In principio erano i giornalisti, e facevano domande. In televisione si affacciarono sugli spalti di Tribuna politica, lo schermo era in bianco e nero, il format prendeva spunto dalle conferenze stampa e i politici rispondevano. C’erano i partiti, le strategie andavano argomentate e spiegate. Passano gli anni, le cose si complicano, la realtà s’ingarbuglia, le ideologie si affievoliscono e c’è bisogno di punti di vista. Occorre gente informata e con un buon eloquio: i cronisti si trasformano in opinionisti. Più che fare domande, rispondono su temi che vanno dalla politica alla scienza al costume. La tv ne definisce i tratti da personaggi: gli aggressivi, i saggi, gli eretici, i riflessivi, i provocatori. La commedia funziona così bene che i palinsesti si piegano alla regola dei talk show e alla nuova umanità. Giornalisti ovunque, in studio, in collegamento, in differita, ubiqui. E visto che anche le opinioni non sono infinite, te li ritrovi a ripetere parole in forma di slogan. È qui, fenomeno abbastanza recente, che comincia la terza fase: quella dei giornalisti che si comportano da candidati. Se non fosse per i sottopancia, con nome e cognome, sarebbe difficile distinguere l’ospite politico dal cronista in rappresentanza di una testata. La spinta a demolire l’avversario o a difendere le ragioni della propria parte ha la medesima veemenza, e un’unica fonte a cui attingere: se stesso. Il punto esclamativo ha disarcionato il collega interrogativo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati