti e nel mondo.

Nel 2020 una sentenza della corte suprema britannica ha stabilito che gli autisti di Uber devono essere classificati come dipendenti e ricevere i loro benefici. La sentenza è stata celebrata come un passo avanti e Uber l’ha usata per far credere alle persone che i suoi lavoratori sono trattati in modo giusto. Ma l’azienda non ha mai realmente rispettato la sentenza, secondo la quale ai lavoratori dovrebbe essere garantito un salario minimo per tutto il tempo che sono in servizio. Invece Uber lo concede solo per il tempo “impegnato” nelle corse.

Gli Uber files mostrano anche come la società abbia coltivato importanti relazioni con la politica, infischiandosene delle conseguenze. L’anno scorso alle elezioni federali canadesi il Partito conservatore ha presentato un programma di riforma della gig economy che sembrava una copia della proposta IC+ di Uber. È venuto fuori che un lobbista dell’azienda era un dirigente del partito. Fortunatamente i conservatori hanno perso le elezioni, ma Khosrowshahi ha fatto cose ancora peggiori.

Nel 2019, quando c’erano già prove definitive sul fatto che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman avesse ordinato l’uccisione del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, Khosrowshahi non era ancora disposto a prendere le distanze dal dittatore. Ha definito la vicenda un “errore”, aggiungendo che “le persone fanno errori, questo non significa che non possano essere mai perdonate”. Il giorno successivo gli addetti alle pubbliche relazioni hanno dovuto rimediare al pasticcio che aveva fatto l’amministratore delegato nel tentativo di non offendere uno dei principali azionisti dell’azienda.

Contrariamente a quello che vuole far credere al pubblico, Uber non è cambiata. È ancora impegnata a invadere la privacy delle persone e a distruggere i diritti dei lavoratori. Tanto a beneficio dei suoi azionisti, quanto di tutte le aziende simili. Ma vincere queste battaglie è centrale per la prossima fase di Uber. Dopo più di dieci anni di perdite, i soldi facili potrebbero definitivamente finire, perché i tassi d’interesse sono aumentati per la prima volta dalla grande recessione. Durante la pandemia Uber ha fatto una grossa scommessa sulle auto che si guidano da sole e su quelle volanti, che sarebbero state – così prometteva – il futuro della mobilità. Invece abbiamo cominciato a vedere cosa significherà per il servizio offerto da Uber essere finanziariamente sostenibile: prezzi più alti e tempi di attesa più lunghi, al punto che i taxi sono tornati a essere convenienti.

Proprio mentre il servizio di Uber peggiora e il sussidio che l’ha aiutata a decimare i taxi svanisce, l’azienda potrebbe tentare di acquisire il suo principale concorrente. A marzo infatti ha firmato un accordo per integrare nella sua app i taxi di New York, e ha siglato intese simili a San Francisco e in Italia. Questo non solo le permette di controllare il rapporto con il cliente, d’impadronirsi dei dati delle corse e di aumentare il numero delle persone che lavorano per l’azienda, ma potrebbe assoggettare i taxi alle regole di Uber. Questo significherà che gli autisti saranno gestiti da un algoritmo e i passeggeri dovranno pagare tariffe più alte.

Gli Uber files ci mostrano le malefatte che hanno reso l’azienda quello che è oggi, e come continui a guidare la sua guerra mondiale contro i lavoratori. Mentre il suo modello aziendale sembra destinato a subire un cambiamento radicale, noi abbiamo l’opportunità di correggere l’errore fatto anni fa. La campagna di Uber per trasformare il nostro sistema di trasporti e soddisfare i suoi imperativi commerciali senza tener conto delle conseguenze deve finire qui. Possiamo cambiare le cose. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 43. Compra questo numero | Abbonati