Nel dubbio, chiedi a Ken Watanabe. È quello che hanno imparato sul set i produttori e i registi di Tokyo vice, la serie bilingue della Hbo Max su un giornalista statunitense (Ansel Elgort) che esplora il mondo della malavita giapponese. La serie contiene dialoghi per lo più in giapponese, sottotitolati in inglese per il mercato statunitense e basati su copioni scritti originariamente in inglese dal drammaturgo statunitense J. T. Rogers, poi passati attraverso varie fasi di traduzione. Eppure, anche dopo un rigoroso processo di adattamento, il team creativo della serie ha preferito per prudenza ricontrollare la scelta delle parole con Watanabe, un attore che lavora in entrambe le lingue.

“Quando non eravamo d’accordo sulla traduzione dei dialoghi abbiamo lasciato decidere a Ken”, dice Alan Poul, il produttore esecutivo di Tokyo vice che ne ha anche diretto l’episodio finale, Yoshino. “Era molto importante che a decidere fosse qualcuno che, oltre ovviamente a essere giapponese, capisse anche la storia e i personaggi”. Poul, che parla correntemente inglese e giapponese, si è affidato a colleghi come Watanabe e il coregista Hikari soprattutto quando, nel corso della produzione, le restrizioni per il covid-19 sono aumentate e la troupe è diventata sempre più giapponese. “Bisogna rendere in inglese i dialetti locali e anche i diversi modi in cui le persone esprimono le loro emozioni”, spiega Poul. “Non si può tradurre semplicemente parola per parola”.

Il fatto che il pubblico si sia abituato ai sottotitoli ha favorito la diffusione delle serie tradotte, soprattutto sui servizi di streaming. Dai grandi successi di Netflix come Squid game, La casa di carta, Babylon Berlin e Chiami il mio agente! a Tokyo vice su Hbo Max, a Pachinko e Tehran su Apple Tv+, un numero sempre maggiore di serie internazionali sfonda sulle piattaforme statunitensi, obbligando i servizi di streaming a destreggiarsi tra una vasta gamma di sfumature linguistiche mondiali mentre adattano i titoli per un pubblico locale. La localizzazione, il processo con cui si prepara un titolo prodotto in un paese a essere visto in un altro, è un campo minato di sfide logistiche e sensibilità culturali, che prevede le traduzioni per il doppiaggio, le didascalie per non udenti e i sottotitoli, la gestione di cast e troupe bilingui e l’adattamento di termini colloquiali e tradizioni culturali da una lingua all’altra. Siamo lontani dai giorni in cui nel doppiaggio c’erano evidenti forzature culturali – Pokémon tentò di far passare una polpetta di riso giapponese per un “bombolone alla marmellata” – ma serie come Squid game possono ancora riaccendere dibattiti sul modo migliore di adattare i titoli internazionali per il pubblico statunitense.

Quando Squid game è uscito su Netflix ed è diventato un successo mondiale, sono cominciate a piovere proteste sulla pessima traduzione dei dialoghi originali coreani. Battute storpiate, tratti caratteriali distorti, appellativi sbagliati. La serie è servita da involontario esempio di localizzazione riuscita male. Ecco perché migliorare la qualità dei contenuti tradotti è diventata una priorità per i servizi di streaming, che attingono sempre più a risorse internazionali. È un processo che generalmente si svolge in cinque fasi.

1. Riscrivere (e riscrivere e riscrivere) la sceneggiatura Che si stia traducendo un film ad alto budget o una piccola serie documentaria, ogni adattamento comincia con un copione rivisto, spesso definito template (modello). I copioni si basano sulla sceneggiatura usata durante la fase di produzione, a volte con l’aggiunta di note per spiegare il contesto culturale di certe frasi, parole, termini dialettali, appellativi e altre cose da tenere a mente quando si traduce. Come sempre accade nel settore, non esiste uno standard condiviso per i template.

“Tutto dipende dall’azienda” che produce o distribuisce il titolo, dice Kristofer Fredriksson, direttore della LinQ Media, con sede a Stoccolma, in Svezia. “A volte i copioni sono tremendi e bisogna cercare su internet un termine dopo l’altro, altre volte sono fantastici, con le spiegazioni tra parentesi”. La LinQ è una delle aziende che fornisce servizi di localizzazione a cui Netflix e altre piattaforme affidano la produzione di sottotitoli. Anche se i committenti ricontrollano tutto, la traduzione dipende interamente da persone come Fredriksson. Spesso il lavoro è consegnato senza ricevere commenti o una supervisione significativa né da parte delle piattaforme di streaming né delle aziende di produzione.

Anche se non esiste uno standard di qualità universale per i titoli adattati, le piattaforme con una presenza globale hanno cominciato a codificare il loro approccio. Le linee guida per la distribuzione variano da un’azienda all’altra. Netflix, per esempio, ne segue di precise per il doppiaggio e i sottotitoli delle sue serie originali, così da mantenere il significato di una storia nelle varie traduzioni e non finire con decine di interpretazioni diverse. Le linee guida di Disney+ sono nate dal dna dell’azienda, che si è specializzata come distributrice internazionale di home-video decenni prima di entrare nel mercato dello streaming. La sua guida, tra gli altri parametri, indica quali parolacce sono permesse: “La Disney consiglia vivamente di sostituire le seguenti parole con termini alternativi: fica, merda, piscia, cazzo, tetta, scopare e culo”. Hbo Max non pubblica linee guida – la sua espansione nei mercati europei risale solo a marzo – mentre Crunchyroll, il più grande servizio di streaming di anime, non ha regole prestabilite, ma adatta le sue necessità di traduzione a seconda del titolo.

Con l’aumento del numero di lingue richieste, aumenta la necessità di ottimizzare il processo. Un modo per farlo è creare un copione di riferimento in inglese. Per lingue non comunemente parlate al di fuori del paese d’origine o nei casi in cui è più difficile trovare un traduttore (per esempio un traduttore dall’assamese allo spagnolo o dal punjabi allo yiddish), il copione inglese è usato come base dai traduttori di tutto il mondo. “Se si riesce a tradurre una serie spagnola dall’originale è meglio, ma le cose diventano più complicate quando si deve tradurre da lingue come il coreano o il malese”, dice Catherine Retat, direttrice del doppiaggio internazionale di Netflix. Lo svantaggio è che il copione passerà attraverso due traduzioni, cosa che può compromettere l’accuratezza del risultato finale. Retat dice che Netflix segue ogni passaggio del processo, per assicurare la fedeltà all’originale nelle varie lingue.

Ma un copione ineccepibile non garantisce un adattamento perfetto. A volte non è possibile tradurre qualcosa, come le parole inventate. La serie Hbo Il trono di spade ha fatto scalpore quando ha rivelato l’origine del nome di Hodor. Se i fan sono rimasti sconvolti dal destino del personaggio, i traduttori di tutto il mondo si sono messi le mani nei capelli davanti all’impresa di rendere la frase “hold the door” in modo che avesse senso nella loro lingua e, abbreviato, potesse diventare Hodor, con risultati non sempre ottimi.

Dato che non esiste una soluzione valida per tutti i casi, per Fredriksson a volte è meglio mantenere la parola originale. Un balrog resta balrog in inglese, in spagnolo e in norvegese, e lo stesso vale per hobbit.

2. Costruire una “barriera” di sottotitoli Nel discorso di accettazione del Golden globe per il miglior film straniero, vinto con la pellicola in lingua coreana Parasite, il regista Bong Joon-ho ha detto: “Una volta superata quella piccola barriera dei sottotitoli, avrete accesso a tantissimi film meravigliosi”. Aveva ragione, ma prima bisogna crearla, quella barriera, e deve letteralmente entrare nello schermo.

Per l’adattamento di Shrek in spagnolo sudamericano è stato fondamentale il contributo dell’attore comico Eugenio Derbez

Secondo Fredriksson, dato che ogni piattaforma segue le sue linee guida per la distribuzione, le differenze possono influire notevolmente sui sottotitoli. Quando una serie o un film salta da un servizio di streaming all’altro o passa dalle sale cinematografiche allo streaming, spesso i sottotitoli sono riscritti da zero per andare incontro alle esigenze della piattaforma. Le linee guida di Netflix specificano tutto, da posizionamento e allineamento dei sottotitoli all’uso di grassetto e corsivo. Netflix e Disney+ specificano che il numero di caratteri dei sottotitoli inglesi che possono comparire sullo schermo in ogni dato momento – la cosiddetta segmentazione – è 42 per riga, e il numero preciso di fotogrammi durante i quali una riga di dialogo può rimanere sullo schermo prima di passare alla successiva – sincronizzazione – è venti. Anche l’aspetto tipografico è tenuto in considerazione: le linee guida della Apple per le app tvOS elencano le specifiche del font Dynamic type, comprese diverse opzioni per didascalie e sottotitoli.

In generale, dettagli come la segmentazione, la sincronizzazione e i font variano da una lingua all’altra, dato che i caratteri di alcune lingue occupano più spazio di quelli di altre, e anche da una regione all’altra (ci sono differenze, per esempio, tra la formattazione dello spagnolo sudamericano e castigliano). Questo causa anche una grande varietà fra la traduzione letterale dei dialoghi e il testo che compare sullo schermo in 42 caratteri. Come spiega Kathy Rokni, responsabile delle operazioni globali di Netflix, i sottotitoli seguono l’intento creativo del copione originale, anche se non seguono la traduzione letterale. È una delle regole del suo team. Un’altra è che le linee guida per i sottotitoli di Netflix impongono di non tradurre i dialoghi stranieri che non sono tradotti nel testo originale. “Abbiamo responsabili linguistici che stabiliscono gli standard e le regole”, dice Rokni. “E tuttavia rivediamo costantemente le linee guida”, provando alternative.

Il mezzo condiziona profondamente il messaggio. Il numero di personaggi e la velocità del dialogo, in particolare, esercitano un’enorme influenza su quello che i traduttori decidono di tenere. E non sempre la decisione finale è presa dall’azienda che fa la traduzione. Come spiega Fredriksson, la mancanza di spazio e tempo significa che si è costantemente obbligati a trovare compromessi. Battute considerate esilaranti scompaiono dallo schermo troppo in fretta. Parole che sembravano superflue ma fornivano contesto sono scartate. È così che gli appellativi e il contesto culturale vengono cambiati o eliminati, ed è per questo che il copione inglese originale per i sottotitoli di Squid game conteneva la battuta “I never bothered to study, but I’m unbelievably smart” (Non ho mai voluto studiare, ma sono incredibilmente intelligente), che poi è diventata “I never bothered to study, but I’m insanely savvy” (Non ho mai voluto studiare, ma sono sveglia da matti). Una traduzione più letterale sarebbe: “I am very smart, I just never got a chance to be educated” (Sono molto intelligente, ma non ho mai avuto la possibilità di studiare).

La soluzione di Fredriksson è di non tradurre certe cose. Anche se in svedese non esistono gli appellativi sir o ma’am, per decenni queste parole inglesi sono rimaste nei sottotitoli per la tv e il cinema, tanto che ormai il pubblico svedese ne conosce il significato e le dà per scontate. “Più lo vedi e più ti ci abitui”, dice Fredriksson. I vecchi fan degli anime sanno di cosa parla. Prima dell’avvento del simulcasting (la trasmissione simultanea di un programma attraverso più mezzi di comunicazione o più servizi), spesso i fan internazionali degli anime li scoprivano grazie a traduzioni collettive – i fansub – condivise su reti peer-to-peer. I fansub lasciavano intatti i suffissi onorifici e le espressioni idiomatiche giapponesi, spesso con una lunga nota del traduttore che spiegava il significato della parola, e a volte gli esiti erano ridicoli.

Per chi faceva i sottotitoli la cosa importante era la precisione, più che la discrezione, perciò il testo occupava molto più spazio, ma con il tempo le note sono diventate più brevi e meno frequenti, man mano che certe parole entravano nel lessico dei fan inglesi. Termini come senpai, sensei e onii-san sono diventati così comuni per gli spettatori che possono rimanere in originale.

Tokyo vice (Hbo/Warner media)

3. Arriva il doppiaggio Molti spettatori, però, preferiscono ascoltare il doppiaggio che leggere i sottotitoli, anche se non sempre le voci si abbinano alle facce sullo schermo. Ma prima che i doppiatori entrino nella cabina di registrazione, avviene un altro passaggio di traduzione. La direttrice del doppiaggio inglese di Squid game, Madeleine Heil, spiega che prima di registrare i dialoghi manda il copione tradotto a un altro traduttore, che lo adatta per curare la sincronizzazione labiale. “Quando si dice che nella traduzione si perde qualcosa, è assolutamente vero”, spiega. “Si può avere una situazione in cui il traduttore ha usato una parola, ma l’adattatore decide che un’altra funziona meglio per la sincronizzazione labiale. Il copione passa attraverso due fasi e varie cose sono cambiate”.

Secondo Heil, questo rende fondamentale avere un cast di doppiatori che conosca la lingua originale, così da poter individuare errori di traduzione o suggerire alternative migliori (nel caso di Squid game, la maggioranza dei doppiatori era coreano-statunitense). Per le sue serie originali, Disney+ si appoggia alla Disney character voices international, che si occupa esclusivamente di questo e, spiega l’azienda, “lavora di pari passo con la produzione, rivede le prime versioni e i copioni per assegnare le parti in modo appropriato”.

Come sottolineano Heil e Retat, anche se la caratteristica più importante del doppiaggio è la massima fedeltà possibile all’originale, rimane un certo margine d’interpretazione, soprattutto quando si tratta di commedie piene di giochi di parole. Per l’adattamento di Shrek in spagnolo sudamericano, per esempio, è stato fondamentale il contributo dell’attore comico Eugenio Derbez, che ha sostituito gran parte delle battute con altre che funzionavano meglio in spagnolo. “La comicità è difficile da doppiare, perciò bisogna pregare che l’adattatore abbia il senso dell’umorismo”, dice Heil.

4. La stretta delle didascalie Quando hanno cominciato a circolare i commenti sui sottotitoli imprecisi di Squid game, diversi articoli spiegavano la differenza tra le didascalie per non udenti e i sottotitoli della serie. Come dice Rokni, negli Stati Uniti le didascalie per non udenti dei film internazionali si basano sulla traduzione usata dal doppiaggio e sono soggette a determinate restrizioni imposte dalla commissione federale per le comunicazioni. Oltre ai parametri istituzionali, spiega Rokni, “c’è tutta un’altra serie di linee guida da rispettare. Le didascalie per non udenti devono seguire esattamente l’audio inglese, così la velocità di lettura cambia rispetto a quella dei sottotitoli, che possono evitare qualche parola, ma si adattano alla sincronizzazione labiale”.

Ecco perché guardando una serie tradotta si potranno avere due esperienze molto diverse a seconda di quale testo si sceglierà di visualizzare sullo schermo. Le didascalie per non udenti avranno più parole per riga, ma seguiranno il doppiaggio inglese (significa che le parole sono state cambiate almeno due volte) per adattarsi alla sincronizzazione labiale, mentre i sottotitoli inglesi si basano sul primo copione tradotto e tendono a essere più fedeli all’originale.

Per aggiungere un’altra potenziale causa di errore, mentre la squadra di doppiaggio lavora indipendentemente da quello dei sottotitoli, la creazione delle didascalie per non udenti di solito è affidata ai sottotitolatori.

5. Guardare e aspettare Queste sfide non scompariranno presto, dato che Netflix, Hbo Max, Disney+ e altri servizi di streaming annunciano maggiori offerte televisive e cinematografiche provenienti da tutto il mondo. Una volta che quei titoli sono adattati o prodotti, tutto dipenderà dal pubblico, che è molto esplicito riguardo a quello che funziona o meno. Quando sono fatti bene, i sottotitoli o il doppiaggio possono far conoscere agli spettatori storie che altrimenti non avrebbero mai visto. Fatti male, sono un pasticcio sconclusionato. Riflettendo sulle reazioni negative suscitate da Squid game, Sophia Klippvik, responsabile marketing e traduttrice dal coreano della LinQ, dice di capire l’insofferenza degli spettatori per gli errori di traduzione e gli strafalcioni culturali. “Le persone vogliono una finestra sul mondo, sentire di capirlo, e serie come questa possono insegnare molte cose sulla lingua e la cultura”, dice. “Se per qualche motivo la traduzione non è fatta bene, gli spettatori si sentono frustrati”.

La squadra di Tokyo vice ha cercato fin dall’inizio di evitare agli spettatori quel senso di frustrazione. Alan Poul voleva che il pubblico giapponese si appassionasse alla serie quanto quello statunitense e potesse godersela senza notare eventuali errori. Ricorda di aver dovuto interrompere la produzione durante la pandemia, proprio nel periodo in cui le critiche a Squid game su internet erano al culmine. “L’ho visto e non credevo ai miei occhi”, dice Poul. “Non sembra aver rovinato il divertimento agli spettatori statunitensi, ma è sembrato tutto molto dilettantesco. Ho pensato: ‘È per questo che ci stiamo impegnando tanto, perché non vogliamo fare una figura simile’”. ◆ sp

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Questo articolo è uscito sul numero 1476 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati