L’instabilità cronica della Somalia è spesso considerata un problema complesso e dalle molte sfaccettature. Da trent’anni il paese passa da una crisi all’altra: i clan rivali nella guerra civile non avevano ancora smesso di sparare che sono entrati in scena i jihadisti. Oggi i combattimenti che infuriano nella Somalia meridionale oppongono Al Shabaab – la più potente branca di Al Qaeda e la maggiore minaccia alla sicurezza nazionale e regionale – a una rivolta dei clan sostenuta dal governo di Mogadiscio. Quando è stato eletto a maggio, il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud si è impegnato a sradicare il gruppo estremista islamico. Tuttavia, nei primi tre mesi del suo mandato – che Mohamud ha passato per lo più viaggiando all’estero e distribuendo incarichi in base a una logica clientelare – Al Shabaab ha intensificato gli attacchi nella capitale Mogadiscio e negli stati federali di Hirshabelle, Galmudug e Sudovest, dove sono stati uccisi anche dei ministri. A giugno i jihadisti hanno colpito alcuni villaggi vicino al confine con l’Etiopia. Lì, però, sono stati sconfitti dall’amministrazione locale e dagli abitanti della regione, che li hanno scacciati rapidamente.

Il loro esempio ha ispirato altri stati della federazione. Nella regione dell’Hiran, con il supporto del governo, si sono formate milizie su base clanica chiamate maawisley (dal nome di un indumento tradizionale somalo). Questi gruppi armati hanno lanciato attacchi contro Al Shabaab nella loro area per poi estendere l’offensiva alle regioni di Galguduud e Bay.

Il presidente e i suoi collaboratori si dicono certi che la guerra decreterà la fine di Al Shabaab e in questo hanno il sostegno internazionale. Nel discorso del 22 settembre all’assemblea generale delle Nazioni Unite, Mohamud ha dichiarato che il suo governo ha assunto un “ruolo di guida nella lotta al terrorismo”. Sul campo, però, spicca l’assenza di una figura di comando: finora la strategia governativa si è basata solo sull’armare i clan.

Al Shabaab non è un’organizzazione “periferica”: è riuscita a penetrare in profondità nella vita politica ed economica e nelle forze di sicurezza somale, e fa di tutto per colmare i vuoti lasciati dallo stato. Per esempio, nel sud i jihadisti raccolgono più tasse delle amministrazioni locali. Secondo l’Hiraal institute, quest’anno il bilancio della loro organizzazione ha raggiunto i 288 milioni di dollari. Da vari resoconti emerge che molti cittadini si rivolgono alle corti di Al Shabaab per le loro controversie, invece che ai tribunali dello stato. Vogliono evitare le lungaggini burocratiche, i costi eccessivi e la corruzione dovuta al nepotismo in un paese che dal 2006 è il fanalino di coda nell’indice della percezione della corruzione realizzato dall’ong Transparency international.

I jihadisti sono anche in grado di raccogliere grandi quantità d’informazioni, una capacità che risulta evidente dalla precisione dei loro attentati: secondo alcuni analisti, sono riusciti a infiltrarsi nell’agenzia nazionale dell’intelligence.

Retorica pericolosa

Al Shabaab ha una strategia forte di un’esperienza ventennale e ingenti risorse a disposizione. Invece la controstrategia governativa è “armare i clan”: una scelta debole e rischiosa in un paese che non è mai uscito dalla guerra civile, perché mette a rischio il monopolio dello stato sull’uso della forza e la sua capacità di garantire la stabilità.

Armare i clan è un ritorno al passato. Nella migliore delle ipotesi, modificherà le dinamiche interne ai gruppi di potere. Questo è pericoloso, soprattutto alla luce della politicizzazione dell’identità di clan e della lotta per gli incarichi statali. La strategia del governo pone anche altri interrogativi: perché le milizie non sono inglobate nell’esercito nazionale, sotto un’unica struttura di comando? E che fine ha fatto l’esercito somalo, per il quale sono stati spesi 1,5 miliardi di dollari? Perché i ventimila soldati della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis) non vanno a combattere e stanno chiusi nelle caserme, anche se percepiscono stipendi cinque volte più alti di quelli dei militari somali?

Chiunque faccia queste domande è accusato di essere complice dei terroristi. Quando Mohamud dichiara pubblicamente “O state con noi o con il nemico”, ricorda il presidente statunitense George W. Bush dopo l’11 settembre 2001. È una retorica pericolosa perché con la scusa dei “legami con il terrorismo” apre la via ai regolamenti di conti per le strade. È vero, Al Shabaab è un’organizzazione criminale che ha ucciso moltissime persone e punta ad annientare il sogno dei somali di costruire uno stato civile. Le autobombe sono un incubo quotidiano nel sud della Somalia. I pozzi e le cisterne d’acqua delle comunità di pastori, già provate dalla siccità, vengono fatti esplodere, insieme alle antenne per le telecomunicazioni, per isolare i villaggi. I jihadisti sembrano intenzionati a distruggere sistematicamente le infrastrutture come forma di punizione collettiva. Combatterli è dunque urgente.

Ma chi pensa che Al Shabaab crolli davanti alle milizie dei clan s’illude. Per ottenere progressi sul campo bisognerebbe mobilitare le unità addestrate dagli Stati Uniti e quelle formate dalla Turchia, insieme alle forze dell’Atmis. Il governo dovrebbe portare gli scontri nelle roccaforti del gruppo, invece di rincorrerlo in villaggi sperduti.

L’ideologia di Al Shabaab è importata dall’estero, ma va comunque affrontata con una contronarrazione convincente. I jihadisti cercano reclute tra le persone marginalizzate, spesso di clan minori, che nel nichilismo jihadista trovano una risposta alle ingiustizie commesse dallo stato o dai signori della guerra. La nuova strategia dovrebbe rispondere alle richieste di giovani senza speranze, ai quali sono negati dignità, istruzione e beni di prima necessità. È necessario rafforzare la lotta contro la corruzione e sviluppare il sistema giudiziario.

Il governo può sconfiggere Al Shabaab non solo perché ha il sostegno popolare, ma anche perché ha comprato droni di fabbricazione turca. Questo cambierà le carte in tavola com’è successo in Etiopia, Armenia e Libia. L’assenza di una strategia del governo onnicomprensiva resta un problema. Si sta profilando una lotta tra due forze squilibrate per quanto riguarda l’organizzazione, la tattica e la capacità di sopravvivenza: sotto tutti questi aspetti, Al Shabaab è in vantaggio. A pagare il prezzo più alto saranno i pastori nomadi, che non hanno possibilità di resistere di fronte al gruppo jihadista meglio organizzato al mondo. Le armi di cui lo stato inonderà i clan non faranno che gettare benzina sul fuoco. ◆ gim

Suhaib Mahamoud è un ricercatore e giornalista somalo che vive in Qatar.

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Dalla carestia alle autobombe

È salito a 120 morti il bilancio delle vittime dell’esplosione, il 29 ottobre 2022, di due autobombe all’incrocio di Zobe, nel centro di Mogadiscio, scrive il sito Garowe Online. La prima auto è saltata in aria davanti al ministero dell’istruzione; la seconda, pochi minuti dopo, tra le persone arrivate per soccorrere i feriti, che sono stati più di trecento. Le modalità dell’attacco, rivendicato da Al Shabaab, ricordano quelle del più grave attentato mai compiuto nel paese: nello stesso punto della capitale, il 14 ottobre 2017 un camion bomba causò 587 morti. Dall’agosto del 2022 i jihadisti hanno intensificato gli attacchi contro alberghi e uffici pubblici in varie parti del paese, causando numerose vittime civili.

Al momento Al Shabaab è sotto pressione per le operazioni militari condotte nelle ultime settimane dall’esercito insieme alle milizie claniche maawisley. All’inizio di ottobre un attacco aereo statunitense ha ucciso Abdullahi Yare, uno dei fondatori del gruppo. Dopo la fine della presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno ristabilito una presenza permanente nel paese africano.

In questo contesto di guerra, la Somalia affronta una delle peggiori siccità degli ultimi cinquant’anni. Lo spettro della fame incombe su otto milioni di persone che dipendono dagli aiuti umanitari per sopravvivere. La carestia del 2011 causò 260mila morti, soprattutto nelle zone controllate da Al Shabaab. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati