30 gennaio 2020 12:55

La Corte internazionale di giustizia (Icj) dell’Aja ha stabilito lo scorso 23 gennaio che la Birmania dovrà prendere dei provvedimenti per proteggere i rohingya, una minoranza musulmana vittima di persecuzione. Si tratta del primo verdetto di un tribunale internazionale contro la Birmania, accusata di genocidio, e di un atto d’accusa nei confronti di Aung San Suu Kyi, leader di fatto del paese.

La donna si è presentata al tribunale a dicembre per negare le accuse secondo le quali, nel 2017, l’esercito avrebbe sistematicamente bruciato villaggi rohingya, uccidendo e stuprando migliaia di persone e spingendo più di 730mila persone, terrorizzate, a cercare rifugio nel vicino Bangladesh.

In una denuncia presentata nel novembre 2019, il Gambia, che agiva per conto dell’Organizzazione della cooperazione islamica, un’organizzazione di cui fanno parte 57 paesi, ha accusato la Birmania non solo di violare un trattato internazionale contro il genocidio, ma ha anche sostenuto che i rohingya sono ancora in pericolo.

Il tribunale stabilirà se effettivamente sia stato compiuto un genocidio, ma il Gambia voleva chiedere di imporre dei provvedimenti temporanei per evitare ulteriori sofferenze. Ha chiesto all’Icj, che giudica le dispute tra stati membri delle Nazioni Unite, di ordinare al governo birmano di proteggere i rohingya dalla violenza, di ordinare all’esercito di mettere fine alla sue persecuzioni, di conservare tutte le prove relative alle accuse di genocidio, e di consegnare un rapporto al tribunale relativo alle misure prese per rispettare le sue ordinanze entro quattro mesi.

Un consenso non comune
Le richieste del Gambia sono state accolte all’unanimità dai 17 giudici, tra cui Claus Kress, il giudice tedesco nominato dalla Birmania e Xue Hanqin, un giudice cinese che ha espresso delle riserve sul diritto del Gambia di sporgere denuncia. “Avere un simile livello di consenso non è un fatto comune”, spiega Michael Becker, ex consigliere legale associato all’Icj. I giudici hanno inoltre deciso che la Birmania consegni il suo rapporto al tribunale entro quattro mesi e poi fornisca aggiornamenti ogni sei mesi finché il caso non sarà archiviato. “Non si tratta di una condizione richiesta dal Gambia”, spiega Priya Pillai, che dirige la Asia Justice Coalition, un’associazione di varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani.

Per il Gambia non si è trattato di una vittoria totale. L’Icj non ha ordinato alla Birmania di accogliere gli ispettori dell’Onu nel paese. Ad alcuni membri della Missione conoscitiva internazionale indipendente dell’Onu è stato vietato l’ingresso in Birmania, vanificando così la loro capacità di raccogliere prove sulle “operazioni di pulizia” del 2017. Il tribunale non ha spiegato perché abbia negato tale richiesta. Becker non si è sorpreso della cosa: “È una questione conflittuale, e non è chiaro se la Birmania abbia effettivamente alcun obbligo di autorizzare l’ingresso degli ispettori dell’Onu nel paese”.

Ciò nonostante, le ordinanze approvate dal tribunale sono state accolte con favore dal Gambia e dai gruppi di difesa dei rohingya, come la britannica The burmese rohingya organisation, che ha definito la sentenza un “momento storico per l’obbligo di responsabilità”. Le misure provvisorie sono legalmente vincolanti e a novembre la Birmania ha esplicitamente riconosciuto l’autorità dell’Icj. “Solitamente le misure provvisorie vengono rispettate”, spiega Pillai. “Viene dato molto peso all’Icj”.

Potere di veto cinese
Se il Gambia deciderà che la Birmania non ha rispettato le disposizioni del tribunale, potrà cercare di far approvare una nuova serie di misure temporanee o, successivamente, cercare l’aiuto del consiglio di sicurezza dell’Onu. Becker ritiene improbabile, tuttavia, la prospettiva che il consiglio passi all’azione “in particolare a causa delle strette relazioni tra la Cina e la Birmania”. In qualità di membro permanente del Consiglio di sicurezza, la Cina ha potere di veto sulle risoluzioni di quest’ultimo, e in passato ne ha vanificato i tentativi di punire la Birmania per il suo trattamento nei confronti dei rohingya.

Il presidente del tribunale, Abdulqawi Yusuf, ha voluto sottolineare che il verdetto non entra nel merito del caso, per il quale devono ancora cominciare le udienze. Al fine di soddisfare le richieste relative alle misure provvisorie, il Gambia ha dovuto convincere l’Icj che potrebbero essersi verificati atti di genocidio e che rischiano di ripetersi. Fatto cruciale, non ha dovuto provare che un genocidio ci sia effettivamente stato. È molto probabile che per raggiungere una decisione su tale punto ci vorranno anni.

Il giorno prima della decisione del tribunale più di cento gruppi della società civile birmana hanno firmato una lettera di sostegno all’Icj. “Capiamo chiaramente che il caso dell’Icj contro la Birmania riguarda coloro che sono responsabili dell’uso del potere politico e della potenza militare, e non tutta la popolazione birmana”, hanno scritto. Sfortunatamente il loro è un punto di vista minoritario. Quando Aung San Suu Kyi si è recata all’Aja, a dicembre, migliaia di sostenitori in tutta la Birmania sono scesi in piazza per proclamare la loro fedeltà nei suoi confronti.

Può darsi che la decisione dell’Icj sia fonte d’imbarazzo per Suu Kyi all’estero, ma in patria rafforzerà la sua immagine di guardiano della nazione. È inoltre possibile che faccia aumentare i pregiudizi contro i rohingya, come persone non solo sgradite in Birmania, ma anche fonte d’imbarazzo internazionale.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico [The Economist](http://www.economist.com /asia/2020/01/23/the-uns-highest-court-orders-myanmar-to-protect-the-rohingya)

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