Nel maggio 1962 una ragazza di nome Ing Giok Tan s’imbarcò su una vecchia nave arrugginita in partenza da Jakarta, in Indonesia. Il paese era stato trascinato nel conflitto mondiale tra capitalismo e comunismo, e i genitori della ragazza avevano deciso di scappare per sottrarsi alle terribili conseguenze del conflitto per famiglie come la sua. Erano diretti in Brasile, perché avevano sentito da altri indonesiani partiti prima di loro che quel paese offriva libertà, opportunità e una tregua dal conflitto. Ma non ne sapevano quasi niente. Il Brasile per loro era solo un’idea, ed era molto lontano. Tormentati dall’angoscia e dal mal di mare per 45 giorni, superarono Singapore, navigarono nell’oceano Indiano fino a Mauritius, scesero fino al Mozambico, circumnavigarono il Sudafrica e poi attraversarono l’Atlantico fino a São Paulo, la più grande città dell’America Latina. Se pensavano di poter scappare dalla violenza della guerra fredda, si stavano tragicamente sbagliando.
Due anni dopo il loro arrivo, i militari rovesciarono la giovane democrazia brasiliana e instaurarono una violenta dittatura. Poi gli immigrati indonesiani ricevettero dei messaggi da casa che descrivevano scene sconvolgenti, un’esplosione di violenza così terrificante che perfino parlarne faceva vacillare la salute mentale delle persone. Purtroppo i resoconti erano tutti veri. Sulla scia di quell’apocalittico massacro, l’Indonesia – una giovane nazione disseminata di corpi mutilati – si trasformò in uno degli alleati più affidabili di Washington, e poi sparì quasi completamente di scena.
I fatti accaduti in Brasile nel 1964 e in Indonesia nel 1965 hanno determinato i successi forse più importanti per gli Stati Uniti, vincitori della guerra fredda, e per l’attuale sistema economico mondiale. Sono tra gli eventi più significativi in un processo che ha fortemente influenzato la vita di tutti noi. Entrambi i paesi erano rimasti indipendenti rispetto alle due superpotenze mondiali, capitalista e comunista, ma entrarono definitivamente a far parte dello schieramento statunitense a metà degli anni sessanta.
I funzionari a Washington e i giornalisti di New York all’epoca si resero sicuramente conto dell’importanza di questi avvenimenti. Sapevano che l’Indonesia, oggi il quarto paese più popoloso del mondo, era una conquista molto più importante di quanto avrebbe mai potuto esserlo il Vietnam. Nel giro di pochi mesi in quella parte del mondo la politica estera statunitense riuscì a ottenere quello che non seppe raggiungere in dieci anni di guerra sanguinosa in Indocina. E la dittatura in Brasile, oggi il quinto paese più popoloso del mondo, ebbe un ruolo cruciale nello spingere il resto del Sudamerica nel gruppo di nazioni anticomuniste filostatunitensi. In entrambi i paesi l’Unione Sovietica aveva un peso irrilevante.
Ma la cosa più sconvolgente è che i due avvenimenti portarono alla creazione di una mostruosa rete internazionale di sterminio – cioè la sistematica uccisione di massa di civili – in molti altri paesi, e questo ebbe un ruolo cruciale nel costruire il mondo in cui viviamo oggi.
Ignorare la verità
La maggior parte di noi sa poco dell’Indonesia, e quasi nulla di quello che avvenne nel biennio 1965-1966 in quell’arcipelago. La verità rimase nascosta per decenni. La dittatura instaurata sulla scia della violenza di quegli anni raccontò al mondo una menzogna, e i sopravvissuti erano in carcere o troppo terrorizzati per parlare. È solo grazie agli sforzi di eroici attivisti indonesiani e di appassionati studiosi di tutto il mondo che oggi possiamo raccontare questa storia. I documenti recentemente desecretati a Washington sono stati di enorme aiuto, anche se quello che successe rimane in parte avvolto nel mistero. L’Indonesia probabilmente uscì dal radar proprio perché gli avvenimenti del 1965-1966 furono un successo completo per gli Stati Uniti. Nessun soldato americano perse la vita e in patria nessuno corse dei pericoli. Anche se i leader indonesiani negli anni cinquanta e sessanta avevano avuto un ruolo importante sulla scena internazionale, dopo il 1966 il paese smise completamente di creare problemi.
Cominciai a ricevere minacce, mi accusavano di essere un comunista
Ma dopo aver studiato la documentazione e aver passato molto tempo con persone che vissero quegli avvenimenti, mi sono fatto un’altra idea inquietante del perché siano stati dimenticati. Temo che quello che avvenne contraddica così profondamente la nostra idea di cosa fu la guerra fredda, di cosa significa essere statunitensi e di come si è realizzata la globalizzazione, che è stato semplicemente più facile ignorare la verità.
Due episodi della mia vita mi hanno convinto che gli eventi di metà degli anni sessanta siano ancora con noi e che i loro fantasmi continuino a infestare il mondo. Nel 2016 lavoravo per il sesto e ultimo anno come corrispondente dal Brasile per il Los Angeles Times, ed ero andato al congresso di Brasìlia perché i parlamentari si stavano preparando a votare sulla possibile messa in stato d’accusa della presidente Dilma Rousseff, un’ex guerrigliera di sinistra e prima donna presidente del paese. In fondo a un corridoio riconobbi un deputato di estrema destra poco rilevante ma decisamente schietto, Jair Bolsonaro, così lo avvicinai per una rapida intervista. Era già ampiamente noto a tutti che gli avversari politici di Roussef stavano cercando di rovesciare il suo governo con un pretesto tecnico e che chi stava organizzando la sua rimozione era molto più corrotto di lei. Dato che ero un giornalista straniero, chiesi a Bolsonaro se non temeva che la comunità internazionale potesse mettere in dubbio la legittimità del governo, più conservatore, che avrebbe rimpiazzato Rousseff, considerando la discutibile procedura di quel giorno. Le risposte che mi diede sembravano così lontane dalle opinioni correnti, una totale resurrezione dei fantasmi della guerra fredda, che alla fine decisi di non usare l’intervista. Disse: “Il mondo festeggerà quello che facciamo oggi, perché stiamo impedendo al Brasile di trasformarsi in un’altra Corea del Nord”. Era assurdo. Rousseff era una leader di centrosinistra e il suo governo era stato fin troppo favorevole alle grandi multinazionali. Pochi minuti dopo Bolsonaro si avvicinò al microfono della camera e rilasciò una dichiarazione che sconvolse il paese. Dedicò il suo voto a favore della messa in stato d’accusa a Carlos Alberto Brilhante Ustra, il colonnello che durante la dittatura aveva fatto torturare Rousseff. Era una provocazione ignobile, un tentativo di riabilitare il regime militare anticomunista del paese e di diventare il simbolo nazionale di un’estrema destra che si opponeva a tutto.
Qualche settimana dopo, quando intervistai Rousseff mentre aspettava il voto finale che l’avrebbe rimossa, la nostra conversazione inevitabilmente affrontò il ruolo degli Stati Uniti negli affari del Brasile. Considerando quante volte e in quanti modi Washington era intervenuta per rovesciare i governi sudamericani, molti dei sostenitori della presidente si chiedevano se anche questa volta non fosse coinvolta la Cia. Lei rispose di no: era una conseguenza delle dinamiche interne del Brasile. Ma questo, in un certo senso, era anche peggio: la dittatura brasiliana si era trasformata in un tipo di democrazia che poteva tranquillamente eliminare chiunque – come Rousseff o l’ex presidente Lula – fosse considerato una minaccia agli interessi delle élite economiche o politiche, e queste potevano appellarsi ai demoni della guerra fredda per dichiarare battaglia in loro nome come e quando volevano.
Oggi sappiamo fino a che punto la manovra di Bolsonaro abbia avuto successo. Quando è stato eletto presidente, alla fine del 2018, mi trovavo a Rio. Per le strade sono immediatamente scoppiati dei disordini. Omoni massicci avevano affrontato delle donne tatuate che esibivano adesivi di sostegno al candidato rivale: “Comuniste! Andatevene!”.
Il secondo episodio risale al 2017, quando ho viaggiato nella direzione opposta a quella presa da Ing Giok Tan tanti anni prima e mi sono trasferito da São Paulo a Jakarta come corrispondente dal sudest asiatico del Washington Post. Pochi mesi dopo il mio arrivo, un gruppo di accademici e attivisti aveva organizzato una piccola conferenza per discutere i fatti del 1965. Ma sui social network qualcuno stava diffondendo la voce che si trattasse di un incontro per resuscitare il comunismo – ancora illegale nel paese dopo più di cinquant’anni – e quella notte una folla si era diretta verso il luogo dell’iniziativa, poco dopo che me n’ero andato.
Gruppi composti in larga misura da islamisti, che oggi si vedono spesso alle manifestazioni di piazza più aggressive, avevano circondato l’edificio intrappolando tutti quelli che si trovavano all’interno. La mia compagna di stanza, Niken, una giovane sindacalista della provincia di Java Centrale, era rimasta prigioniera tutta la notte, mentre la folla menava colpi sulle pareti urlando “Schiacciamo i comunisti!” e “Bruciamoli vivi!”. Mi aveva mandato dei messaggi terrorizzata chiedendomi di rendere pubblico quello che stava succedendo, e io avevo postato la notizia su Twitter.
Cominciai a ricevere minacce e l’accusa di essere un comunista, addirittura iscritto all’inesistente Partito comunista indonesiano. Mi ero abituato a ricevere messaggi di questo tipo quand’ero in Sudamerica. Le somiglianze non erano casuali. In entrambi i paesi la paranoia può essere fatta risalire a una svolta traumatica avvenuta alla metà degli anni sessanta.
Un lavoro nella capitale
Magdalena è nata nel 1948, quando le forze schierate per l’indipendenza dell’Indonesia, sotto la leadership del primo presidente del paese, Sukarno, combattevano ancora per cacciare i colonizzatori olandesi. È cresciuta in una travagliata famiglia contadina, perennemente sbattuta da una parte all’altra per i problemi tra i genitori, le malattie e la miseria. Come gran parte degli abitanti di Java (con la notevole eccezione di quelli di etnia cinese) era musulmana, ma non aveva mai approfondito troppo lo studio del Corano. A scuola le piaceva il gamelan, il tradizionale genere musicale di Java, ma fu costretta molto presto a lasciar perdere tutto questo. A 13 anni abbandonò la scuola per lavorare come cameriera in una famiglia della zona. A 15 tornò a casa perché la madre si era ammalata, e cominciò a vendere di tutto ai vicini pur di racimolare un po’ di soldi: legna, insalata, pasti pronti, cassava fritta.
Non era mai stata in una grande città, ma si diceva che fosse più facile trovare lavoro a Jakarta. Una zia, Le, aveva dei conoscenti nella capitale e le disse che poteva aiutarla a sistemarsi. Così, a 16 anni, salì su un treno e viaggiò per un giorno intero verso ovest su binari posati dagli olandesi un secolo prima, e arrivò a Jakarta da sola. Passando accanto al Monumento nazionale si meravigliò per le sue dimensioni: era dieci volte più alto di qualunque edificio avesse mai visto.
In totale si calcola che furono assassinate più di 500mila persone
Effettivamente quasi subito trovò un impiego in una fabbrica di magliette. Il suo nuovo datore di lavoro la alloggiò in un piccolo appartamento annesso allo stabilimento insieme alle altre ragazze. La mattina si mettevano l’uniforme e poco dopo le sei si stipavano in un grande autocarro che le portava dalla zona est di Jakarta fino a Duren Tiga, a sud, attraversando tutta la città. Lavoravano dalle sette alle quattro, e la paga non era male. Gli uomini lavavano la stoffa e le donne la tagliavano nella forma giusta. Qualcun altro, da qualche altra parte, assemblava il tutto. Le condizioni erano decenti, pensava Magdalena. E scoprì subito che era merito del Sobsi, la rete sindacale affiliata al Partai komunis indonesia (Pki) che aveva organizzato la maggioranza dei lavoratori del paese. Si iscrisse, come facevano tutti, e dopo qualche mese le fu affidato un piccolo ruolo amministrativo nel sindacato locale, senza molti compiti concreti. Andava, tagliava la stoffa e tornava a casa. Quello fu il suo primo contatto, ben poco significativo, con la politica indonesiana. Capiva a malapena gli slogan rivoluzionari e il gergo ideologico che venivano dalla radio al lavoro. Non sapeva quasi niente del Pki, e non aveva idea che fosse il più grande partito comunista del mondo fuori della Cina e dell’Unione Sovietica. E non sapeva neppure che il presidente Sukarno, uno dei fondatori del movimento dei paesi non allineati, che non volevano schierarsi con la superpotenza capitalista né con quella comunista, era al centro di un aspro scontro con gli Stati Uniti e il Regno Unito. Sapeva solo che il Sobsi faceva parte del gioco, e che era di grande aiuto.
Quando usciva dal lavoro, di solito Magdalena era troppo stanca per fare granché, e un po’ troppo giovane e sola per avventurarsi nella grande città. Non parlava di politica dopo il lavoro, gironzolava e chiacchierava con la sua migliore amica di Jakarta, Siti, magari di ragazzi e storie di coppie. Anche se non era mai uscita con nessuno, aveva capito presto che la consideravano molto graziosa. Un fidanzato avrebbe potuto averlo in futuro. Per il momento cercava di mettere insieme dei risparmi per una vita che le desse almeno qualche garanzia di sicurezza.
Uno strano tentativo di golpe
Il 29 settembre 1965 la maggioranza degli indonesiani ignorava completamente chi fosse il generale Suharto. Ma la Cia lo conosceva bene. Già nel settembre 1964, in un dispaccio segreto, la Cia lo indicava tra i generali dell’esercito che considerava “favorevoli” agli interessi statunitensi e anticomunisti. Il dispaccio avanzava anche l’idea che una coalizione anticomunista formata da militari e civili potesse prendere il controllo del paese nel caso di una lotta per il potere. Anche i leader del Movimento 30 settembre – a loro volta ufficiali delle forze armate – conoscevano il generale Suharto. La natura della loro operazione, che cominciò nelle prime ore del mattino del 1 ottobre 1965, è ancora avvolta nel mistero.
Sappiamo che per tutto il 1965 la situazione politica del paese era rimasta instabile, con i comunisti disarmati da una parte e i militari appoggiati dagli Stati Uniti dall’altra. E sappiamo che mentre Sukarno rimaneva sospeso in qualche modo tra i due schieramenti, l’intelligence statunitense e britannica in segreto preparavano lo scontro, e a Jakarta abbondavano le voci di un complotto. I leader del Movimento 30 settembre inviarono squadre di soldati a sequestrare sette loro superiori, che accusarono di aver progettato un colpo di stato reazionario. Sei di questi alti ufficiali furono uccisi, e l’azione del Movimento 30 settembre fu usata come pretesto per una brutale repressione del Pki, accusato di essere il mandante del tentato golpe.
Suharto, un laconico maggior generale di 44 anni proveniente dalla provincia di Java Centrale, era a capo del comando strategico dell’esercito, o Kostrad. Aveva studiato con un tal Suwarto, intimo amico di Guy Pauker, consulente della Rand Corporation (un centro studi che fornisce analisi all’esercito statunitense). Suharto era uno degli ufficiali indonesiani con più responsabilità nelle operazioni di contrinsurrezione degli alleati americani.
La mattina del primo ottobre Suharto arrivò al Kostrad, che per qualche motivo non era stato preso di mira o neutralizzato dagli uomini del Movimento 30 settembre anche se si trovava proprio di fronte a piazza Indipendenza, occupata quella mattina. In una riunione d’emergenza Suharto assunse la carica di comandante delle forze armate. Nel pomeriggio disse ai soldati ancora stazionati in piazza Indipendenza che dovevano disperdersi e mettere fine alla ribellione, altrimenti avrebbe attaccato. Riprese il centro di Jakarta senza sparare un solo colpo, e intervenne personalmente alla radio per annunciare che il Movimento 30 settembre era stato sconfitto.
Il presidente Sukarno ordinò a un altro maggior generale, Pranoto, di incontrarsi con lui alla base aerea di Halim e di assumere il comando temporaneo delle forze armate. Contravvenendo a un ordine diretto del suo comandante in capo, Suharto vietò a Pranoto di andare, e ordinò allo stesso Sukarno di lasciare l’aeroporto. Sukarno ubbidì e riparò in un palazzo presidenziale fuori città. A quel punto Suharto non ebbe difficoltà a prendere il controllo dell’aeroporto e poi dell’intero paese, ignorando Sukarno quando lo riteneva opportuno. Una volta al comando, Suharto ordinò che tutti i mezzi d’informazione fossero chiusi fatta eccezione per i bollettini militari ormai sotto il suo controllo. A quel punto accusò il Pki di crimini orrendi, usando deliberatamente falsità incendiarie per istigare l’odio contro la sinistra in tutto il paese.
I militari diffusero la storia che il Pki aveva orchestrato un golpe comunista, poi fallito. Suharto e i suoi dissero che il Pki aveva trasferito i generali nella base aerea di Halim e organizzato un rituale demoniaco e depravato. Dissero che le militanti del Gerwani, il movimento delle donne affiliato al Partito comunista, avevano danzato nude mentre mutilavano e torturavano i generali, e che prima di assassinarli gli avevano tagliato i genitali e cavato gli occhi. Sostennero che il Pki aveva lunghi elenchi di persone da eliminare e aveva già preparato fosse comuni. Dissero che la Cina aveva segretamente consegnato armi alle Brigate giovanili del popolo. Il giornale dell’esercito, Angkatan bersendjata (Forze armate) pubblicò le foto dei cadaveri dei generali, precisando che erano stati “crudelmente e barbaramente massacrati” con torture che erano “un oltraggio all’umanità”.
Ora o mai più
Dopo una certa confusione iniziale, il governo statunitense collaborò con Suharto nell’importante fase preliminare della propaganda per imporre la sua narrazione anticomunista. Come indica un cablogramma oggi desecretato, Washington forniva segretamente ai militari fondamentali attrezzature mobili di comunicazione. Era anche una tacita ammissione che fin da subito il governo statunitense riconosceva l’esercito, e non Sukarno, come il vero leader del paese, anche se Sukarno ufficialmente era ancora il presidente. Gli Stati Uniti cercavano di fermare il Pki da più di un decennio, perché i comunisti erano molto popolari nel paese. Washington aveva cercato di finanziare un partito islamico conservatore ma il Pki continuava ad avere più elettori; nel 1958 aveva fatto lanciare bombe dalla Cia per lacerare il paese, ma anche questo tentativo era fallito. Ora però l’ambasciatore statunitense a Jakarta, il maresciallo Green, vedeva “un’opportunità di muovere contro il Partito comunista”, come scrisse in un messaggio. “Ora o mai più”.
Anche la stampa occidentale fece la sua parte. Voice of America, Bbc e Radio Australia trasmisero dei servizi che riprendevano i punti della propaganda militare indonesiana nell’ambito di una campagna di guerra psicologica per demonizzare il Pki. Gli stessi programmi, trasmessi in lingua indonesiana, raggiunsero anche le zone interne del paese, e gli indonesiani pensarono che la versione di Suharto era più credibile e affidabile perché confermata da rispettati organi d’informazione internazionali.
Ogni parte della storia raccontata dall’esercito indonesiano era una menzogna. Nessuna militante del Gerwani partecipò alle uccisioni del 1 ottobre. La storia diffusa da Suharto rinfocolava i peggiori timori e pregiudizi degli indonesiani, e più in generale degli uomini ovunque nel mondo: un’incursione notturna nelle case e una lenta tortura con oggetti taglienti. L’inversione dei ruoli di genere, l’assalto agli organi riproduttivi maschili da parte di comuniste demoniache e sessualmente depravate. È il materiale di un film dell’orrore reazionario ben scritto, e pochi credono che Suharto l’avesse concepito da solo.
Le somiglianze con la storia brasiliana della Intentona comunista – il fallito golpe di sinistra del 1935 che fu usato come elemento cruciale nella preparazione del colpo di stato militare del 1964, appoggiato dagli Stati Uniti – sono impressionanti. Era passato appena un anno da quando nel più importante paese latinoamericano un golpe era stato ispirato in parte alla leggenda dei soldati comunisti che pugnalavano a morte i generali nel sonno, ed ecco il generale Suharto raccontare al più importante paese del sudest asiatico che i comunisti e i soldati di sinistra avevano portato via i generali dalle loro case nel cuore della notte per assassinarli lentamente a coltellate. Inoltre, entrambe le dittature militari anticomuniste allineate con Washington hanno celebrato per decenni l’anniversario di quelle ribellioni quasi nello stesso modo.
Il giornale dell’esercito indonesiano Angkatan bersendjata pubblicò la vignetta di un uomo che colpiva con un’accetta il tronco di un albero. Sull’albero c’era scritto “G30S”, l’acronimo del Movimento 30 settembre, e le radici formavano le lettere Pki. La didascalia diceva: “Sterminateli fino alle radici”. Ma internamente l’esercito indonesiano le diede un nome diverso. La chiamò Operasi penumpasan, operazione annientamento.
In quegli anni non tutta la sinistra cilena conosceva la storia dell’Indonesia
La strega e i padroni
Intanto Magdalena non si era quasi accorta del caos politico a Jakarta. Sicuramente non sapeva che a Java Centrale, dov’era cresciuta, la situazione era molto peggiore che nella capitale. Sua nonna si era ammalata, perciò chiese qualche giorno di permesso. Il 19 ottobre prese un treno per tornare da lei al villaggio. I problemi di salute avevano sempre perseguitato la sua famiglia. Quando arrivò, la nonna era già morta. Decise di assistere al funerale e passare una o due settimane di lutto con la famiglia e poi tornare al lavoro a Jakarta. Andò a dormire nella casa della sua infanzia a Purwokerto.
Il giorno dopo, a Washington, il dipartimento di stato ricevette un altro dispaccio diplomatico dall’ambasciatore Green. Riferiva che il Pki aveva subìto “alcuni danni alla sua forza organizzativa per l’arresto e i maltrattamenti ad alcuni funzionari, alcuni dei quali erano stati uccisi”. E continuava: “Se la repressione del Pki per mano dell’esercito continuerà e l’esercito si rifiuterà di cedere la sua posizione di potere a Sukarno, la forza del Pki potrà essere ridotta. Ma alla lunga la repressione del Pki non avrà successo se l’esercito non sarà disposto ad attaccare il comunismo in quanto tale”. E poi concludeva: “L’esercito ha comunque lavorato sodo per distruggere il Pki, e da parte mia ho sempre più rispetto per la sua determinazione e organizzazione nell’assolvere questo compito cruciale”.
Nel primo pomeriggio, due poliziotti si presentarono a casa della famiglia di Magdalena, a meno di ventiquattr’ore dal suo arrivo. “Lei viene con noi, abbiamo bisogno di alcune informazioni”, le dissero. L’intera famiglia esplose in pianti e grida. Avevano sentito che nel quartiere c’erano stati degli arresti, ma non sapevano che a Jakarta Madgalena si era iscritta al Sobsi, e soprattutto nessuno sospettava che questo potesse essere un problema. Alla stazione di polizia, gli agenti cominciarono a interrogarla urlando. Dissero di sapere che era iscritta al Gerwani. Lei non sapeva cos’altro dire tranne che non era vero. Dissero che si trovava a Jakarta e che forse era stata addirittura presente al massacro. Magdalena rispose che non ne sapeva niente. Gli interrogatori si ripeterono a più riprese per sette giorni. Poi gli agenti la portarono a un’altra stazione di polizia, a Semarang. Appena arrivò ebbe un collasso. Aveva 17 anni. Non sa dire quanto tempo rimase in quella seconda stazione di polizia prima che due agenti la stuprassero. Nella testa dei poliziotti era una gerwani, una strega. E loro ora erano i suoi padroni.
Il 22 ottobre, mentre sull’isola di Java cominciavano le uccisioni, il dipartimento di stato statunitense ricevette rapporti dettagliati sulla portata e la natura delle operazioni dell’esercito. Un “leader della gioventù musulmana” riferiva che alcuni “assistenti” accompagnavano i soldati in perlustrazioni che portavano agli omicidi. Il consigliere statunitense per la sicurezza nazionale McGeorge Bundy scrisse al presidente Lindon Johnson che i fatti accaduti in Indonesia a partire dal 30 settembre “sono a tutt’oggi una straordinaria conferma della giustezza della politica americana nei confronti di questo paese negli ultimi anni”.
Due settimane dopo la Casa Bianca autorizzò la stazione della Cia a Bangkok a fornire armi leggere al suo contatto militare a Java Centrale “per usarle contro il Pki”, insieme a delle forniture mediche. Nel gennaio 1966 il senatore Robert Kennedy disse: “Abbiamo fatto sentire la nostra voce contro le stragi disumane perpetrate dai nazisti e dai comunisti. Ma la faremo sentire anche contro la strage disumana in Indonesia, dove più di centomila presunti comunisti non sono stati i criminali ma le vittime?”. Sottostimava enormemente il numero dei morti, ma almeno disse qualcosa. Nessun altro politico statunitense di rilievo condannò il massacro. Ma Bob Kennedy aveva preso l’abitudine di parlare francamente come altri non erano disposti a fare. Non è chiaro se fosse al corrente che l’amministrazione Johnson a quel punto stava attivamente collaborando al massacro. Forse Kennedy aveva avuto una specie di conversione sulla natura delle operazioni clandestine dopo la morte del fratello. Forse era politica. Ma, qualunque cosa fosse, Washington continuò a collaborare all’operazione annientamento.
Il 13 aprile 1966 il giornalista C.L. Sulzberger scrisse un pezzo per il New York Times (giornale di proprietà della sua famiglia), uno dei tanti di questo tipo, intitolato When a nation runs amok (Quando un paese perde i freni). Sulzberger scrisse che le uccisioni avevano luogo nell’“Asia violenta, dove la vita vale poco”. Ripeteva la calunnia che il 1 ottobre i comunisti avevano ucciso i generali e che le donne del Gerwani li avevano pugnalati e torturati. Si spinse ad affermare: “Gli indonesiani sono gentili, ma dietro i loro sorrisi si nasconde quello strano tratto malese, quella frenetica sete di sangue che ha trasmesso alle altre lingue una delle loro poche parole malesi: amok”. Il concetto di amok faceva riferimento a una tradizionale forma di suicidio rituale, anche se il termine in inglese allude più in generale a una violenza selvaggia. Ma non c’è motivo di credere che le violenze di massa del 1965-1966 affondassero le loro radici nella cultura indigena. Nessuno ha prove di massacri simili avvenuti nella storia indonesiana, tranne quando furono coinvolti gli stranieri.
Questa storia di violenza inesplicabile, vagamente tribale – così facile da digerire per i lettori statunitensi – era completamente falsa. Si trattava di violenza di stato organizzata con uno scopo evidente. I principali ostacoli alla totale conquista del potere da parte dei militari furono eliminati con un piano coordinato di sterminio: la deliberata uccisione di massa di civili innocenti. I generali riuscirono a prendere il potere dopo che il terrore di stato aveva indebolito a dovere i loro avversari politici che, disarmati, avevano solo la simpatia dell’opinione pubblica. E che non si opposero al proprio annientamento perché non avevano idea di cosa si stava preparando. In totale, si calcola che furono assassinate tra 500mila e un milione di persone, e che un altro milione fu mandato nei campi di concentramento. Altri milioni furono vittime indirette delle stragi, ma nessuno andò a chiedergli quante persone care avessero perso. Il loro silenzio era l’obiettivo della violenza. Le forze armate non vigilarono sullo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista e potenziale simpatizzante comunista del paese. Sarebbe stato quasi impossibile, perché circa il 25 per cento degli abitanti del paese era in qualche modo affiliato al Pki. Una volta cominciati i massacri, diventò difficilissimo trovare qualcuno disposto ad ammettere una qualche associazione con il Pki.
Il 15 per cento circa dei prigionieri erano donne. Furono vittime di una violenza particolarmente feroce, direttamente legata alla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto occidentale. A parte un esiguo numero di persone che forse erano state implicate nella pianificazione del disastroso Movimento 30 settembre, quasi tutti i cittadini uccisi e incarcerati erano completamente innocenti. Magdalena, un’adolescente apolitica iscritta a un sindacato comunista, lo era. Erano del tutto innocenti anche i semplici tesserati al Pki, che rappresentarono un’ampia percentuale delle vittime.
Quando si presentò l’occasione, il governo statunitense contribuì a diffondere la propaganda che rese possibili le stragi, ed ebbe rapporti costanti con l’esercito per accertarsi che gli ufficiali avessero tutto quello che serviva, dalle armi agli elenchi delle persone da liquidare. L’ambasciata statunitense istigò i militari ad adottare una posizione più dura e a impadronirsi del governo, sapendo benissimo che questo implicava il sequestro di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, che poi venivano pugnalate o strangolate e gettate nei fiumi. I militari indonesiani erano perfettamente consapevoli che più persone uccidevano più la sinistra si sarebbe indebolita e più Washington sarebbe stata contenta.
Non furono solo i funzionari americani a consegnare le liste nere all’esercito. I direttori delle piantagioni di proprietà statunitense fornirono i nomi di comunisti e organizzatori sindacali “piantagrane” che poi furono tutti assassinati.
La principale responsabilità delle stragi e dei campi di concentramento ricade sui militari indonesiani. Non sappiamo ancora se il metodo usato – le sparizioni e lo sterminio di massa – fosse stato predisposto molto prima dell’ottobre 1965, ispirandosi forse ad altri casi nel resto del mondo, se fu pianificato sotto la direzione straniera o se si presentò come possibile soluzione mentre si svolgevano i fatti. Ma Washington fu corresponsabile di ogni morte. Gli Stati Uniti furono parte integrante dell’operazione in ogni fase, da molto prima che cominciassero le uccisioni fino all’eliminazione dell’ultimo cadavere e alla scarcerazione dell’ultimo prigioniero politico, decenni più tardi, torturato, coperto di cicatrici e sgomento. In alcuni momenti di cui siamo a conoscenza – e forse in altri su cui non siamo informati – Washington fu il motore primario ed esercitò pressioni cruciali per far andare avanti l’operazione ed espanderla.
E alla fine le autorità statunitensi ottennero quello che volevano. Fu un’enorme vittoria. Come scrive lo storico John Roosa, dell’università della British Columbia: “Dalla sera alla mattina o quasi, il governo indonesiano si trasformò da importante voce a favore dell’antimperialismo e della neutralità nella guerra fredda ad alleato silenzioso e ubbidiente dell’ordine mondiale statunitense”. Nel 1971, mentre la dittatura brasiliana collaborava con le forze di destra in Cile, il nome “Jakarta” fu usato con una nuova accezione. In entrambi i paesi aveva ora lo stesso significato.
Secondo la commissione brasiliana per la verità, che ha indagato sui crimini della dittatura, operação Jacarta era il nome della parte segreta di un piano di sterminio. Le testimonianze raccolte dopo la caduta della dittatura indicano che probabilmente faceva parte della operação Radar, che puntava a distruggere la struttura del Partito comunista brasiliano. L’obiettivo della operação Jacarta era l’eliminazione fisica dei comunisti e lo sterminio di massa, proprio come in Indonesia. In precedenza la dittatura aveva usato la violenza contro le rivolte in atto. L’operação Jacarta era un piano segreto per estendere il terrore di stato ai membri del Partito comunista brasiliano che lavoravano con gruppi della società civile o con i mezzi d’informazione.
L’opinione pubblica brasiliana ne avrebbe sentito parlare solo tre anni dopo. Ma in Cile il nome della capitale indonesiana fece un’apparizione a effetto. Intorno a Santiago, soprattutto nella parte orientale della città – sulle colline, dove vivevano i ricchi – qualcuno cominciò ad affiggere dei messaggi sui muri. C’erano diverse varianti: _Yakarta viene _(Jakarta arriva), _Jakarta se acerca _(Jakarta si avvicina). O a volte solo “Jakarta”. La prima notizia che si ha di “Jakarta” usato come una minaccia risale a un numero del gennaio 1972 di El Rebelde, il giornale ufficiale del Mir (Movimento izquierda revolucionaria, l’organizzazione di estrema sinistra che avrebbe poi lottato contro la dittatura di Pinochet). La copertina chiedeva “Cos’è Jakarta?” e in un breve articolo intitolato _La via indonesiana de los fascistas chilenos _(La via indonesiana dei fascisti cileni), il giornale cercava di spiegare il significato di quel messaggio. In Indonesia il Pki aveva svolto un ruolo attivo in uno stato “progressista e indipendente” e poi, di punto in bianco, tutto quello che restava dei suoi militanti era “un mare di sangue”. In quegli anni non tutta la sinistra cilena conosceva la storia dell’Indonesia, e l’idea di un’ondata di violenza nel paese sembrava improbabile.
◆ Nel 1945 Sukarno, leader dell’indipendenza indonesiana dal dominio olandese, diventa presidente.
◆Nel 1955 ospita a Bandung la prima conferenza dei paesi asiatici e africani da poco indipendenti. Lì si gettano le basi per la nascita, nel 1961, del Movimento dei paesi non allineati, 120 nazioni non schierate né con gli Stati Uniti né con l’Unione Sovietica.
◆ All’inizio degli anni sessanta Sukarno comincia a sostenere il Partito comunista del paese (Pki), inimicandosi i militari e gli islamici, e a promuovere una politica estera “antimperialista” con l’aiuto di Pechino e di Mosca.
◆ Il 1 ottobre 1965 il Movimento 30 settembre, un’organizzazione interna all’esercito, fallisce un golpe dopo aver ucciso sei generali. Nelle settimane successive i mezzi d’informazione diffondono la versione dell’esercito, secondo cui dietro al tentato colpo di stato c’è il Pki. Con il pretesto di punire eversori, il generale Suharto guida una campagna anticomunista in cui vengono uccise centinaia di migliaia di persone iscritte al Pki o sospettate di essere simpatizzanti comunisti. Intanto destituisce di fatto Sukarno e assume la guida del paese, di cui sarà nominato presidente ad interim nel 1967, inaugurando l’Orde baru (Nuovo ordine), un regime anticomunista controllato di fatto dai militari.
◆ Nel 1968 Suharto è eletto presidente. Rimarrà al potere fino al 1998.
Il secondo articolo su Jakarta apparve nel febbraio 1972 su Ramona, la rivista dei giovani comunisti cileni. Sosteneva che la destra cilena aveva adottato un certo “plan Djakarta”, avuto da David Rockfeller o Agustín Edwards (il proprietario del quotidiano El Mercurio, che riceveva finanziamenti dalla Cia). “L’estrema destra cilena vuole ripetere quel massacro”, spiegava l’articolo. “Cosa significa concretamente? Uccidere l’intero comitato centrale del Partito comunista, i vertici del Partito socialista, i direttori nazionali dell’organizzazione sindacale Central unitaria de trabajadores de Chile (Cut), i leader dei movimenti sociali e tutte le figure di spicco della sinistra”.
I murales erano uno strumento politico popolare a Santiago nei primi anni settanta. A sinistra, collettivi di volontari li realizzavano con immagini complesse ideate da giovani artisti che si ispiravano a famosi muralisti internazionali come il messicano Diego Rivera o alla cultura indigena cilena dei mapuche. A destra, il denaro che arrivava a fiumi da Washington o dalle élite locali era usato per stipulare contratti con pittori professionisti che erano più efficienti ma meno talentuosi, perché abituati a ideare semplici messaggi pubblicitari. Patricio “Pato” Madera, tra i fondatori della Brigada Ramona Parra di muralisti di sinistra, riconobbe i graffiti “Jakarta” come opera dello stesso genere di mercenari che avevano dipinto slogan di destra nelle campagne di terrore che si erano succedute a partire dal 1964. Ma questa era un’escalation. Era una minaccia di sterminio. E nei vent’anni seguenti sarebbe stata usata ampiamente in America Latina.
Marchiata a vita
Magdalena è sempre stata molto bella. Per tutto il tempo in cui rimase in prigione, le guardie cercarono di sposarla. Lei resistette, pur sapendo che un matrimonio avrebbe alleggerito la sua posizione. Quando finalmente fu rilasciata, altri uomini la chiesero in moglie. Ma lei rifiutò sempre. Sapeva di essere marchiata a vita come comunista, come strega. In molti casi lo stigma si trasmette ai discendenti. I figli di presunti comunisti furono torturati e uccisi. A 71 anni Magdalena è serena e radiosa, ma anche riservata e prudente. Vive da sola in una minuscola baracca in una viuzza della città di Solo, a Java Centrale. Può contare su 200mila rupie al mese, 14 dollari, e un piccolissimo aiuto della chiesa locale, che le garantisce cinque chili di riso al mese. Ma non ha una famiglia e nessuno dei vincoli tradizionali con la comunità che sostengono molte donne della sua età. Quando sono entrato nel suo soggiorno non credevo ai miei occhi. Non è così che vivono gli anziani indonesiani. Vivono in case con grandi famiglie, e se non hanno parenti sono i vicini a prendersi cura di loro.
Situazioni simili sono molto frequenti tra i superstiti della repressione del 1965. Si calcola che decine di milioni di perseguitati o loro parenti siano ancora vivi, quasi tutti condannati all’isolamento sociale o alla povertà assoluta, ma anche solo a vedersi negato il riconoscimento che un genitore o un nonno furono uccisi ingiustamente, che la loro famiglia non aveva colpe. La piccola organizzazione che difende i sopravvissuti in questa regione, Sekretariat bersama ’65, lotta da decenni per il riconoscimento dei crimini commessi contro le persone come Magdalena. I superstiti pensavano che si potesse istituire una qualche commissione per la verità o avviare un processo di riconciliazione nazionale, pensavano che le vittime avessero diritto a degli indennizzi o almeno a scuse ufficiali, a una dichiarazione che gli restituisse l’umanità. Non c’è stato nulla di tutto questo.
Memoria ingannevole
Al centro di Jakarta si erge una struttura chiamata Monumen Pancasila sakti, Monumento sacro al Pancasila. Da qualche tempo i militari indonesiani hanno vietato agli stranieri l’ingresso in questo insieme di memoriali e musei. Sembra che le autorità non vogliano consentire ai ricercatori stranieri di esaminare il sito. Poi ho capito perché.
Il monumento è un grande muro di marmo bianco con davanti le statue a grandezza naturale delle vittime del Movimento 30 settembre. Si trova a pochi passi dal Lubang Buaya, il pozzo dove furono ritrovati i cadaveri dei sei generali assassinati. Per tutti gli altri assassinati non esiste memoriale. Esiste invece un intero museo – il Museum pengkhianatan Pki (Komunis), museo del tradimento comunista – creato per rafforzare la narrazione dei comunisti traditori che meritavano di essere eliminati. Percorrendo una bizzarra successione di sale buie, il visitatore assiste a una serie di diorama che illustrano la storia del partito, e ogni installazione serve a dimostrare che aveva tradito il paese o complottato per distruggerlo o attaccato i militari, fino a riprodurre la propaganda di Suharto sugli avvenimenti dell’ottobre 1965. Nessun accenno ai civili massacrati. All’uscita, i bambini posano per una foto davanti a un grande manifesto che dice: “Grazie per aver visto alcuni dei nostri diorami sulle barbarie commesse dal Partito comunista indonesiano. Non permettete che una cosa simile succeda di nuovo”. ◆ gc
Vincent Bevins è un giornalista statunitense. È stato il corrispondente dal Brasile del Los Angeles Times e dal sudest asiatico per il Washington Post. Questo articolo è l’estratto del libro The Jakarta method. Washington’s anticommunist crusade and the mass murder program that shaped our world (PublicAffairs 2020).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1366 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati