“Cosa c’è qui, un outlet? Che succede?”, chiede grattandosi la testa il tassista che mi porta a Picun. Sono nella periferia orientale di Pechino, tra il quinto e il sesto anello (le circonvallazioni della capitale cinese), al confine tra la metropoli e la campagna. In questa zona nel corso degli anni hanno trovato alloggio più di ventimila persone. Fanno parte dei milioni di cinesi partiti dalle zone rurali per andare a lavorare nelle città.

Nel quartiere ormai noto come “borgo degli operai”, nel 2008 ha aperto un museo d’arte e cultura operaia, l’unico spazio pubblico della Cina creato da lavoratori migranti. Una collezione di circa cinquecento opere racconta e celebra i quasi trecento milioni di cinesi che dalla fine degli anni settanta hanno lasciato le campagne per cercare lavoro nelle fabbriche e nelle città, senza però ottenere i diritti di risiedere lì, di accedere ai servizi sanitari e di mandare i figli a scuola.

L’intero quartiere sarà demolito, insieme alle strutture che ospitano il museo e altre attività culturali. Secondo il piano urbanistico al suo posto sorgerà un’area verde. Il direttore del museo Wang Dezhi ha organizzato una festa d’addio per il luogo a cui ha dedicato quindici anni della sua vita. Con un post su WeChat, diventato immediatamente virale, ha dato appuntamento per la celebrazione il 20 maggio alle 18. Qualcuno ha commentato: “Alla faccia della grande memoria storica e dei valori socialisti! Il museo d’arte e cultura operaia è un modello per la creazione di spazi alternativi, ed è anche un mezzo per osservare, misurare, esplorare, correggere e predire lo sviluppo sociale”. I ricercatori e gli studenti di antropologia e sociologia si sono mostrati più interessati dei mezzi d’informazione tradizionali a quello che succede a Picun. Il messaggio sulla chiusura del museo è stato condiviso molte volte. Quando arrivo all’evento ci sono già più di un centinaio di persone.

Per la maggior parte sono studenti e professionisti con macchine fotografiche e videocamere venuti a riprendere il discorso d’addio del direttore Wang: “La giornata di oggi ha superato le nostre aspettative. Eravamo preparati alla visita di una decina di amici, e invece… Ci sono dei giornalisti stranieri? Ricordo che non rilascio interviste”. Com’era già successo nel 2016, quando a Picun era arrivata la campagna governativa per cacciare da Pechino la “popolazione di fascia bassa” (cioè i lavoratori più poveri e meno qualificati), Wang evita di parlare con i giornalisti per non innervosire i funzionari locali.

Oltre all’ex fabbrica che ospita il museo e al centro polifunzionale Gongyou zhi jia (Casa dei lavoratori), l’organizzazione non governativa che gestisce il progetto aveva affittato tre case a corte da adibire a uffici, alloggi e magazzini per le imprese sociali. Quando il municipio di Picun ha provato a confiscare i loro terreni e a interrompere la fornitura d’acqua e di elettricità, Wang è intervenuto prima che la situazione degenerasse. Ha vissuto in questa periferia urbana per quasi vent’anni, conosce tutti i funzionari locali e china la testa in segno di rispetto quando li incontra.

“Certo”, osserva, “ci sono state esperienze spiacevoli. Ma la casa dei lavoratori è stata costruita con il supporto del comitato di partito e del municipio di Picun. Il governo locale ha fornito al cinema-teatro il necessario per le proiezioni e l’impianto di aria condizionata. Tutto quello che abbiamo fatto non sarebbe stato possibile senza il pieno sostegno dell’amministrazione”.

La definizione giusta

I migranti che negli ultimi quarant’anni hanno abbandonato le campagne per le città hanno dato un enorme contributo alla rapida crescita economica della Cina. Il percorso museale copre un periodo di trentacinque anni e descrive le difficoltà che queste persone hanno incontrato, la loro crescita esponenziale e le loro lotte per ottenere, in un’epoca di grandi cambiamenti, il riconoscimento del loro posto nella società e dei loro diritti.

“Molti hanno conosciuto il museo d’arte e cultura operaia proprio perché rappresenta un gruppo specifico di lavoratori”, racconta Wang. Secondo lui non dovrebbero essere chiamati “lavoratori migranti”, ma semplicemente “nuovi operai”, perché queste persone hanno lasciato per sempre le loro terre e non torneranno più nei villaggi a coltivare i campi.

Il museo custodisce gli oggetti donati dai nuovi operai dal 1978, cioè dall’inizio dell’epoca delle riforme di Deng Xiaoping e dell’apertura all’economia di mercato, al 2013. Ci sono richieste di trasferimento, tessere annonarie, documenti delle aziende pubbliche, buste paga, diari degli addetti alla catena di montaggio, registri di entrata e uscita dalla fabbrica, bollette, canoni di affitto, note disciplinari e lettere ai familiari. Ci sono i modelli per gli infortuni sul lavoro e le testimonianze delle difficoltà incontrate per proteggere i diritti degli operai; foto ed esempi delle necessità quotidiane dei figli lasciati nei villaggi di campagna e di quelli portati in città dai genitori, perdendo il diritto di frequentare le scuole dell’obbligo. Ci sono anche pubblicazioni di ong ormai chiuse. Ogni oggetto è un pezzo di memoria individuale, che richiama la quotidianità opprimente di un gruppo emarginato.

Dopo la demolizione del museo, che fine faranno questi documenti? Wang Dezhi elenca una serie di possibilità. L’ufficio per la ricerca industriale della federazione nazionale dei sindacati vorrebbe una parte delle opere per una mostra sui movimenti operai. Il segretario del Partito comunista di Picun propone di fare richiesta per candidare il museo a simbolo della nuova Picun. Un’università dello Hebei potrebbe ospitare i documenti, mentre un privato cittadino dello Hunan ha offerto la sua casa come magazzino. Infine, un’azienda di Pechino si è fatta avanti per digitalizzare il tutto e metterlo online.

Il gruppo letterario

Non è ancora chiaro che succederà, ma la sera del 20 maggio i lavoratori dicono addio al museo.

Hu Xiaohai, poeta e musicista rock, ha composto alcuni versi sul centro e la sua imminente demolizione:

Le ruspe accartocciano i macchinari come fossero carta, distruggono tutto

Un gruppo di persone se ne va

Presto qui ci sarà una distesa di detriti

ma il museo è un miracolo nato dalle rovine

Costruzione e distruzione si alternano

come nella vita dei lavoratori.

Hu, nato nel 1987, ha cominciato a lavorare a quindici anni e mezzo. Per tredici ha sgobbato nelle catene di montaggio delle fabbriche che costellano i delta del fiume Azzurro e di quello delle Perle. Per lui è facile identificarsi con i lavoratori della Foxconn (una multinazionale che produce componenti elettronici), disperati al punto di non trovare più la forza di vivere. All’epoca leggeva, scriveva e suonava per dare un senso alle sue giornate. E usava la piattaforma di microblogging Weibo per mandare messaggi ai musicisti più famosi. Il

cantante Zhang Chu gli ha risposto: ha chattato con Hu per più di un anno e alla fine lo ha raccomandato al gruppo musicale dei nuovi operai di Picun.

La band e il collettivo letterario che si riunisce ogni sabato hanno fatto di Picun un luogo unico, il punto d’incontro di quei lavoratori che vorrebbero diventare scrittori o artisti. Del collettivo ha fatto parte Fan Yusu, scrittrice di talento la cui opera prima, una specie di autobiografia intitolata Wo shi Fan Yusu (Sono Fan Yusu) è stata pubblicata online nel 2017 e ha raggiunto più di un milione di lettori in appena una settimana, per poi essere censurata.

L’evento di chiusura sta per finire. Alcuni vanno a mangiare in qualche trattoria lì vicino, mentre altri fotografano ogni angolo del centro

Una collaboratrice domestica proveniente dalla regione del Sichuan ha letto ad alta voce la poesia di un volontario che ammira, Yuan Changbin. S’intitola “Addio, museo di arte e cultura operaia.

Se questa è una pagina della storia di quest’epoca

perché mai dovremmo lasciarla in bianco?

Se la storia è scritta dal popolo

perché si dovrebbe ignorare la nostra esistenza?

Serve un libro sulla storia dei lavoratori migranti

che li accompagni nella loro era.

Il museo di arte e cultura operaia

lo dimostra chiaramente:

se non abbiamo la nostra cultura,

non abbiamo la nostra storia

Se non abbiamo la nostra storia,

non avremo futuro.

Il direttore Wang racconta che, insieme ad altri colleghi, ha cominciato a interessarsi ai gruppi di contadini che migravano in città in cerca di lavoro nel 2002. All’epoca molti studenti e ricercatori universitari si occupavano della cosiddetta questione dei tre nong: nongmin, nongcun, nongye (i contadini, le aree rurali e l’agricoltura). All’inizio del duemila i loro problemi erano stati sintetizzati dal segretario di partito di un villaggio dello Hubei in una lettera all’allora premier Zhu Rongji: “I contadini soffrono, le campagne sono povere e l’agricoltura è in pericolo”. Wang ha sottolineato con rammarico che, negli ultimi dieci anni, l’interesse verso gli operai è diminuito drasticamente: “Forse è un terzo di quello a cui eravamo abituati. Non so cos’ha fatto crescere il divario tra le classi sociali, e non saprei come ridurlo. Ma possiamo fare in modo che smetta di aumentare. Se si allargasse ancora, sarebbe un male per la nostra ‘società armoniosa’”.

Per l’ultima volta

L’evento di chiusura del museo sta per finire. Alcuni dei presenti vanno a mangiare in qualche trattoria economica lì vicino, mentre altri si mettono a fotografare ossessivamente ogni angolo del centro. Una ragazza con i jeans indica una tessera annonaria per il grano e chiede a Wang cosa sia. Lui le racconta che, all’inizio degli anni novanta, non si poteva comprare e vendere liberamente: ognuno aveva un numero limitato di bigliettini da scambiare con beni di prima necessità.

Un ragazzo con gli occhiali fotografa i pannelli informativi sui lavoratori migranti le cui vicende hanno scosso l’intera Cina. C’è la storia di Sun Zhigang, morto nel 2003 in detenzione perché non aveva il permesso di risiedere in città. C’è quella di Zhang Haichao, che nel 2009 si è volontariamente sottoposto a un’operazione ai polmoni per dimostrare di avere una malattia professionale, la pneumoconiosi. E quella di Cui Yingjie, che nel 2006 ha accoltellato a morte il vigilante che gli voleva confiscare il veicolo a tre ruote necessario per la sua attività di venditore ambulante. Si parla anche dei cosiddetti schiavi delle fornaci di mattoni, uno scandalo che la stampa ha svelato nel 2007 e degli almeno tredici operai giovanissimi che tra il 2010 e il 2011 si sono suicidati buttandosi dal tetto degli stabilimenti della Foxconn.

Molti di quelli che rimangono cercano l’ultima copia del quindicinale del collettivo letterario di Picun “Letteratura dei nuovi operai”, che si apre con un testo di Fan Yusu ed è subito andato esaurito. Alle otto di sera il pubblico comincia a disperdersi lentamente e i lavoratori in ciabatte, che un po’ emanano odore di alcol, riprendono possesso dei loro spazi. Qualcuno fruga tra i vestiti usati del negozio di beneficenza di fronte.

“È la prima volta che vengo e sarà anche l’ultima”, sussurra una ragazza all’orecchio del compagno. E con queste parole esce, per sempre, dal museo. ◆ cag

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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati