I l futuro è digitale, e questo vale soprattutto per il commercio. Se lo scambio transfrontaliero di beni e servizi tradizionali è diminuito nell’ultimo decennio, quello di dati, servizi digitali, proprietà intellettuale e perfino di studenti (nonostante una battuta d’arresto dovuta alla pandemia) è in espansione. Tra il 2010 e il 2019 i flussi commerciali legati alla conoscenza sono aumentati a un ritmo doppio rispetto a quelli dei beni tradizionali. E alcune aree sono cresciute ancora più velocemente durante la pandemia, grazie al boom del digitale, secondo un’analisi sulle filiere produttive fatta dai consulenti del McKinsey Global Institute (Mgi).

È una buona notizia: è fondamentale che le idee e i dati attraversino i confini. Ma presenta in sé sfide vecchie e nuove. Prima di tutto bisogna capire come assicurarsi che il commercio digitale non diventi una corsa globale al ribasso, visto che le multinazionali spostano posti di lavoro e dati in aree con manodopera a basso costo e minori tutele della privacy. E poi i politici, i dirigenti e le aziende devono tenere conto del fatto che questo scambio immateriale è diverso da quello dei beni e dei servizi tradizionali, e devono sapere cosa significa per l’economia e la politica a livello globale e locale. Forse la dimensione più importante per la quale il commercio di beni immateriali si differenzia da quello tradizionale è che i dati non sono come un pezzo di carbone o d’acciaio: possono essere usati da molte persone contemporaneamente.

Le informazioni tendono a essere monopolizzate. L’effetto rete ha creato dei colossi in settori che fanno ampio ricorso ai dati, come le aziende tecnologiche e farmaceutiche

In teoria questo dovrebbe creare uno scenario vantaggioso, non solo per le parti di una singola transazione, ma anche per i paesi attraverso i cui i dati si muovono. In pratica, però, le informazioni tendono a essere monopolizzate. L’effetto rete ha creato dei colossi in settori che fanno ampio ricorso ai dati, come le grandi aziende tecnologiche e farmaceutiche. Queste preferiscono creare catene di approvvigionamento molto lineari, perché sono più efficienti ed economiche. Secondo l’Mgi, la concentrazione del commercio è più pronunciata nei settori legati alla conoscenza e ai beni immateriali. Le sei filiere produttive a più alta concentrazione appartengono a questo gruppo. Pensate alle aziende tecnologiche, ai componenti elettronici, ai prodotti farmaceutici e così via.

I legislatori stanno già affrontando alcuni di questi problemi grazie a sforzi più incisivi degli organismi antitrust. In altri settori, come quello dei semiconduttori, si sta tentando di aumentare la produzione regionale, il che permetterebbe a più aziende e paesi di diventare parte attiva dell’offerta. Nel mercato dei farmaci, invece, sono stati fatti pochi progressi per diversificare i flussi. Le multinazionali controllano gran parte del commercio digitale e, come in quello tradizionale, sono incentivate a spostare lavoro e dati dove è più conveniente. Se il commercio di beni immateriali è ancora concentrato soprattutto nei paesi dell’Ocse, c’è una tendenza a esternalizzare più lavoro digitale in luoghi come le Filippine o l’India, dove la tutela dei lavoratori è più scarsa.

Queste preoccupazioni sono ulteriormente aggravate dal fatto che, se da un lato il lavoro da casa è stato una manna per molti dipendenti dei paesi ricchi, dall’altro ha dimostrato fino a che punto i mestieri dei colletti bianchi possono essere svolti da qualsiasi luogo e quindi potenzialmente esternalizzati. Come mi ha detto un anno fa un amministratore delegato, “se puoi lavorare dal lago Tahoe, nella Sierra Nevada, puoi farlo anche da Bangalore”.

I flussi commerciali digitali rispecchieranno alcuni degli aspetti problematici del commercio tradizionale? O creeranno nuove dinamiche? In parte dipende da quanto s’indebolirà il legame tecnologico tra gli Stati Uniti e la Cina. Dipenderà anche da quanto i flussi digitali saranno connessi al mondo materiale.

L’internet delle cose (l’estensione di internet al mondo degli oggetti) fa crescere il flusso di dati all’interno delle aziende e tra loro, un aumento che rispecchia quello dei dati dei consumatori dopo il lancio dell’iPhone nel 2007. “Il commercio digitale non è separato da quello tradizionale”, sostiene Olivia White, direttrice dell’Mgi, “ma non è ancora chiaro quali siano i rapporti di causa e effetto tra i due”.

Abbiamo bisogno di strumenti migliori per misurare i flussi di conoscenza, che sono molto più opachi di quelli dei beni tradizionali. È difficile contarli, tassarli, regolamentarli; è difficile comprenderli. La conoscenza è qualcosa che noi esseri umani creiamo, ma è anche qualcosa che scambiamo. Questa verità è al cuore dell’economia digitale. L’informazione dev’essere libera di circolare. Tuttavia non deve diventare l’ennesimo settore in cui i guadagni del capitale superano quelli del lavoro. Se questo succederà, possiamo aspettarci una rivolta dei colletti bianchi contro il commercio digitale. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati