30 ottobre 2017 12:30

In Italia molti hanno criticato l’articolo di Ruth Ben-Ghiat sui monumenti fascisti, uscito sul New Yorker e tradotto in italiano su Internazionale. La storica statunitense, però, spiega di non aver detto di demolire gli edifici fascisti.

In Italia ci sono ancora “monumenti di epoca mussoliniana, in particolare all’Eur e al Foro Italico di Roma”, dice Antonio Carioti sul Corriere della Sera, “perché il fascismo, durato vent’anni, s’impegnò particolarmente nella costruzione di opere pubbliche, alcune delle quali, anche per il loro valore artistico e architettonico, sono sopravvissute alla caduta del regime e all’avvento della repubblica democratica e antifascista”.

E Carioti prosegue: “Evidentemente la questione è stata posta dal New Yorker sulla scia della polemica sollevata negli Stati Uniti riguardo alle statue degli esponenti sudisti. Ma il caso è ben diverso, perché i monumenti ai confederati non sono residui scampati a una sconfitta e a una messa al bando: vennero elevati (alcuni anche al nord) non prima, ma dopo la disfatta degli stati schiavisti nella guerra di secessione e corrispondevano alla persistenza della segregazione razziale contro gli afroamericani nel sud degli Stati Uniti fino a un secolo dopo la conclusione del conflitto”.

“L’articolo di Ruth Ben-Ghiat sul New Yorker dimostra come ormai il populismo non sia solo più appannaggio della politica, ma è entrato, con la formula subdola del politicamente corretto, anche nel giornalismo di qualità”, scrive sul Sole 24 ore lo storico dell’architettura Fulvio Irace.

“L’autrice infatti è professoressa di storia e studi italiani alla New York university, ma paradossalmente sembra ignorare, nelle sue argomentazioni contro la presunta ‘architettura fascista’, quel travagliato e complesso lavoro di elaborazione storiografica che per molti decenni ha consentito una concezione meno settaria e rozza del ventennio. Nel 1972 Cesare de Seta fu tra i primi storici dell’architettura a proporre una visione meno manichea tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ architetti durante il ventennio, mettendo in questione il significato stesso del termine ‘architettura fascista’ che oggi, con tanta spavalda sicurezza, viene richiamato dal New Yorker nella sua battaglia per un’epurazione tardiva. Un’architettura che, negli anni del regime, ha prodotto autentici capolavori, come la stazione di Firenze, la casa del Fascio di Como, il Palazzo dei congressi all’Eur di Roma”.

“C’è una confusione di fondo”, osserva lo scrittore Antonio Pennacchi intervistato dal Foglio. “Cos’è un monumento? Si intende la statua? Il simbolo mediatico il cui principale e precipuo scopo è la dichiarazione ideologica? Ma quei monumenti un cambio di regime li rimuove subito, come fu fatto da noi dopo la guerra. I fasci furono scalpellati. Si intende l’edificio? Ma quello dappertutto lo si tiene”.

La parola alla difesa
Ruth Ben-Ghiat, intervistata dalla Stampa, spiega: “Conosco bene l’abitudine di commentare senza aver letto, ma non ho mai proposto di demolire questi edifici. Sarebbe assurdo. Il mio era un appello alla sensibilizzazione, lanciato mentre la destra risorge un po’ ovunque, per riflettere su come interagire con questi edifici e con l’eredità storica a cui sono legati”.

E continua: “Non mi aspettavo la violenza degli attacchi personali, i commenti antisemiti e maschilisti, o quello di Giordano Bruno Guerri secondo cui sarei una signora in cerca di pubblicità. Non propongo di demolire quegli edifici e riconosco che sono belli. Pongo un problema di natura storica, non estetica, sulla memoria del fascismo”.

“Ruth Ben-Ghiat, profonda conoscitrice della storia italiana”, scrive Roberto Saviano sull’Espresso, “pone una questione sulla quale ci interroghiamo poco: quanto condizionano la nostra vita i simboli che ci circondano? E quanto la condizionano quei simboli dei quali non siamo più in grado di cogliere il messaggio? Cosa rappresentano oggi i simboli fascisti rimasti in Italia, un monito o memoria da rispolverare?”.

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