L’intervento di Barack Obama all’American University di Washington, il 5 agosto.

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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha scelto l’American University di Washington per lanciare il suo appello al congresso per la ratifica dell’accordo sul nucleare iraniano, raggiunto il 14 luglio a Ginevra (il voto è in programma a settembre). La scelta non è stata casuale. Proprio all’American University, infatti, 52 anni fa John Fitzgerald Kennedy parlò della necessità di usare gli strumenti della diplomazia, per evitare lo scoppio di una guerra nucleare. Dall’eredità di Kennedy alle divergenze con Israele, i passaggi più significativi dell’intervento di Obama.

Come Kennedy. “Cinquantadue anni fa, il presidente Kennedy, al culmine della guerra fredda ha parlato del tema della pace in questa stessa università. Il muro di Berlino era appena stato costruito. L’Unione Sovietica aveva sperimentato le armi più potenti mai sviluppate prima. La Cina era sul punto di dotarsi dell’atomica. E meno di vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale la prospettiva di una guerra atomica sembrava davvero troppo concreta”.

“Con Kennedy al timone, la crisi missilistica cubana è stata risolta pacificamente. Sotto presidenti democratici e repubblicani sono stati forgiati nuovi accordi: un trattato di non proliferazione che proibisce ai paesi di acquisire nuove armi nucleari pur mantenendo l’accesso al nucleare civile; i trattati Salt e Start che hanno portato Stati Uniti e Unione Sovietica a cooperare sul controllo degli armamenti. Non sono stati evitati tutti i conflitti ma il mondo ha evitato una catastrofe nucleare, e abbiamo creato le condizioni per vincere la guerra fredda senza sparare nemmeno un proiettile contro i sovietici”.

“Mi richiamo alla storia perché oggi più che mai abbiamo bisogno di riflettere con chiarezza sulla nostra politica estera e mi richiamo alla storia perché riguarda direttamente il modo in cui risponderemo al programma nucleare iraniano”.

Il dibattito più importante. “Voglio parlarvi di questo accordo e del dibattito sulla politica estera con più conseguenze che il nostro paese abbia avuto dai tempi dell’invasione dell’Iraq, mentre il congresso decide se sostenere questa svolta storica della diplomazia o bloccarla con l’obiezione della vasta maggioranza del mondo. Nel tempo che ci separa del voto del congresso il prossimo settembre, ascolterete molte tesi contro questo accordo, sostenute da campagne per decine di milioni di dollari. E se la retorica di queste campagne e i commenti che seguiranno vi sembreranno familiari, è così, perché molte delle stesse persone che difendevano la guerra in Iraq oggi si oppongono a un accordo sul nucleare iraniano”.

L’Iraq. “Quando mi sono candidato la prima volta otto anni fa mi sono opposto alla guerra in Iraq, dicendo che gli Stati Uniti non dovevano solo mettere fine a quella guerra. Dovevamo mettere fine alla mentalità che ci aveva portato lì in primo luogo. Una mentalità caratterizzata dalla preferenza dell’azione militare sulla diplomazia, una mentalità che aveva privilegiato un’azione militare unilaterale al difficile lavoro della costruzione del consenso internazionale, una mentalità che aveva esagerato le minacce che si nascondevano dietro le prove di cui eravamo effettivamente in possesso”.

“Più di dieci anni dopo, conviviamo ancora con le conseguenze della decisione di invadere l’Iraq. I nostri militari hanno raggiunto tutti gli obiettivi fissati, ma al prezzo di migliaia di morti e decine di migliaia di feriti. Senza nemmeno contare tutti i morti iracheni. Sono stati spesi quasi mille miliardi. Oggi l’Iraq è ancora travolto dai conflitti settari e dall’emergenza di Al Qaeda in Iraq che ora è evoluta nel gruppo Stato islamico. Ironia della sorte, se c’è stato un beneficiario nella regione di quella guerra è stato proprio l’Iran, che ha visto la sua posizione strategica rafforzata dalla rimozione del suo nemico storico Saddam Hussein”.

L’alternativa. “Dato che credo fermamente che Teheran non debba dotarsi dell’atomica e ho combattuto per questo sin dall’avvio della mia presidenza, posso dirvi che le alternative all’azione militare saranno esaurite se rinunciamo a questa sofferta soluzione diplomatica che il mondo sostiene quasi all’unanimità. È inutile girarci intorno. La scelta che ci troviamo davanti è tra la diplomazia e una qualche forma di guerra. Forse non domani, forse non in tre mesi, ma molto presto”.

Comandante in capo. “Non mi sono sottratto all’uso della forza quando era necessario. Ho ordinato di combattere a decine di migliaia di giovani americani. Qualche volta mi sono seduto vicino al loro letto d’ospedale quando tornavano a casa. Ho ordinato azioni militari in sette paesi. Ci sono situazioni in cui l’uso della forza è necessario, e se l’Iran non rispetterà questo accordo è possibile che non ci saranno alternative. Ma come possiamo, in coscienza, giustificare la guerra prima di aver sperimentato un accordo diplomatico che possa farci ottenere gli stessi obiettivi, d’intesa con l’Iran, e con il sostegno del resto del mondo, un accordo che ci mantiene comunque aperta l’opzione militare se non sarà rispettato?”.

Le divergenze con Israele. “Quando il governo israeliano si oppone a qualcosa la gente negli Stati Uniti ci fa caso, ed è giusto che sia così. Nessuno può criticare Israele per il suo scetticismo su ogni accordo che coinvolga un governo come quello iraniano, con leader che negano l’esistenza dell’olocausto, difendono l’antisemitismo, facilitano gli attacchi con razzi che partono vicino ai confini israeliani e sono puntati contro Tel Aviv. Con un vicino tanto pericoloso Israele dev’essere vigile e insiste giustamente che non può dipendere da nessun altro paese, nemmeno dai suoi grandi amici Stati Uniti, per la sua stessa sicurezza”.

“Abbiamo preso molto seriamente i timori di Israele. È anche grazie all’assistenza militare e all’intelligence statunitensi – che la mia amministrazione ha garantito a livelli senza precedenti – che Israele può difendersi da qualsiasi minaccia convenzionale, provenga essa dall’Iran o da qualsiasi altro dei suoi vicini”.

“Mi rendo conto che il primo ministro (israeliano Benjamin) Netanyahu non è d’accordo, non lo è per niente. E non metto in dubbio la sua sincerità, ma penso che si sbagli. Penso che i fatti siano a sostegno di questo accordo. Penso che siano nell’interesse degli Stati Uniti e nell’interesse di Israele, e come presidente degli Stati Uniti farei un torto alla costituzione se agissi contro le mie opinioni solo per evitare una divergenza temporanea con un caro amico e alleato”.

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