Se cercate un paio di scarpe da corsa su Amazon e fissate il prezzo massimo a trenta dollari, dopo aver superato le pagine iniziali incontrerete una serie di marchi sconosciuti. Alcuni sembrano seguire un criterio alfabetico – Zocavia, Zocania, Zonkim –, altri sono puri enigmi etimologici: Biacolum, Qansi, Nyznia. Osservando le immagini dei prodotti, i pezzi del puzzle cominciano a combaciare: le “sneaker uomo in rete ultraleggere traspiranti scarpe atletica corsa passeggio palestra” della Qansi sono esattamente uguali alle “scarpe da corsa uomo no scivolo sneaker palestra tennis antiscivolo scarpe traforate passeggio ginnastica” della Biacolum, che a loro volta sono identiche alle “scarpe uomo corsa ultraleggere scarpe tennis palestra slip on scarpe in rete fitness antiscivolo passeggio ginnastica” della Zocavia. Potremmo definire la lingua di questi annunci “amazonese”: un linguaggio stentato ma intellegibile, ridondante ma facilmente ricercabile. Spesso la descrizione del prodotto è abbastanza corretta linguisticamente da superare indenne il controllo grammaticale di un computer. Zocavia: “Materiale ultraleggero lascia poco peso sui piedi”. Zocania: “I vostri piedi possono respirare facile nell’ultima iterazione di tessuto superiore”.
Una parola che in amazonese non compare quasi mai è “Cina”. Marketplace Pulse, che si occupa di analisi di mercato del commercio online, ha rivelato che quasi la metà dei principali rivenditori sul sito statunitense di Amazon – quelli con un fatturato superiore a un milione di dollari – si trovano in Cina. Un portavoce di Amazon ha smentito, ma non ha voluto rendere noto il numero degli operatori cinesi, limitandosi a osservare che la maggioranza dei venditori terzi sulla piattaforma online ha sede negli Stati Uniti. Sulle pagine dei prodotti, gli operatori cinesi raramente rivelano dove hanno la sede, e non ci sono indicazioni su dove sono prodotte le varie Zocavia e Zocania.
Per avere qualche informazione in più, conviene andare sul sito dell’Us Patent and trademark office, l’ufficio brevetti statunitense e consultare le registrazioni dei vari marchi, che sono piene di dettagli utili. Zocavia e Zocania, che suonano un po’ come una coppia di tenniste gemelle serbe, risultano registrate a nome della stessa persona nel villaggio di Guanting, contea di Danling, provincia del Sichuan. Questi marchi, insieme a Zonkim, Biacolum, Nyznia e decine di altri, sono tutti riconducibili a un’azienda che si chiama Kimzon Network Technology. La sede della Kimzon si trova al sedicesimo piano di un palazzo nella città cinese di Chengdu. Qui, nella primavera del 2020, il titolare mi ha spiegato che stava riconsiderando la sua strategia sul mercato statunitense.
Era il 26 aprile e Li Dewei portava un auricolare bluetooth nero, una maglietta nera a maniche lunghe, dei pantaloni neri e un paio di scarpe da ginnastica nere che non provenivano da nessuna delle sue tre fabbriche. Li è il comproprietario dell’azienda e ha poco più di trent’anni, ma ha il contegno e la serietà di un uomo più maturo. Chengdu, come tutte le città cinesi, era già riuscita a domare la pandemia, e da una settimana Li aveva eliminato l’obbligo della mascherina in ufficio. Le conseguenze economiche del virus, però, si facevano sentire. A marzo Li aveva licenziato cinquanta persone, un terzo del suo staff a Chengdu. Mi ha detto che le cose sarebbero andate anche peggio se non fosse stato per gli assegni di ristoro inviati ai cittadini con il Cares act, il pacchetto di stimolo dell’amministrazione Trump. Vendendo direttamente ai clienti di Amazon, Li riesce a monitorare le vendite da vicino. “Controlliamo i dati tutti i giorni”, mi ha detto. “Quando il governo statunitense ha cominciato a distribuire gli assegni abbiamo visto aumentare le vendite già dal giorno successivo”. Il giorno della mia visita, due settimane dopo il varo del piano di stimolo, le vendite della Kimzon negli Stati Uniti erano quasi raddoppiate, anche se restavano ancora leggermente sotto la norma. “Non sappiamo se il livello di consumi spinto dagli aiuti del governo resterà invariato”, mi ha detto Li.
Poco prima Li si era confrontato con il socio e con altri imprenditori nel ramo dell’export, e tutti avevano concordato che giugno del 2020 sarebbe stato il mese cruciale. “Se entro giugno il virus sarà completamente sotto controllo negli Stati Uniti e in Europa, allora potremo tornare ai livelli normali”, mi ha detto Li. Gli imprenditori, però, temevano che i paesi occidentali non sarebbero riusciti a gestire bene la pandemia. Un’altra preoccupazione era lo scontro politico in corso tra Cina e Stati Uniti.
In un anno normale il 70 per cento del fatturato della Kimzon viene dagli Stati Uniti, il 20 per cento dall’Europa e il 1o per cento dal Giappone. La Kimzon non opera sul mercato cinese. A Li e al socio, quindi, la soluzione era sembrata ovvia: ridurre l’esposizione americana cominciando a vendere le scarpe Zocavia, Zocania e di altri marchi anche ai cinesi. Il loro staff aveva già ridisegnato alcuni modelli di scarpe e stava preparando una campagna di marketing interna: l’obiettivo era realizzare un terzo del fatturato totale in Cina entro un anno. Nel giro di tre mesi, diceva Li, avrebbe capito se il suo piano poteva funzionare o no.
Ritorno a Chengdu
Nell’agosto del 2019 mi sono trasferito con la mia famiglia a Chengdu per insegnare giornalismo e inglese all’università del Sichuan. Per la seconda volta nella mia vita, mi sono trovato nella regione in un periodo di relazioni turbolente tra Washington e Pechino. Nel 1995 i due paesi erano entrati in una fase di tensione dopo che il dipartimento di stato degli Stati Uniti aveva concesso il visto al presidente taiwanese Lee Teng-hui, invitato a tenere un discorso alla Cornell, la sua università. Il governo cinese aveva reagito furiosamente, avviando una serie di test missilistici nelle acque vicine a Taiwan. Nel marzo del 1996 gli Stati Uniti inviarono una flotta per affiancare le due portaerei presenti nella zona, il più grande sfoggio di forza militare americana in Asia dai tempi della guerra del Vietnam.
Quell’estate ero arrivato a Chengdu come volontario dei Peace Corps. Insieme a un altro giovane americano, Adam Meier, ero stato assegnato a un college in una zona sperduta del Sichuan. Bill Clinton era nel pieno della campagna per la sua rielezione ed era spesso attaccato dai mezzi d’informazione di stato cinesi. Ma nel Sichuan la gente aveva un approccio pragmatico alla politica, e l’ateneo accettava il rischio di ospitare insegnanti statunitensi come parte della politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping. Molti studenti venivano da famiglie rurali povere, ma i risultati che ottenevano nei test dicevano che potevano laurearsi in inglese. Oltre ai corsi di lingua, seguivano anche una serie di corsi politici obbligatori dai titoli d’altri tempi come Marxismo-leninismo e Costruire il socialismo in Cina. Bastava gettare uno sguardo fuori delle classi per rendersi conto che il socialismo cinese sarebbe stato smantellato in poco tempo. Dopo un anno il governo aveva smesso di garantire il posto di lavoro ai laureati e il mercato immobiliare locale era stato privatizzato, come ormai succedeva in tutto il paese. Alcuni dei miei studenti più ambiziosi erano partiti per province come il Guangdong e lo Zhejiang, dove stava cominciando il boom delle esportazioni.
Contro tutte le previsioni, la rielezione di Bill Clinton si rivelò un bene per la Cina. Durante il suo secondo mandato, il congresso statunitense accordò a Pechino una serie di privilegi commerciali permanenti, e Clinton avviò i negoziati per l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale per il commercio, poi formalizzato nel 2001. Con l’alternarsi delle amministrazioni, gli Stati Uniti hanno quasi sempre seguito una strategia di coinvolgimento con la Cina. Anche la politica pivot to Asia del presidente Barack Obama, concepita per contrastare la crescente influenza di Pechino nella regione, ha avuto pochi effetti concreti.
Le persone con meno soldi in banca sono state più propense a spendere
Quando sono tornato a Chengdu, nel 2019, ho potuto toccare con mano i benefici materiali dell’epoca delle riforme: c’era un’ampia rete della metropolitana, un nuovo campus per l’università del Sichuan e un quartiere degli affari pieno di grattacieli che ospitava le sedi della Kimzon e di altre aziende. Nella mia classe ho avvertito il cambiamento in modo ancora più evidente. I miei allievi sono scoppiati a ridere quando gli ho fatto vedere le foto del 1996, in cui dall’alto del mio metro e ottanta svettavo su tutta la classe. Ora, grazie al miglioramento degli standard di vita, ero più basso di quasi tutti i miei allievi maschi. Uno studio pubblicato nel 2020 su The Lancet ha rivelato che su duecento paesi, la Cina ha registrato la più grande crescita dell’altezza media dei ragazzi e la terza delle ragazze dal 1985. Oggi un diciannovenne cinese è più alto di quasi nove centimetri.
Quasi tutti i miei studenti venivano da famiglie della classe media urbana. Molti partecipavano a un programma di scambio che prevedeva un soggiorno di uno o due anni all’università di Pittsburgh; ogni anno, sono quasi quattrocentomila i cinesi che vanno a studiare negli Stati Uniti. All’università del Sichuan, però, gli studenti diretti in America continuavano a seguire corsi politici dai nomi di repertorio: Princìpi fondamentali del marxismo, Introduzione al pensiero di Mao Zedong, Socialismo con caratteristiche cinesi.
Il controllo del Partito comunista era ancora più forte di come me lo ricordavo, e i rapporti con gli Stati Uniti erano addirittura peggiorati. Già prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, a Washington stava maturando la convinzione che i cinesi avessero beneficiato troppo della relazione bilaterale con gli Stati Uniti. Diversi funzionari dell’amministrazione Trump invocavano il decoupling, un allontanamento dalla Cina in campo economico e tecnologico. Nella primavera del 2018 Trump ha cominciato a imporre pesanti dazi sui prodotti cinesi e la Cina ha preso le sue contromisure. I programmi di scambio sono stati messi in discussione, in parte in risposta alla brutale repressione cinese nello Xinjiang e alla repressione contro i sostenitori della democrazia a Hong Kong. Durante il mio primo anno all’università del Sichuan, Trump ha sospeso di colpo il programma China peace corps e tutti gli scambi accademici con la Cina e Hong Kong nell’ambito del programma Fulbright. A Chengdu la gente ha reagito come al solito. Lo stesso Li Dewei mi ha detto di non avere un’opinione precisa sulla politica statunitense, e che dopo che sono stati messi i dazi sulle sue scarpe ha semplicemente aumentato del 15 per cento i prezzi su Amazon. “Il dazio lo paga il cliente”, ha detto.
Nel mio dipartimento tutti i docenti davano una mano al centro di scrittura, dove gli studenti potevano prendere appuntamento per delle lezioni di sostegno. Prima del mio arrivo si era parlato di comprare un software per la pianificazione degli appuntamenti da un’azienda statunitense, poi però non se n’era fatto più niente. Uno degli amministratori ci ha detto in riunione che secondo lui il motivo era legato alla guerra commerciale. Allora il dipartimento si è rivolto a un’azienda britannica, la Fresha, che fornisce software ai centri estetici, alle spa e ai centri massaggi. Tutte le volte che ricevevo la notifica di una lezione, lo studente con cui avevo appuntamento mi veniva presentato come un “cliente” e mi arrivavano email pubblicitarie di trattamenti speciali come “Massaggi mani/piedi o di coppia”.
Il 14 maggio 2020 ho incontrato Li Dewei a cena, e mi ha detto che la Kimzon stava avendo difficoltà con il passaggio al mercato interno. “Le vendite non vanno bene”, mi ha detto. Secondo lui era un problema di stile, quindi aveva cominciato a produrre scarpe con le suole bianche anziché nere pensando che potessero piacere di più ai cinesi. A marzo, quando la pandemia aveva cominciato a farsi sentire negli Stati Uniti, la Kimzon aveva ridotto la produzione a cinquecento paia di scarpe al giorno. Un anno dopo la produzione è tornata a circa duemila, più o meno ai livelli normali. Li ha licenziato diversi dipendenti nel design e nel marketing, ma non ha mai ridotto il numero degli operai alle linee di assemblaggio. La priorità massima, mi ha detto, è proteggere la catena di approvvigionamento.
Un paese libero
Nonostante il grande volume d’affari con Amazon, Li non è mai stato negli Stati Uniti. Le sue origini sono modeste: i suoi genitori vengono entrambi da famiglie contadine e hanno smesso di studiare dopo la scuola elementare. Lavoravano tutti e due come operai in una fabbrica di coperte, e più avanti si sono messi in proprio aprendo una piccola bottega. Gran parte del loro modesto reddito lo hanno speso per far studiare Li e i suoi due fratelli. Li era molto bravo alle superiori e fu ammesso all’università del Sichuan. Dopo la laurea è andato a lavorare per un amico di famiglia che aveva una fabbrica di scarpe nella provincia del Fujian. È lì che ha imparato il mestiere.
Comunichiamo sempre in mandarino, ma Li capisce bene l’inglese scritto. Usa una rete virtuale privata (vpn) per aggirare il firewall cinese e accedere a siti come Google Trends per studiare e analizzare il mercato statunitense. “Sarebbe utile andare lì, ma possiamo imparare molto anche da internet”, mi ha detto. “Gli Stati Uniti sono un paese libero, molte informazioni sono disponibili a tutti. In Cina è diverso”. Da lontano Li si è fatto un’idea delle caratteristiche statunitensi. “Lei ha più esperienza di me, ma io penso che gli americani non risparmino molto”, mi ha detto mostrandomi l’aumento delle vendite dopo lo stimolo economico. “Appena hanno i soldi in tasca li spendono”.
Il governo cinese ha fallito nella risposta iniziale al nuovo coronavirus, che ha cominciato a diffondersi da Wuhan, circa 1.100 chilometri a est di Chengdu. Dopo aver tenuto nascosti alcuni dettagli sul virus, e dopo aver arrestato e punito chiunque si azzardasse a parlarne, il governo ha finalmente introdotto una serie di misure efficaci per bloccare il contagio. Relativamente poco, però, è stato fatto per dare sostegno economico ai cittadini. Nel primo trimestre del 2020 l’economia cinese si è contratta quasi del 7 per cento, e per la prima volta dall’epoca di Mao Zedong Pechino ha dichiarato un calo del pil. Il governo, tuttavia, non ha optato per un programma di stimolo con ristori a pioggia. “Se il governo cinese facesse una cosa del genere, la gente semplicemente metterebbe i soldi in banca”, mi ha detto Li. Molti statunitensi lo hanno fatto. Scott R. Baker, economista della Northwestern university, mi ha detto recentemente che il Cares act ha innescato modelli di spesa molto diversi da quelli rilevati dopo i piani di stimolo del 2001 e del 2008. “La grande differenza riguarda la minor spesa in beni durevoli”, mi ha spiegato Baker. “La gente non è andata a comprare l’auto o il frigorifero nuovi. Sembra che gran parte degli assegni sia stata destinata al risparmio”.
Il mercato era così vuoto che molti grossisti ci avevano portato i figli
Insieme ad altri quattro economisti, Baker ha analizzato i dati delle transazioni bancarie più frequenti di più di trentamila consumatori statunitensi. La conclusione è che lo stimolo del 2020 è stato meno efficace dei precedenti, anche a causa della natura straordinaria della pandemia, che ha reso i consumatori meno propensi ad andare dal concessionario o a farsi consegnare elettrodomestici da estranei. “Se un assegno di mille dollari incentiva l’acquisto di un’auto, l’effetto si sente”, dice Baker. “Se invece viene speso per comprare un paio di scarpe da trenta dollari all’estero, be’, allora non è di grande aiuto per l’economia”. Gli ho parlato dell’aumento delle vendite di Li Dewei dopo lo stimolo. “Non mi sorprende”, ha replicato. “Abbiamo riscontrato che la spesa si è concentrata quasi tutta nella settimana successiva alla ricezione dell’assegno”. Mentre la maggior parte degli statunitensi ha preferito mettere i soldi da parte, osserva Baker, le persone con meno soldi in banca sono state più propense a spendere. Hanno comprato tendenzialmente generi alimentari, beni non durevoli e altri articoli poco costosi, spesso proprio il tipo di beni prodotti da imprenditori come Li Dewei.
A Chengdu, Li e il suo staff controllavano ogni giorno le recensioni su Amazon. All’inizio della pandemia, molti consumatori statunitensi si erano lamentati dei ritardi nelle consegne, e il 6 maggio un cliente aveva dato a uno dei prodotti di Li una sola stella: “Sono arrivate in ritardo. Poi me le hanno rubate dalla veranda. Vorrei un rimborso immediato”. Da allora Li si è accordato con un servizio di consegne più costoso e ha fatto altri aggiustamenti. Quando alcuni clienti si sono lamentati perché le Zocania erano troppo strette sulla punta, Li ha fatto fare dei cambiamenti in fabbrica.
Uno spaccato di realtà
Alcune recensioni offrono uno spaccato della vita degli statunitensi in difficoltà economiche durante la pandemia. Nelle recensioni raramente si parla di ginnastica o di attività sportive; a quanto pare i clienti di Li comprano le sue scarpe per indossarle al lavoro, soprattutto quando devono passare molte ore in piedi. Il 16 maggio un cliente ha dato una stella per via della suola antiscivolo: “Faccio il cuoco da Denny’s e mi sono quasi spaccato la faccia solo perché c’era un po’ d’acqua sul pavimento della cucina! Che spavento!”. Altri parlano di lavori che non ci sono più. Il 14 giugno, cinque stelle: “Le ho prese per il lavoro ma ho appena scoperto che l’azienda non riaprirà. Comunque mi piacciono”.
Con l’arrivo dell’estate sono emersi nuovi fattori di stress. Il 13 luglio, due stelle: “La zigrinatura sulla suola non dura molto. La polizia mi ha inseguito solo un paio di volte da quando le porto e la suola si è già consumata per metà!”. Periodicamente, Li e i suoi ritoccavano le foto dei prodotti o le descrizioni in amazonese. Li seguiva attentamente le notizie dagli Stati Uniti e sembrava sempre aggiornato sul numero dei casi di coronavirus.
Un’esperienza diversa
Alla fine di gennaio del 2020, l’ambasciata degli Stati Uniti e cinque consolati del paese in Cina hanno deciso di evacuare tutto il personale statunitense non strettamente necessario, consorti e figli compresi. Molte altre ambasciate e aziende straniere in Cina hanno fatto lo stesso. Mia moglie Leslie e io abbiamo scelto di restare insieme alle nostre due figlie gemelle, che frequentano una scuola pubblica locale. La valutazione su quale paese avrebbe gestito meglio il virus non ha minimamente influenzato la nostra decisione. Semplicemente, non ci siamo resi conto della gravità della pandemia, e il lockdown a Chengdu, che è durato circa un mese e mezzo, ci sembrava un’esagerazione. In una città di più di sedici milioni di abitanti c’erano appena 143 casi sintomatici accertati alla fine di febbraio. A parte quelli, non ci sono stati casi accertati di contagio per tutto il resto della primavera. Non sembrava che ci fosse il rischio concreto di contrarre la malattia, quindi non avevamo nessun motivo per andarcene.
Alla fine di marzo il governo ha vietato l’ingresso in Cina a chiunque avesse un passaporto straniero, anche se con un visto di lavoro valido. Secondo le autorità, mettendo in quarantena i pochi cittadini cinesi che rientravano e facendo test e tracciamento in tutto il paese, la vita sarebbe potuta andare avanti senza troppe restrizioni. All’inizio di maggio le nostre figlie, che fanno la terza elementare, sono tornate in classe insieme ai loro 52 compagni, e nel giro di due settimane hanno smesso di portare la mascherina. Sempre a maggio, quando ho preso un volo interno per la prima volta dopo il lockdown, sull’aereo non c’era un posto libero.
All’inizio pensavo che nel resto del mondo la pandemia avrebbe avuto la stessa evoluzione che in Cina: prima i focolai, poi il lockdown, quindi la ripresa. A un certo punto, però, ho capito che la nostra esperienza era completamente diversa, tanto che ripensandoci avevo la sensazione che il mese e mezzo di chiusura a Chengdu fosse durato pochissimo. Non avevo saltato un solo appuntamento dal barbiere, e tutti i nostri ristoranti preferiti avevano riaperto. Ci collegavamo in videoconferenza solo per comunicare con amici e familiari negli Stati Uniti, più che altro per solidarietà. All’inizio di maggio, alcuni amici del college hanno organizzato un incontro su Zoom per parlare di come stavano vivendo il lockdown negli Stati Uniti. Quando è finito ho spento il computer e sono andato in bicicletta in una discoteca dall’altra parte della città per fare un servizio. Il locale era pieno: c’erano decine di persone che ballavano e solo una donna portava la mascherina.
Dai braccialetti alle mascherine
Nel secondo trimestre del 2020 l’economia cinese ha ripreso a crescere. A luglio le esportazioni sono aumentate del 7,2 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e io ho passato diversi giorni nella provincia dello Zhejiang, uno dei principali centri del commercio con l’estero. Quasi tutti gli imprenditori che ho intervistato mi hanno detto la stessa cosa: sono rimasti sorpresi dalla crescita delle vendite e non hanno sofferto troppo degli effetti della guerra commerciale con gli Stati Uniti. Alcuni piccoli esportatori hanno ammesso di aver dichiarato meno di quanto esportavano per evitare i dazi; la pratica, però, mi hanno spiegato altri, è troppo rischiosa per le imprese più grandi. In generale, almeno una parte del costo è stata scaricata sui consumatori statunitensi, e il governo cinese ha introdotto ormai da anni una politica di sgravi fiscali per gli esportatori.
Jin non è preoccupato. “Gli americani”, dice, comprano sempre tante bandiere”
Gli imprenditori mi hanno parlato di altri modi per evitare attenzioni indesiderate. A Yuhuan ho incontrato la responsabile del commercio con l’estero di un’azienda che produce componenti di precisione per le automobili. Mi ha detto che i clienti statunitensi le hanno fatto firmare un contratto per evitare che i loro nomi compaiano sul sito dell’azienda. “Non possiamo dire pubblicamente che facciamo affari con quest’azienda americana. Non vogliono che si sappia che i componenti arrivano dalla Cina”.
Anche a Yiwu, sede del più grande mercato all’ingrosso della Cina, la gente si è adattata in fretta. Di solito la città ospita circa diecimila stranieri, oltre ai tanti altri che vengono per comprare e poi ripartono, e i quartieri si dividono secondo le varie nazionalità e regioni di provenienza degli abitanti. Ora sembrava tutto abbandonato. I bambini si erano impadroniti delle corsie del mercato. La tentacolare struttura, grande quasi dieci volte il Pentagono, ospita centinaia di migliaia di attività commerciali. Anni fa quando ci venivo il mercato era pieno di commercianti stranieri; ora era così vuoto che molti grossisti cinesi ci avevano portato i figli in vacanza. Orde di ragazzini scorrazzavano in bicicletta e in motorino nei corridoi vuoti; qualcuno aveva perfino montato reti da badminton e canestri.
Quasi tutti gli operatori sono specializzati in singoli articoli che vengono venduti in grandi quantità. La cosa più deprimente erano le corsie dedicate ai venditori di valigie: file di persone con i musi lunghi accanto a trolley che nessuno avrebbe comprato. Anche chi vendeva cianfrusaglie per i turisti non se la passava tanto bene. Gli affari, invece, andavano a gonfie vele per i venditori di lampade a led per lo smalto semipermanente, per le clienti che si fanno le unghie a casa; era un buon anno anche per chi vendeva tappi in plastica per bottiglie di detergente per le mani. Un’azienda specializzata in tappetini per lo yoga aveva ordini fino a settembre. Al secondo piano, andavano benissimo anche i venditori di piscine da giardino gonfiabili.
Un’ampia sezione del secondo piano era occupata dai grossisti di dispositivi di protezione individuale (dpi). Prima della pandemia molti producevano giocattoli o bigiotteria. Shi Gaolian era la proprietaria di una fabbrica che fino a febbraio produceva braccialetti; poi ha riconvertito la produzione e ora esportava dai due ai tre milioni di mascherine chirurgiche al mese. Come quasi tutti al mercato, Shi non portava la mascherina. Sapeva che il boom dei dispositivi di protezione non sarebbe durato per sempre, ma non era preoccupata: “Ci vorranno almeno due anni prima che il mondo riesca a gestire tutto”, ha detto. “Dopo troverò qualcos’altro da produrre”.
Sempre al secondo piano, gli esportatori si stavano preparando per le elezioni negli Stati Uniti. Gli stand dei cappellini da baseball erano pieni di berretti con la scritta “Make America great again” e i produttori di bandiere e striscioni stavano raccogliendo ordini per gli stendardi di Trump e Biden. Mi sono fermato a parlare con un grossista di mezza età, Li Jiang; ha cominciato nel 1995 producendo le sciarpe rosse dei Giovani pionieri, l’organizzazione del Partito comunista cinese per gli scolari dai 6 ai 14 anni. Nel 1997, quando Hong Kong tornò sotto il controllo cinese e l’ondata di patriottismo fece crescere la domanda di bandiere della Repubblica popolare, Li ampliò la linea di produzione. Quattro anni dopo ci furono gli attentati dell’11 settembre, e Li cominciò a produrre bandiere a stelle e strisce. Quell’evento ha segnato il suo ingresso sul mercato internazionale, e da allora la sua attività è strettamente legata a quello che succede all’estero. Il giorno in cui ci siamo incontrati aveva venduto diverse migliaia di bandiere di Trump.
Dopo Yiwu, mi sono fermato in una grande fabbrica di bandiere che si chiama Johnin, nella città di Shaoxing. Il giovane manager, Jin Gang, mi ha fatto fare un giro. All’interno decine di donne cucivano bandiere con le scritta “North Dakota for Trump”, “Keep America great”, “Trump 2020” e “Trump 2024”. Dall’inizio della pandemia sembrava che la Cina fosse in anticipo su tutto, quindi non ho potuto fare a meno di domandarmi se alla Johnin sapessero qualcosa che io ignoravo. “Ce le hanno ordinate”, mi ha detto Jin, quando gli ho chiesto degli striscioni del 2024. “Sono convinti che sarà di nuovo presidente”. Durante la campagna per le presidenziali del 2016 la Johnin ha venduto tra i due e i tre milioni di bandiere di Trump, più o meno a un dollaro l’una. Ora, a meno di quattro mesi dalle elezioni, i prodotti a marchio Trump rappresentavano circa il 70 per cento del fatturato dell’azienda. C’erano ordini anche per le bandiere di Biden, ma non molti. A Jin non piaceva Trump, ma non era preoccupato per il voto di novembre. “Dopo le elezioni continueremo a fare bandiere per qualcuno”, diceva. “Gli americani comprano sempre tante bandiere”.
All’inizio di luglio, Li Dewei mi ha detto che lui e il suo socio avevano abbandonato il progetto di vendere sul mercato cinese. “L’investimento è troppo alto e la concorrenza interna è troppo agguerrita”, mi ha spiegato. Soprattutto, aveva capito che le tensioni tra Stati Uniti e Cina difficilmente avrebbero influito sugli affari della Kimzon. I ripetuti attacchi dell’amministrazione Trump a Pechino sulla gestione della pandemia non sembravano aver modificato il comportamento dei consumatori. Nel giro di tre mesi, la valutazione dei rischi di Li si era completamente rovesciata: ora era convinto che la pessima gestione della pandemia del governo statunitense avrebbe avuto un effetto positivo sulle vendite. “Molte imprese hanno chiuso. La gente ha paura di andare nei negozi per via dei contagi, quindi preferisce comprare online”.
Zach Franklin, un consulente statunitense che ha lavorato per anni con le imprese che vendono su Amazon a Shenzhen, mi ha spiegato che gli imprenditori online cinesi hanno trovato un modo diverso per allargare il giro d’affari. Oltre ad ampliare le linee di produzione e a esplorare nuovi mercati, semplicemente vendono lo stesso prodotto sullo stesso mercato usando nomi diversi. “L’obiettivo è conquistare quanto più spazio possibile in ogni scaffale”, mi ha detto Franklin. “Basta cambiare l’etichetta. Guadagnano sfruttando l’illusione della scelta”.
All’inizio della pandemia, Li aveva visto su Google Trends che moltissimi statunitensi cercavano prodotti collegati alla parola pet, animali domestici. Un suo amico a Shenzhen produceva accessori per animali domestici, e dopo aver ampliato la linea di produzione ha deciso di gestire il sito insieme a Li. Entrambi erano convinti che i vestiti per animali avevano grandi potenzialità.
Gli ordini di scarpe dagli Stati Uniti continuavano ad aumentare e la Kimzon ne spediva tremila paia al giorno. “Il governo americano ha mandato altri soldi ultimamente”, mi ha detto Li. Gli ho risposto che si sbagliava: non c’era stato un secondo programma di stimolo. Li, però, era certo che ai consumatori stavano arrivando i soldi del governo: lo vedeva dalle vendite, e altri imprenditori confermavano. Il giorno dopo ho ricevuto un’email dalla ragazza a cui abbiamo affittato la nostra casa in campagna in Colorado. Mi mandava l’elenco delle cose che aveva trovato nella buca delle lettere, tra cui una carta di debito del Cares act con la dicitura “Economic impact”, caricata con un importo di 3.400 dollari. A quanto pare, nelle due settimane precedenti il governo aveva cominciato a spedire le carte di debito a tutti i cittadini che non le avevano ricevute ad aprile perché non erano disponibili i loro dati bancari. Effettivamente mi ero chiesto perché non mi fosse arrivato l’assegno, ma poi, distratto dalle cose quotidiane, non avevo più approfondito. Se avessi seguito l’andamento di Zocavia e Zocania, sarei stato molto più aggiornato sul calendario dei bonus del governo degli Stati Uniti.
Ricadute immediate
Verso la fine di luglio, l’unico amico statunitense delle mie figlie ancora a Chengdu se n’è andato. Gli altri erano partiti quasi tutti tra gennaio e febbraio, e con il passare del tempo, per chi era rimasto l’isolamento si era fatto sempre più duro. In tempi normali, in estate saremmo andati in Colorado; ora, però, non potevamo rientrare. All’epoca dei Peace corps non ero tornato negli Stati Uniti per due anni; ora probabilmente mi sarebbe toccata la stessa sorte. Negli anni novanta, però, il Sichuan sembrava ancora un posto sperduto, e anche il commercio con gli Stati Uniti era un’ipotesi remota; in quei due anni non ho mai visto un McDonald’s. Oggi le aziende statunitensi in Cina sono più di settantamila, e i cinesi producono buona parte dei dpi e di molti altri beni acquistati dagli americani in tempi di crisi. Praticamente ogni evento negli Stati Uniti – una protesta, un lockdown, un piano di stimolo – ha una ricaduta economica immediata nella Repubblica popolare. Il decoupling era stato pensato come un processo economico, ma i rapporti di mercato sono più stretti che mai: nel 2020 gli scambi commerciali tra gli Stati Uniti e la Cina sono aumentati di quasi il nove per cento. L’allontanamento sta avvenendo quasi esclusivamente a livello umano.
Per gli statunitensi la Cina è rimasta sostanzialmente impenetrabile
Il 24 luglio 2020 il governo cinese ha annunciato la chiusura del consolato degli Stati Uniti a Chengdu, con l’espulsione di tutto il personale americano rimasto. La decisione è stata presa in risposta alle iniziative dell’amministrazione Trump, che poco prima aveva chiuso il consolato cinese a Houston accusandolo di spionaggio. Un funzionario del dipartimento di stato mi ha spiegato che i cinesi hanno sicuramente fatto spionaggio, ma che la risposta statunitense rischiava di essere controproducente. “C’è un modo di gestire queste cose, di far passare il messaggio senza essere così perentori”, ha detto. In una situazione normale, gli americani si sarebbero limitati a espellere qualche diplomatico, anziché chiudere tutto il consolato.
All’inizio dell’anno, mi ha detto il funzionario, alcuni esponenti della Casa Bianca avevano proposto una mossa ancora più radicale. “Nell’amministrazione Trump c’era chi suggeriva di chiudere tutti i nostri consolati in Cina, con l’idea che poi avremmo avuto mano libera nello sbattere fuori i cinesi dai loro”. Una strategia simile è stata applicata ai mezzi d’informazione. A marzo l’amministrazione Trump ha tagliato drasticamente il numero dei giornalisti cinesi autorizzati a lavorare negli Stati Uniti per organi di proprietà dello stato. Il ministero degli esteri cinese ha risposto con l’espulsione di quasi tutti gli americani che lavoravano per il New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal. Alla fine del 2020 erano rimasti in Cina solo una trentina di giornalisti statunitensi.
Dopo l’annuncio della chiusura del consolato sono andato tutti in giorni in bicicletta davanti alla sede a vedere cosa succedeva. La zona era pattugliata dalla polizia, ma già dal secondo giorno arrivavano tante persone a farsi i selfie davanti all’edificio. Un giorno ho sentito una donna che diceva ai suoi compagni di sbrigarsi a fare le foto perché poi dovevano andare a Dujiangyan, un’attrazione turistica fuori città. Erano turisti di Whenzou e avevano aggiunto il consolato all’itinerario della giornata.
Intanto, all’interno del complesso gli americani erano impegnati nel loro “piano di distruzione”. Oltre a fare i bagagli in tutta fretta, stavano distruggendo i documenti e sfasciando tutti i computer e gli apparecchi di telecomunicazione. Il governo cinese gli aveva dato 72 ore, le stesse concesse dagli americani a Houston. Lo scambio aveva l’aria rituale di un evento sportivo: ogni squadra giocava una partita in casa e una in trasferta e ognuno prendeva tutto quello che poteva per fare propaganda. A Houston gli agenti statunitensi avevano pedinato il personale del consolato cinese fino da Home Depot, dove i funzionari avevano comprato delle botti per bruciarci dentro i documenti. I notiziari americani avevano mostrato le immagini dei pennacchi di fumo che salivano dal cortile del consolato.
Qualcuno dello staff del consolato aveva avuto l’idea di commissionare un paio di striscioni a una stamperia locale, uno dei quali con la scritta “Ganxie Chengdu”, grazie Chengdu. L’idea era di lasciare un messaggio più dignitoso, anche se tutti, al consolato, sapevano benissimo che sarebbero stati seguiti in ogni loro movimento, come era successo ai cinesi all’Home Depot. L’ordine era stato fatto da una privata cittadina, ma prima ancora che gli striscioni fossero pronti una decina di agenti di sicurezza l’aveva presa in custodia. Quando finalmente l’avevano rilasciata, dopo sette ore di interrogatorio, degli striscioni non c’era traccia. Alla fine gli americani sono riusciti a terminare la loro opera di distruzione in tempo. Poco dopo l’alba del terzo giorno, i diplomatici del consolato degli Stati Uniti hanno aperto il portone d’ingresso, voltato le spalle e si sono allontati a bordo di veicoli anonimi.
Disparità di informazioni
Il 25 settembre Li Dewei mi ha detto che le vendite andavano ancora bene. Questo valeva per molte aziende cinesi: nel terzo trimestre del 2020 l’economia del paese era cresciuta quasi del 5 per cento. Negli ultimi mesi Li aveva fatto qualche assunzione, ma non aveva intenzione di tornare ai numeri di prima della pandemia. Per quanto lo riguardava, la crisi era stata un’opportunità per migliorare l’efficienza. Con i suoi 34 anni, era il più anziano dell’ufficio. Il sito di accessori per animali faceva quattrocento visitatori unici al giorno e fatturava migliaia di dollari. Li era convinto che il potenziale di crescita era altissimo, considerando il numero di animali domestici negli Stati Uniti.
Come la maggioranza dei cinesi che conosco, Li era convinto che Trump avrebbe vinto le elezioni. All’inizio di novembre, Jin Gang, il produttore di bandiere di Shaoxing, mi aveva detto che l’ondata di ordini di articoli di Trump l’aveva convinto che i repubblicani avrebbero trionfato. All’università ho fatto un sondaggio tra i miei studenti: il 54 per cento pensava che avrebbe vinto Trump. Molti studenti mi hanno detto di essere interessati al risultato delle elezioni. “Sì, perché sono collegate alla Cina e alla mia vita futura, allo studio negli Stati Uniti”, ha scritto un ingegnere in un tema.
Altri avevano già abbandonato i loro progetti di studio all’estero. In alcuni casi sono stati i genitori a deciderlo, preoccupati per le tensioni diplomatiche, la pandemia e le proteste antirazziste del movimento Black lives matter, che sui mezzi d’informazione cinesi sono state spesso rappresentate come violente. Anche con la vittoria di Joe Biden, sembrava improbabile che le relazioni tra Stati Uniti e Cina sarebbero cambiate di punto in bianco. Al dipartimento di stato speravano che almeno parte degli scambi accademici e culturali sarebbero stati ripristinati, ma anche per quello ci vorrà tempo.
Nel frattempo, chi era rimasto in Cina vedeva l’enorme disparità di informazioni rispetto agli Stati Uniti. Chi è andato a scuola ha studiato almeno un po’ d’inglese e ha accesso alla cultura americana attraverso i film di Hollywood, i programmi tv e altre fonti. Molti imprenditori come Li Dewei usano una vpn: il governo cinese autorizza questi buchi nel suo firewall perché servono per gli affari. Quando sono stato a Yiwu, tutto il mio albergo era collegato a una vpn. Per gli americani, invece, la Cina è rimasta sostanzialmente impenetrabile. Quando gli Stati Uniti hanno cominciato a perdere il loro piccolo nucleo di diplomatici, giornalisti e uomini d’affari che lavoravano in Cina, la conoscenza del paese, già limitata, si è ulteriormente ridotta.
Dal punto di vista del governo cinese, non sembravano esserci grandi incentivi a riaprire. La Cina è stata l’unica grande economia a crescere nel 2020, e il consenso interno per le misure contro la pandemia è aumentato nel corso dell’anno. Le autorità ne sono uscite rafforzate; in autunno, la repressione nello Xinjiang e a Hong Kong è dilagata. Il governo ha approvato quattro vaccini cinesi, ma ancora non c’è stata una spinta alla vaccinazione di massa. Le autorità possono permettersi di aspettare perché in Cina il virus circola pochissimo. Quando parlo con amici e familiari negli Stati Uniti tutti citano i vaccini, mentre tra i cinesi l’argomento non è quasi mai sollevato.
Realtà alternativa
Sempre di più, la versione cinese del 2020 sembra una realtà alternativa. Ho passato un anno intero a insegnare, a viaggiare e a fare interviste faccia a faccia, e non c’è stato un momento in cui ho preso in considerazione la possibilità di aver contratto il virus. Ad agosto, dopo essere stato per una decina di giorni a Wuhan, ho preso l’aereo per Hangzhou dove, il giorno successivo, ho fatto lezione in un auditorium pieno di gente senza mascherina. Poi, insieme a una ventina di altre persone, ho stretto la mano (alla vecchia maniera, in cui dopo ti tocchi la faccia) a Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina. Non è cambiato quasi nulla nelle modalità d’interazione tra le persone, e non ho mai sentito un cinese parlare di “affaticamento da pandemia”. Su trenta milioni di studenti universitari che hanno partecipato a lezioni in aula in l’autunno, ci sono stati solo due casi accertati di contagio.
Sotto molti punti di vista, il sistema e la società cinesi erano perfettamente attrezzati per gestire una pandemia, al contrario degli Stati Uniti. A molti cinesi questo contrasto è sembrato lo specchio di un cambiamento permanente dell’ordine mondiale, ma le persone più riflessive diffidano di questo eccesso di fiducia. “La pandemia è una situazione eccezionale”, mi ha detto Gary Liu, economista e fondatore del National affairs financial review institute, un centro studi privato di Shanghai. “Non se ne possono trarre conclusioni a lungo termine”. Il suo timore è che la pandemia possa giustificare certe strutture autoritarie.
Il 31 dicembre c’è stata la mia ultima lezione del semestre del corso di giornalismo. Ai miei allievi ho chiesto: per voi il 2020 è stato un anno positivo o negativo? All’inizio del mese l’università aveva confinato tutti gli studenti nel campus, perché a Chengdu c’era stato il primo focolaio di covid-19 da febbraio. Con l’arrivo del freddo ci sono stati focolai sparsi in tutto il paese, ma molte zone di Chengdu non sono state colpite. Nel frattempo hanno aperto cinque nuove linee della metropolitana. Quasi il 70 per cento dei miei studenti ha risposto che era stato un buon anno. Lo stesso vale per tanti altri. Li Dewei mi ha detto che i dati di vendita di Zocavia, Zocania e altri marchi di scarpe durante le vacanze invernali sono stati i più alti di sempre, e che il fatturato dell’anno è cresciuto di circa il 15 per cento rispetto al 2019. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio a Washington, Jin Gang ha registrato un picco delle ordinazioni per le bandiere di Trump. Mi ha mandato su WeChat i nuovi layout dei prodotti della Johnin: “Trump 2024: the revenge tour”, “Trump 2024: take America back” e “Trump 2024: save America again!”.
Ogni mattina per andare a scuola le mie figlie si mettono la sciarpa dei Giovani pionieri, come è d’obbligo per tutti gli studenti. A volte si lamentano di non poter andare in Colorado e sentono la mancanza del nostro gatto, di cui si sta occupando la nostra inquilina. Quella vita, però, sembra sempre più lontana. Una mattina le gemelle hanno trovato un gattino abbandonato sulla sponda del fiume Fu, l’hanno portato a casa e l’hanno chiamato Ulysses. Per loro è il modo migliore di adattarsi alla situazione: una realtà qui, una realtà lì. Abbiamo le stesse foto in entrambe le case, e anche alcuni mobili Ikea sono gli stessi. In Colorado avevamo una Honda Cr-v nera parcheggiata in garage; adesso ne abbiamo comprata una uguale. La Cr-v cinese è stata costruita a Wuhan. Anche lì è stato un buon anno per le linee di produzione: la Honda ha dichiarato che nel 2020 le vendite dei suoi modelli di auto in Cina sono aumentate del 5 per cento rispetto all’anno precedente. L’abbiamo soprannominata covid-mobile. Al campus la parcheggio sempre nel seminterrato dell’Istituto per il marxismo. ◆ fas
Peter Hessler è uno scrittore e giornalista statunitense. Il suo ultimo libro è The buried: an archaeology of the egyptian revolution (Penguin Press 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati