Come sarà pensare in messicano?, si chiese l’ultimo giorno del suo ultimo mandato l’ultimo presidente gringo.

Riusciva a sentire la folla là fuori. Non sembrava molto diversa da come erano state le folle degli Stati Uniti; forse solo un po’ meno bianca. E più banale. L’assenza di solennità lo sconcertava. Riusciva a intuire la sua ironia, quella di un paio di intrusi che si sono intrufolati a una festa e fanno un sorriso di circostanza mentre il padrone di casa dà il benvenuto, ma in realtà dentro di sé se la ridono, aspettando solo che finisca quel momento di cattivo gusto per lanciarsi sul buffet.

Il presidente non sapeva più com’era l’America. Come si organizzava il mondo. Le cose con cui era cresciuto e che aveva governato ormai erano altre, facevano cose diverse

Il presidente non sapeva più com’era l’America. Come si pronunciava quel paesaggio, come si organizzava il mondo. Le cose, le stesse con cui era cresciuto e che aveva governato, ormai erano altre, facevano cose diverse. Durante il suo ultimo viaggio ufficiale nel Midwest aveva agitato un cappello in aria gridando: “Urrà America!”. E la gente si era piegata in due dalle risate, come quando ai suoi tempi si rideva dei nuovi arrivati che alzavano la mano per fermare la metropolitana come se fosse un autobus. L’America era un posto strano.

E come sarebbe pensare in messicano, merda. Il mistero gli perseguitava la mattina.

L’avevano ingannato, avevano ingannato lui, le istituzioni, la storia. All’inizio sembrava che si fossero adattati così bene. Erano andati a combattere le loro guerre e si erano accontentati quando poi non erano comparsi né nelle epopee cinematografiche né nei discorsi ufficiali; silenziosi, persino grati che li si lasciasse lavorare nelle cucine, vendere fiori, lavare pavimenti. Non avevano protestato nemmeno quando il loro cibo era stato trasformato in spazzatura industriale per renderlo più pratico. Erano il sogno di qualunque impero, maledizione. Si supponeva che non sarebbero mai diventati altro che quelli che smussano gli angoli, che risolvono i piccoli dettagli insignificanti e poi spariscono; ma presto quei dettagli furono così tanti, così prolifici, che il centro smise di essere riconoscibile, e la trama di quella gente diventò La Questione Americana.

Quando era cominciato?, pensò. Impossibile saperlo. Per un lungo periodo erano stati tanto onnipresenti quanto insignificanti, finché la frase che ci faceva così ridere – tanto che la ripetevamo imitando un bambino – aveva assunto un altro tono: Mi casa es tu casa.Già.

Poi si erano susseguiti una serie di avvenimenti che avrebbero dovuto farli reagire: un tipo che aveva appena ereditato i miliardi del padre, celebre creatore di software, li donò alla sua tata messicana; nelle aziende produttrici di armi ci fu un incremento di consulenti messicani, sempre spaventosamente ben informati; giudici della corte suprema andavano ovunque seguiti da un segretario messicano… Ciò che non sembrava cambiare, oh, America, era il sistema democratico. I latinos non avevano mostrato interesse, a parte due o tre di loro che scaldavano la poltrona alla camera dei rappresentanti. Fin quando non accadde la faccenda di San Francisco. Allora sì che i messicani apparvero alle urne.

All’inizio sembrò solo una specie di performance collettiva, estremamente cool, ovvio. Un supervisore locale introdusse in quelle elezioni la proposta M: di fronte all’imposizione da parte del governo federale della teoria creazionista nelle scuole primarie, la città di San Francisco propose ai suoi cittadini di diventare un protettorato messicano. Oh, come si erano divertiti quell’estate! I sarape si vendevano a migliaia e non si era mai bevuta così tanta tequila nei bar. Ma il giorno del voto si videro orde di messicani in fila, gente che poteva votare da anni ma non aveva mai preso sul serio la cosa.

Più tardi, gli studiosi hanno cercato di spiegare il fenomeno, senza molto successo, anche se sono riusciti a descriverlo: un giorno, clic, proprio quel giorno, qualcosa aveva acceso l’interruttore dei messicani, anche di quelli che non sapevano di esserlo o di quelli che non volevano esserlo (di seconda, terza, quarta generazione statunitense) e avevano preso consapevolezza di una missione. Il viaggio generazionale aveva senso, ora lo capivano, e i passi da fare erano chiari. Si cominciò a parlare apertamente della fine di un’epoca e dell’inizio di un’altra. Il nuovo sole, dicevano alcuni.

Prima che i gringos potessero reagire, San Antonio, Los Angeles e perfino New York avevano approvato risoluzioni simili. “Non cambierà niente”, assicuravano i dirigenti della Coalición pocha con tono rassicurante, “l’America resterà l’America, solo con più memoria”. Il governo messicano, dall’altra parte del fiume, sprofondava nello sconcerto, finché la Coalición non inviò consiglieri per spiegargli che doveva solo fare ciò che sapeva fare meglio: aspettare.

Le istituzioni furono lentissime a reagire, o forse la lentezza era l’unica pulsione sensata; e le poche proteste furono puntualmente represse in nome della tranquillità sociale. I gringos erano stanchi.

Ciò che li convinse definitivamente fu vedere come, quando i messicani presero il controllo del congresso, risolsero il problema del terrorismo con una soluzione al tempo stesso semplicissima e molto messicana *.

Schiacciato dai conteggi elettorali, il presidente si appoggiò alla scrivania con i palmi aperti, guardando verso quella che un tempo si chiamava Pennsylvania avenue, ma smise subito di farlo quando si rese conto che stava ripetendo il gesto di Kennedy ai tempi della farsa dei missili. Patetico. Sono patetico, si disse, una brutta copia di un’idea morta.

E ora finalmente era finita. Avevano vinto le elezioni, e anche se sembravano prendere le cose senza euforia, senza spirito vendicativo, di tanto in tanto facevano capire quanto ormai fossero diventati i veri padroni di casa.

Appena qualche giorno prima, il candidato vincitore aveva inviato al presidente un cofanetto con un paio di coltelli d’ossidiana e un biglietto: “Dicevano sempre che noi eravamo tutto cuore, vero? Avevano proprio ragione! Sarebbe così gentile da mandarmi il suo?”. E, sotto quella nota, ce n’era un’altra: “Sto scherzando!”. Ah, ah.

Le istituzioni furono lentissime a reagire, o forse la lentezza era l’unica pulsione sensata; e le poche proteste furono puntualmente represse in nome della tranquillità sociale. I gringos erano stanchi

Non è che non fossero più al comando, si disse il presidente; è che, in realtà, non esistevano più.

Cosa ne restava di un americano senza potere, senza spazio vitale? Senza certezze?

Come sarà pensare in messicano?, si chiese di nuovo, con una sensazione di smarrimento.

Un assistente lo avvisò che il presidente eletto era arrivato. Voleva visitare il suo ufficio prima della cerimonia d’insediamento. “Fallo passare”, disse il presidente, ma l’altro stava già entrando senza aspettare l’invito. Spinse la porta con la sua sedia a rotelle elettrica e la fermò quando fu due metri dentro lo Studio Ovale. In silenzio, il messicano percorse la stanza con lo sguardo. Si sentiva soltanto, in modo intermittente, il suono del motorino quando il messicano girava la sedia con il mento per apprezzare meglio qualche dettaglio.

Il presidente osservò ancora una volta quell’uomo deforme, minuto. Scrutò il suo volto minuziosamente tatuato. Pensò che il proprio volto dovesse esprimere tristezza, amarezza e, infine, stanchezza; ma non riusciva a intuire cosa si agitasse dietro il tessuto animato che era il volto del messicano. Desiderò che, a quel punto, l’uomo gli concedesse la dignità di non ripetere ciò che aveva detto durante la campagna: “Forse dovremmo cominciare trovando un vero nome a questo paese”.

Dopo un tempo che nessuno si preoccupò di misurare, il messicano posò infine lo sguardo sul presidente, con curiosità, come se si fosse appena accorto della sua presenza. Con un leggero movimento del capo gli indicò di guardare verso le tende e disse: “Bien entendu, on aura besoin de satin pour ces rideaux”. ◆

* come in un giornaletto illustrato! A colori!!

Yuri Herrera è uno scrittore nato ad Actopan nel 1970. Tra i suoi libri pubblicati in italiano Segnali che precederanno la fine del mondo (La nuova frontiera 2012) e La trasmigrazione dei corpi (Feltrinelli 2014). Questo racconto è uscito sulla rivista letteraria messicana El Perro con il titolo Aztlán, D.C. La traduzione è di Sara Cavarero.

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Questo articolo è uscito sul numero 1646 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati