per Carlos Velázquez
Una notte rimasi con suo figlio in casa e lui, Pablo, lo lasciai fuori. Chiusi la porta di casa dall’interno e ignorai le sue urla quando provò a rientrare. Il bambino aveva circa due anni e non penso che si accorse di nulla. Dormiva sul divano del mio salotto con la fronte aggrottata, cosa che trovavo molto divertente in un bambino. Pablo, invece, s’infuriò e la cosa mi diede un’immensa soddisfazione. Più lui si disperava là fuori, più io mi sentivo tranquilla e felice dentro, accanto al bambino. Tendo a ricordare quell’occasione come il momento in cui avrebbe dovuto scattare un allarme, ma non lo sentii, o per meglio dire non lo volli sentire, perché ero convinta che la mia relazione con Pablo fosse inevitabile e che io dovessi spremerla fino all’ultima goccia.
Non andavamo al parco o a passeggio come fanno gli altri genitori, ma restavamo a bere birra e a sorvegliarlo. Non sapevamo cosa fare con un bambino
Fin dall’inizio mi aveva avvertito che era padre di un bambino di sei mesi. Eravamo nudi sul parquet dell’appartamento di qualcuno, non ricordo nemmeno di chi, e non gli attribuii nessuna importanza. Avevamo fatto del buon sesso, lui mi piaceva ed era tutto. Da sotto la porta filtravano l’aria fredda e il rumore di un aspirapolvere. Ero presa dalla pigrizia all’idea di rimettermi l’abito argentato che avevo scelto per andare alla festa dove l’avevo conosciuto, ma dovetti farlo. Uscimmo per strada sporchi e vestiti da sera. Pablo mi teneva per la vita, pochi centimetri più avanti del suo corpo, come se dovesse mostrare all’universo la cosa più bella che avesse trovato. Così, stretta in vita, mi sentivo più alta delle altre persone che incrociavamo.
Ci fermammo a mangiare dei tacos e li accompagnammo con delle birre. Dovevamo puzzare di sigarette, sesso, alcol e, per i nasi più fini, di anfetamine. Nessuno dei due era appassionato di droghe, ma questo alla taquería ancora non lo sapevamo: ci stavamo conoscendo e prendendo le misure. I clienti entravano, mangiavano i loro tacos e se ne andavano, ma noi restavamo lì, bevendo una birra dopo l’altra a un tavolo vicino ai bagni, sempre più mimetizzati nella penombra del locale, sprofondando nel buio e stupendoci quando vedevamo in lontananza quanto sole ci fosse in strada.
Mi seduceva il modo in cui Pablo mostrava i denti quando ordinava un altro giro da bere o parlava con qualcuno che non fossi io. Mi faceva pensare a un cane feroce educato secondo le buone maniere dell’uomo civilizzato. Aveva la rabbia di chi era stato pestato durante l’infanzia. Parlò poco della sua famiglia e io della mia, quanto bastava per capire che ci abitava la stessa ira. Ma marcò le distanze quando menzionò suo figlio, e in quell’unica occasione mostrò i denti anche a me.
Rimasi con il mio vestito argentato per altri due giorni e una notte, solo per prolungare il nostro incontro. Ci chiudemmo in casa sua con alcune bottiglie di whisky e di birra finché non arrivò il lunedì.
Vidi crescere Sabino perché continuavo a frequentare suo padre. Ce lo portavano due volte alla settimana. Bisognava camminare fino alla macchina accesa e tirarlo fuori perché la madre non scendeva, non salutava, non si girava nemmeno per guardarci. Poi Pablo rincorreva Sabino per casa sua o per la mia con cucchiaiate di cibo. Non andavamo al parco o a passeggio come fanno gli altri genitori, ma restavamo a bere birra e a sorvegliarlo. Non sapevamo cosa fare con un bambino. Gli davamo il mio iPad con cui giocava a lavare i denti a un dinosauro o guardava video per bambini. Quando eravamo di buon umore, cantavamo tutti e tre. La madre non metteva i pannolini nella valigia, sicuramente di proposito, quindi dovevamo sempre uscire a comprarli e, già che c’eravamo, compravamo anche altra birra.
Nel cortile dietro la mia cucina c’era un cimitero di bottiglie di birra, e mi ci vollero anni per capire che era da lì che venivano le lumache che invadevano la casa durante la stagione delle piogge. Vivevano di birra, come noi. Era orribile calpestarle con i calzini: quando tornavo a casa barcollando mi toglievo le scarpe ed entravo in cucina al buio, cercando qualcosa per smaltire la sbornia. Scricchiolavano sotto i miei piedi, perché nei loro corpi di molluschi c’erano ancora vecchi residui di conchiglia.
Sabino cercava di afferrarle con le sue dita corte ma già in grado di fare male e le lasciava spiaccicate in una pozzanghera. Mi ci volle del tempo per insegnargli a osservarle senza toccarle. Gli tenevo le mani e gli dicevo: “Guarda”. Gli accarezzavo anche i capelli per tranquillizzarlo. Dopo i forti acquazzoni, entrambi passavamo lunghi minuti accovacciati a guardare i lenti percorsi delle lumache sul pavimento, ammirando il loro luccichio.
Pablo era intollerante nei confronti di certe parole, ce n’erano alcune che detestava. Ad esempio “codipendenza” o “cura di sé”. Ma nulla gli faceva perdere le staffe più delle espressioni che avevano a che fare con una posizione intellettuale. Non riusciva ad ascoltare espressioni come “razzismo sistemico” o “maschilismo strutturale” senza vomitare il suo disprezzo. Non erano tanto le idee in sé a infastidirlo, quanto il modo in cui passavano di bocca in bocca svuotandosi di significato. Il suo disgusto per le ideologie preconfezionate si estendeva a espressioni come “metticela tutta” e “andare avanti”.
“Avanti dove?”, ringhiava, con la mascella serrata e le labbra strette. Per lui non c’era alcun avanti, solo caos. Le idee di progresso e di superamento personale gli sembravano la mediocrità stessa, una tecnica di sopravvivenza per persone con la mente debole.
La sua avversione per la stupidità andava ancora oltre. Ricordo una scena che ci tolse l’appetito. Era l’inizio di un sabato pomeriggio quando gli strappai di mano la bottiglia con cui condiva l’insalata. Senza scusarmi per il mio gesto brusco gli spiegai, in tono didattico e condendo abbondantemente la lattuga, che “bisognava essere generosi con l’olio d’oliva”.
“Chi ti ha detto questa stupidaggine?”, ruggì furioso. Diventava subito paonazzo e la fila bianca dei suoi denti mi spaventava. Non so come facesse a individuare le frasi che qualcuno mi aveva detto e che io ripetevo senza filtro.
Ammisi che erano le parole di una signora un po’ ridicola che voleva insegnarmi come essere europea. Pablo disse che la mia insalata generosa gli faceva schifo, prese una birra dal frigorifero e mi lasciò lì, con le verdure che avevo lavato con il disinfettante e tagliato a cubetti. Presi anch’io una birra, lo raggiunsi sul letto per guardare la televisione e nessuno dei due mangiò l’insalata, che andò a male.
All’inizio mi piaceva che mi smascherasse perché mi sembrava una prova inconfutabile della sua intelligenza. Tuttavia, questo ebbe un effetto collaterale: diventammo sempre più cauti nell’esprimere i nostri giudizi, perché anch’io cominciai a vigilare sui suoi, e alla fine preferimmo non esternarli affatto. Ci rassegnammo a passare il tempo guardando serie televisive che non sollevavano troppe polemiche. L’importante era annusarci e seguire i focolai di calore che i nostri corpi producevano sotto le coperte. E, naturalmente, continuare a bere. Nei fine settimana a volte non vedevamo la luce del giorno perché tenevamo le tende chiuse.
Le liti scoppiavano comunque. Litigavamo con i sentimenti a fior di pelle e un desiderio animalesco di ferire l’avversario. Sapevamo che l’alcol provocava queste liti e che non avremmo mai potuto giustificare le parole offensive che uscivano dalle nostre bocche in quei momenti. Pablo mi fissava con un solo occhio e a volte lo facevo anch’io; sembravamo ciclopi barcollanti e malvagi in cerca di un punto debole in cui affondare il pugnale. Eravamo ridicoli e pericolosi.
Non ricordo perché avevamo litigato la sera in cui restai con il bambino. Pablo aveva il viso paonazzo quando uscì da casa mia con le valigie di Sabino e il seggiolino per l’auto. Ci eravamo scolati la bottiglia di Johnnie Walker e mi sembrava ingiusto e crudele che loro due se ne andassero per la loro strada, insieme, lasciandomi sola in una casa dove non c’era niente da bere. Sentivo che mi stavano portando via qualcosa a cui anch’io avevo diritto, che loro possedevano e non volevano condividere con me.
Approfittai del primo viaggio verso la macchina per chiudere dall’interno la porta che dà sulla strada. Pablo suonò il campanello, mi chiamò al telefono, mi mandò messaggi minacciosi, urlò dalla strada, lanciò sassi e mi ruppe una finestra. Ma io non risposi.
Mi rannicchiai vicino a Sabino sul divano in salotto. Il suo corpo emanava una pace deliziosa e me ne sarei potuta stare lì per sempre vicino al suo respiro piccolo e veloce. Alla fine Pablo chiamò la polizia. Sentii la minaccia quando la gridò dal marciapiede, poi la telefonata, e allora mi precipitai ad aprire. Mi sbatté contro il muro per allontanarmi ed entrò di corsa a cercare suo figlio. Si rilassò quando lo vide dormire tranquillamente. Forse credeva che lo avessi ucciso o qualcosa del genere. Quando arrivò la polizia dicemmo che non c’era nessun problema, che non sapevamo di quale telefonata stessero parlando. Pablo fu aggressivo perché li detestava quanto me. Mi prese per mano per fargli vedere che tra noi andava tutto bene. Non ci lasciammo più: rientrammo al buio attraverso le stanze in disordine, schivammo gli oggetti sparsi sul pavimento e crollammo sul letto senza accarezzarci né baciarci, perché Pablo detestava le riconciliazioni. Bisognava stare attenti alla sdolcinatezza.
La mattina dopo lo accompagnai a portare Sabino all’asilo. Lungo la strada bevemmo gli ultimi sorsi della bottiglia di birra che Pablo teneva nel bracciolo della macchina, poi ne prendemmo una fredda. Erano le otto e la birra ci faceva bene. Avevamo preso l’abitudine di cominciare così la giornata. A trent’anni avevamo energia a sufficienza per lavorare e bere.
Pablo parcheggiò per qualche minuto fuori dal mio ufficio per finire la birra. Vedemmo alcuni dei miei colleghi attraversare la strada di corsa, nervosi, con le giacche logore. Ci sentivamo superiori a chiunque si accontentasse di un misero succo di frutta e un panino nello stomaco per cominciare la giornata.
I nostri amici smisero di invitarci agli eventi importanti della loro vita perché eravamo imbarazzanti e creavamo sempre problemi. Pablo si metteva ad abbracciare gli sconosciuti e sfidava gli uomini più conservatori della festa a baciarlo sulla bocca. A volte lui stesso gli stampava un bacio in bocca e loro volevano picchiarlo. Nei suoi attacchi di amore ubriaco sollevava le persone senza chiedere il permesso, alzandole da terra per le gambe. Essendo basso, a volte cadeva all’indietro con la sua preda.
Quando Pablo crollava insieme alla persona che teneva in braccio, sul suo volto si dipingeva per alcuni secondi una totale incomprensione, come se il mondo lo avesse inspiegabilmente deluso. Mi feriva il suo volto sconfitto con le sopracciglia aggrottate, gli occhiali storti e la bocca contorta.
In quei momenti mi rendevo conto che l’alcol lo trasformava in un patetico idiota.
Io giocavo al contrario: mi mettevo a buttare giù la gente. “Scommetto che ti butto giù con una sola presa!”, gli dicevo, anche se pesavano cento chili. Conoscevo una buona presa, ma ero così ubriaca che spesso non riuscivo a farla e finivo solo per rendermi ridicola. Ma era l’ultima cosa che m’importava, anche se forse Pablo vedeva il mio fallimento come io vedevo il suo, speculari l’uno all’altro. Eravamo due piaghe, e per questo la gente che era venuta a bere e a ballare ci evitava a tutti i costi. Noi rientravamo quasi sempre insultandoci a vicenda, quindi era meglio non uscire nemmeno di casa.
Con il senno di poi posso concludere che in una relazione in cui c’è di mezzo l’alcol ci dev’essere una netta asimmetria nel consumo, altrimenti tutto va a rotoli. L’ubriaco s’impegna a rovinare tutto e il sobrio si sforza di raddrizzare la situazione. Con i miei uomini precedenti, il verme che bacava la mela ero io, quindi la coppia funzionava, almeno per un po’.
Molti anni prima di conoscere Pablo sposai un uomo buono, che mi amava e parlava di mettere su famiglia. Scappai di casa con lui. Dopo il matrimonio civile festeggiammo in una pulquería vicina e, di notte, in una sala da ballo con ballerine nel centro della città.
Non eravamo in molti, solo gli amici più cari e quelli che accettavano la nostra unione. Mettemmo due bottiglie di Bacardi sul tavolo, insieme alle bibite. Ero così euforica che cominciai a rompere con la fronte i bicchieri da cocktail, che sono lunghi e sottili.
L’uomo che avevo appena sposato era un appassionato di lotta. Ci andavamo il venerdì e lui mi spiegava le prese e anche che i tagli vicino all’attaccatura dei capelli erano i più spettacolari perché facevano uscire molto sangue senza essere gravi. Ma nella sala da ballo a mio marito non piacque il mio modo di esprimere la felicità. Per calmarsi dovette uscire in strada mentre io continuavo con il mio spettacolo da sposina finché non ci cacciarono perché il tavolo era pieno di sangue e vetri rotti. Da quel momento in poi fui la cattiva della storia. A ogni mia lamentela, mio marito rispondeva: “Comunque quando torno a casa sei sempre ubriaca”. È paradossale, ma questo ci fece durare a lungo.
Pablo invece la prese in modo diverso. Non appena sentì questa storia, anche lui si ruppe dei bicchieri sulla testa per dimostrarmi che lo poteva fare quanto me e anche di più. Nei bar prese l’abitudine di mordere i bicchieri e masticare i pezzi di vetro, quindi dovetti imparare a farlo anch’io. Non è così difficile come sembra.
Pablo si appendeva alle finestre, si lanciava dalle auto in movimento. Anch’io. Stranamente, questi gesti non ci piacevano quando li faceva l’altro. Vedere Pablo ubriaco e appeso a una struttura fragile a venti metri di altezza mi metteva di pessimo umore, soprattutto se eravamo in compagnia e la gente andava nel panico o si arrabbiava. Mi vergognavo. Ma non potevo evitare di appendermi a mia volta, provocando gli stessi sentimenti nei miei confronti. L’unico testimone occasionale che sembrava godersi la nostra audacia era Sabino, che ammirava entrambi.
Un sabato passammo a prendere mia cugina Azucena, che aveva un nuovo fidanzato. Non ci vedevamo da molto tempo, quindi nemmeno lei conosceva il mio. Il programma era andare a teatro e poi a cena in coppia per godersi la vita notturna della città. Passammo a prendere lei e il fidanzato a un incrocio complicato. Salirono in macchina accompagnati da un concerto di clacson e riuscirono a salutarci solo una volta sistemati sul sedile posteriore, ai lati del seggiolino che avevamo dimenticato di lasciare a casa e che comprometteva il comfort del viaggio. Pablo li salutò con la mano dallo specchietto retrovisore e io mi girai per dare loro un bacio che comunque finì nell’aria perché la macchina sobbalzò, prima su un dosso e poi su una buca.
“Queste strade fanno schifo”, grugnì Pablo.
Feci le presentazioni, ma lui non si prese la briga di sorridere. Come al solito, stavamo bevendo dalla bottiglia di birra sul bracciolo.
“Guardate che non è permesso bere per strada”, c’informò Azucena.
“Sul serio?”, rispose Pablo. Bevve un sorso dalla bottiglia e la passò dietro. “Non preoccuparti, con noi puoi farlo”.
Le liti scoppiavano comunque. Litigavamo con i sentimenti a fior di pelle e un desiderio animalesco di ferire l’avversario. Sapevamo che l’alcol provocava queste liti e che non avremmo mai potuto giustificare le parole offensive che uscivano dalle nostre bocche in quei momenti
“No, grazie”, rispose lei senza prendere la bottiglia.
Pablo la dette a me. Ne bevvi un sorso che mi sembrò un po’ amaro.
“Bisogna cambiarla, è tiepida”, gli dissi, rimettendola sul bracciolo. “Credo che ci sia un Oxxo all’incrocio con il viale”.
“Veramente sarebbe meglio non bere in macchina”, disse Azucena.
Calò un silenzio pesante. Pablo bevve un altro sorso dalla bottiglia e io aprii il finestrino.
“Pablo, te lo chiediamo per favore”, intervenne il fidanzato con voce autoritaria, come se si trattasse di risolvere un problema tra uomini. “E comunque è molto pericoloso”, aggiunse.
A Pablo non piacque questa ostentazione di mascolinità. Fermò la macchina.
“Se non vi piace scendete”, disse.
Teneva le mani sul volante e li guardava dallo specchietto retrovisore senza alcuna simpatia.
“Tesoro…”.
Il fatto che lo chiamassi così lo fece infuriare.
Era da molto che avevamo già rotto tutti i bicchieri a casa mia e a casa sua. Ora bevevamo direttamente dalle bottiglie. Vedevo perfettamente come le persone diventavano l’opposto di quello che pensavano di essere
“Scendete”, ripeté.
“Rimanete”, cercai di convincerli. “Non fa niente! Beviamo sempre in macchina. Davvero, non preoccupatevi, rilassatevi”.
Azucena e il suo ragazzo ci guardavano dal sedile posteriore con orrore. Sembravano confusi. “Che sfigati”, pensai. Mi sembrava stupido preoccuparsi per qualche sorso di birra. Dopo due minuti, decisero comunque di scendere e di andare al teatro da soli.
“Pablo, hanno i biglietti!”, mi ricordai quando ci fermammo davanti all’Oxxo.
“Chiamali e digli di lasciarli all’ingresso”, gridò Pablo prima di entrare nel negozio.
Quando tornò con la birra, gli dissi che non mi stavano rispondendo.
“Comunque me ne fotto del teatro”, dichiarò. Stappò la bottiglia con i denti e me la passò. Bevvi un lungo sorso. Aveva la temperatura perfetta.
“Andiamo a mangiare un hamburger vicino a casa tua?”, gli proposi.
“Sì!”, rispose con entusiasmo.
In quel locale il cibo non era particolarmente buono, ma era economico e gli hamburger erano serviti con una birra inclusa nel prezzo. Quando portavamo Sabino, litigavamo per prenderci la sua birra gratis.
“Tira fuori la fiaschetta con il whisky”, gli suggerii.
Pablo mi guardò dubbioso, ma me la passò.
Mi strappò la fiaschetta di mano. Era di alluminio, c’era scritto Johnnie Walker e dava un sapore metallico alla bevanda. Ora era lui a inclinare la testa all’indietro per versarsi una buona quantità di whisky in bocca. Quello che non entrava gli colava lungo il mento
“Se non andiamo a teatro, non ci serve”, spiegai.
Nel momento in cui aprii la bocca e inclinai la testa all’indietro per trangugiare il liquido, Pablo fece un movimento brusco e mi bagnò la camicia.
“Che stronza!”, ruggì, e mi strappò la fiaschetta di mano. Era di alluminio, c’era scritto Johnnie Walker e dava un sapore metallico alla bevanda. Ora era lui a inclinare la testa all’indietro per versarsi una buona quantità di whisky in bocca. Quello che non entrava gli colava lungo il mento.
“Stronzo tu, che non sai guidare”, risposi. Recuperai con fatica la fiaschetta.
Quando Pablo si fermò di nuovo per prendere un’altra bottiglia di birra, mi arrabbiai.
“Ma dai, mancano due isolati. Sto morendo di fame, beviamo quando arriviamo!”, gridai mentre si allontanava.
Faceva finta di non avermi sentito. Approfittai del fatto che fosse entrato nell’Oxxo per passare al posto di guida, ma dimenticai di mettere la sicura alla portiera.
“Togliti”, disse quando tornò. Aprì la portiera per farmi scendere.
Risposi che non se ne parlava nemmeno e mi aggrappai con forza al volante.
“Non sto scherzando…”, ringhiò Pablo stringendo i denti.
“Neanch’io. Adesso tocca a me guidare, sei troppo ubriaco”, m’intestardii.
Per impedirmi di farlo, Pablo mi strappò gli occhiali. Nel riprenderglieli, spezzai una stanghetta e questo lo fece ridere. Per la rabbia, afferrai i suoi e li frantumai tra le mani.
“Figlia di puttana!”, urlò con il viso infuocato dal violento afflusso di sangue. Togliendogli gli occhiali, gli avevo graffiato involontariamente il naso. Sulla punta vidi una goccia di sangue. Mi spaventò quello che avevo appena fatto, ma non abbastanza, così lanciai i suoi occhiali il più lontano possibile per obbligarlo ad andare a raccoglierli come un cane. Pablo si gettò a prenderli ma non salì più in macchina. Andò a piedi verso casa sua, fingendo che né la sua macchina né io esistessimo. Guidai come potei verso lo stesso posto.
Non avevamo ricambi, quindi rimanemmo tutti e due senza occhiali. Ai suoi mancava una lente ed erano storti, ai miei mancavano entrambe le stanghette. Il giorno dopo dovevamo occuparci di Sabino, che non trovò strano vederci senza occhiali. Non so se non ci guardasse nei dettagli perché per lui eravamo simboli astratti, con funzioni di guardie del corpo o di servitori, o se, al contrario, ci esaminasse con una profondità che andava oltre l’aspetto esteriore.
Quella domenica mattina arrivò con un mazzo di carte per giocare a memory e ci spiegò le regole con grande serietà. Ma noi eravamo incapaci di ricordare qualsiasi informazione, con troppi postumi e stanchi di noi stessi. Sabino sembrava molto fragile nelle nostre mani e allo stesso tempo molto più forte e adatto alla vita di noi. Per quanto tempo ci avrebbe sopportato? Quando avremmo dovuto cominciare a nascondere le bottiglie?
A mezzogiorno andammo alla sua festa per bambini a Chapultepec. In taxi, perché non potevamo guidare. I genitori del festeggiato ebbero la decenza di comprare delle birre per gli adulti, il che ci calmò un po’. Sorvegliavamo i bambini da un tavolo da picnic dove alcuni cercavano di fare conversazione. Non m’interessava quello che dicevano, quindi mi misi a guardare i ragazzini. Mi resi conto che Sabino non era né il più carino né il più simpatico, e inoltre rimaneva in disparte durante i giochi. Facevo fatica a trattenermi dall’intervenire per farlo integrare.
Un signore che sembrava il nonno del festeggiato tirò fuori una canna e pensai che mi avrebbe aiutato a distogliere l’attenzione dalle difficoltà sociali di Sabino. Feci qualche tiro, che andò a peggiorare l’effetto delle birre, dei postumi della sbornia del giorno prima e della delusione. Per controllare la nausea andai a sdraiarmi ai piedi di un albero, alle spalle della festa. La terra su cui appoggiai il viso aveva un buon odore e pensai che la cosa migliore fosse restare lì per sempre, guardando i rametti, le foglie e i sassolini. Dopo alcune ore, quando Pablo venne a svegliarmi, gli dissi che sarei rimasta lì, che se ne potevano andare senza di me. Sabino piangeva, aveva la bocca blu per colpa di non so quale dolce ed entrambi mi sembravano patetici rispetto alla tranquilla maestosità del bosco.
Pablo mi afferrò per un braccio e mi trascinò finché non mi alzai. Le urla di Sabino erano insopportabili e gridai ancora più forte che non l’avrei mai più portato a un’altra festa. Sulla via del ritorno, gli occhi rotondi di Sabino mi guardavano con un’aria di rimprovero dietro uno spesso strato di lacrime.
Un’altra notte buttai dei mobili dalla finestra. Due sedie, una lampada, un tavolo, cassetti e cavi elettrici. Pablo mi guardava dal bordo del letto, aggrottando le sopracciglia rade e tristi, come se non capisse più nulla, come se l’alcol avesse spento l’ultima scintilla d’intelligenza che gli era rimasta, con un’espressione di sconfitta che disprezzavo perché mi ci riconoscevo e la cosa mi faceva infuriare ancora di più.
Qualche giorno dopo, Pablo ruppe lo schermo del mio computer con un martello mentre io ridevo a crepapelle, orgogliosa di averlo fatto arrabbiare così tanto. Poco dopo lo minacciai con un coltello e cercai di ferirlo al braccio o alla gamba, ma lui mi disarmò. Avevo bisogno di Pablo e lo odiavo così tanto che a volte sentivo che uno dei due doveva morire per rompere quell’incantesimo. Non ci fermava nemmeno la presenza di Sabino, che quando urlavamo piangeva molto. Ogni volta che bevevamo superalcolici litigavamo, e questo succedeva ogni due giorni, a volte anche ogni giorno, perché bere birra non era sufficiente a calmare l’irritazione che ci provocava stare insieme.
Prima di conoscere Pablo pensavo di essere incapace di rompere i piatti a casa come facevano le coppie nei film o come ci raccontavano alcuni amici. Ma quello era roba da principianti, era da molto che avevamo già rotto tutti i bicchieri a casa mia e a casa sua. Ora bevevamo direttamente dalle bottiglie. Vedevo perfettamente come le persone diventavano l’opposto di quello che pensavano di essere.
Nei nostri scontri c’era un terreno assolutamente proibito: il corpo di Sabino. Potevamo ucciderci, ma mai toccarlo. Almeno io, perché Pablo a volte lo afferrava per il braccio con troppa forza e, furioso perché lo vedeva piangere, lo scuoteva per farlo stare zitto. Allora entravo in scena io per separarli e abbracciare il bambino fino a calmarlo. Ma arrivò il giorno in cui anch’io cominciai a urlare contro Sabino. Gli dicevo che suo padre era un ubriacone disgraziato e che sarebbe diventato come lui.
Tolsi al bambino con violenza i pantaloni sporchi di cacca una volta che Pablo era crollato in pieno giorno per aver bevuto mezcal, un alcol che ci annientava troppo in fretta e che io evitavo perché mi faceva piangere. Gettai i suoi vestiti nella spazzatura e lo lasciai nudo, al freddo, umiliato e urlante come un vitello finché suo padre non si svegliò.
“Non ti azzardare più a toccare mio figlio”, mi minacciò mentre lavava i pantaloni sporchi di cacca recuperati tra i rifiuti, “se lo fai te ne penti”.
I suoi denti affilati brillavano.
“Ma io non voglio più vederti! Né te né tuo figlio ritardato. Mi fa tristezza pensare che ti abbia come padre”, risposi, pronta a ricevere un colpo che non arrivò.
Pablo se ne andò, ma tornò. Non potevamo smettere di vederci. Chi ha attraversato il confine che separa il paese di chi si ama “bene” dal paese di chi si ama “male” sa che non è facile tornare indietro. Non basta solo la volontà, ci vuole anche un po’ di fortuna. La trovammo nella malattia di sua madre.
Poco dopo che lasciai Sabino nudo al freddo, la madre di Pablo si ammalò gravemente e lui prese un aereo per il confine meridionale del paese. All’inizio doveva restarci una settimana, che poi diventò un mese e poi un altro ancora. Ne approfittai per liberarmi. Cominciai a fare sesso con molti uomini. Alcuni non volevano più vedermi dopo due o tre volte, perché il mio stato di ubriachezza permanente li disgustava. Ma c’era sempre qualcuno disposto a farlo. A Pablo dissi al telefono che non volevo più vederlo.
Con il bambino non fu così facile. Fui colta alla sprovvista da una profonda nostalgia per le visite settimanali di Sabino. Sentivo un vuoto che solo il suo corpicino ribelle all’ordine che volevamo imporgli poteva colmare. Parlai con la madre perché la solidarietà nasce più facilmente tra le ex. Le chiesi di vedere Sabino per il suo quinto compleanno. Lei acconsentì. Lo portò in una libreria dove passammo il pomeriggio insieme, leggendo sui cuscini sparsi nella sezione bambini. Sabino mi abbracciava, appoggiava la testa sul mio petto per ascoltare le storie. Eravamo felici di rivederci. La madre si sedette al bar vicino a noi, né così lontana da perderci di vista, né così vicina da darci fastidio. Sabino non mi parlò di suo padre, né mi chiese nulla della nostra vita precedente. Tranne che per un dettaglio.
“Hai ancora le lumache?”, chiese all’improvviso, nel bel mezzo di una storia che parlava di tutt’altro.
“Sì”, risposi sorpresa, “sono ancora lì. Vuoi tornare a vederle un giorno?”.
Sabino annuì con la testa, ma non mi sembrò sincero.
Sua madre mi permise di rivederlo ancora un paio di volte perché capì che anche suo figlio aveva bisogno di salutarmi. Ai bambini non piacciono i cambiamenti improvvisi. Sabino, però, stava diventando un bambino diverso da quello che avevo cercato di consolare quando piangeva, e la nostra convivenza sembrava sempre meno naturale. Durante il nostro ultimo incontro gli portai l’iPad dove erano ancora installate le app che avevamo scaricato per lui. Gli dissi che il dinosauro aveva i denti molto sporchi e che gli mancava il suo dentista preferito. Sabino mi guardò con un’espressione di pietà, come se fossi rimasta bloccata in un mondo antiquato che non aveva più alcun senso. Preferì cercare dei video su YouTube e smise di prestarmi attenzione. Capii che era giunto il momento di dirci addio e lo facemmo, senza troppa nostalgia. Era mezzogiorno e avevo voglia di tornare a casa per stappare una birra. ◆
Yael Weiss è una scrittrice nata a Città del Messico nel 1977. Collabora con la Revista de la Universidad de México. Tra i suoi libri Los muros de aire y otras crónicas de frontera (Debate-Penguin Random House 2023). Questa storia è parte della sua raccolta di racconti Las cicadas (Elefanta Editorial 2022). Il titolo originale è Lavarle los dientes al dinosaurio . La traduzione è di Sara Bani.
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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati