02 ottobre 2023 12:02

Il 25 settembre, in occasione di un vertice sull’edilizia abitativa, il ministro tedesco dell’economia, il verde Robert Habeck, ha annunciato che il governo bloccherà un pacchetto di misure studiato per aumentare l’efficienza energetica dei nuovi edifici costruiti in Germania. “A causa delle difficili condizioni del settore edilizio, legate all’aumento dei tassi d’interesse e all’aumento dei costi provocato dall’inflazione, non è possibile per il momento rendere obbligatoria l’applicazione dello standard energetico EH-40”.

Il programma dell’esecutivo formato dai socialdemocratici dell’Spd, dai Verdi e dai liberali dell’Fdp prevedeva l’introduzione dell’EH-40 a partire dal 2025. Secondo gli esperti, questo standard permette di ridurre del 40 per cento i consumi energetici di un’abitazione. La misura era osteggiata dalle aziende edilizie e dall’associazione dei comuni tedeschi, secondo i quali è troppo costosa e farà aumentare eccessivamente il prezzo degli immobili. Nei primi sei mesi del 2023 le licenze per nuovi lavori di costruzione sono diminuite del 27 per cento, mentre nel secondo trimestre i prezzi immobiliari sono aumentati di quasi il 9 per cento.

Le parole di Habeck hanno suscitato forti polemiche, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste tedesche, scrive il quotidiano Die Tagesezeitung. “Il ritardo sugli obiettivi della transizione si aggraverà”, ha sottolineato Barbara Metz, della Deutsche Umwelthilfe. Ma la Germania non è l’unico paese a fare marcia indietro in questo ambito. In Irlanda la centrale elettrica della contea di Clare, alimentata a carbone, sarà tenuta aperta fino al 2029 per assicurare le forniture di energia elettrica necessarie al fabbisogno nazionale. Nei progetti iniziali l’impianto doveva chiudere nel 2025 per fare spazio a un grande centro per la produzione di energia pulita.

La marcia indietro del Regno Unito
Un altro caso è quello del Regno Unito, dove il 20 settembre il premier conservatore Rishi Sunak ha annunciato il rinvio del divieto di vendere auto con motore a benzina o diesel dal 2030 al 2035. Ci sarà inoltre più tempo per l’adozione della pompe di calore al posto della caldaie alimentate con il gas, ma saranno rafforzati gli incentivi ai proprietari di casa che scelgono di rinnovare il sistema di riscaldamento. Sunak ha precisato che non saranno imposte nuove norme per l’efficienza energetica degli immobili, né tasse che scoraggino i voli aerei.

Il primo ministro ha giustificato la decisione con il timore che i costi eccessivi della transizione scontentino i cittadini, soprattutto quelli più poveri. Ma, come nel caso tedesco, anche nel suo sono arrivate numerose critiche, perfino dai suoi compagni di partito. In un editoriale che Internazionale ha pubblicato sul numero in edicola, il Financial Times ha osservato che, invece di demolire il piano britannico per l’abbattimento delle emissioni entro il 2050, Sunak avrebbe fatto bene a decidere misure d’aiuto mirate a chi sta peggio, in modo che i costi della transizione siano sostenuti dalla popolazione in proporzione alla ricchezza dei singoli cittadini.

Il quotidiano britannico aggiunge tuttavia che molti paesi cominciano a realizzare che la transizione non sarà veloce e soprattutto che sarà molto costosa. Ditte Juul Jørgensen, direttrice generale dell’energia per la Commissione europea, ha dichiarato che l’Europa dovrà fare affidamento sulle fonti d’energia fossili provenienti dagli Stati Uniti, in particolare il gas naturale liquefatto, per i prossimi decenni dopo essersi staccata dalla Russia e in attesa che si diffondano le rinnovabili. La segretaria statunitense all’energia, Jennifer Granholm, ha avvertito che rinunciare alle fonti fossili renderà la sicurezza energetica di un paese una questione molto più complessa, anche a causa del dominio della Cina nell’estrazione e nella lavorazione dei minerali indispensabili alle tecnologie ecologicamente sostenibili.

Insomma, i paesi europei, e in generale tutti quelli che puntano con decisione sulla transizione energetica, dovranno cercare un difficile punto d’equilibrio tra la lotta alla crisi climatica e la sicurezza energetica. A questo proposito è interessante il documento pubblicato all’inizio di settembre dagli economisti del centro studi Bruegel Jean Pisani-Ferry, Simone Tagliapietra e Georg Zachman.

“Man mano che i costi della decarbonizzazione diventano più evidenti e le mutate condizioni politiche ostacolano l’azione sulla crisi climatica”, scrivono, “dev’essere chiaro a tutti che l’Unione europea ha intrapreso una vera e propria rivoluzione industriale, i cui benefici saranno nettamente maggiori dei costi, ma che comporta una trasformazione dolorosa. Alcuni beni si svaluteranno, alcuni posti di lavoro saranno eliminati, alcune regioni soffriranno. La competitività sarà messa alla prova e le implicazioni a livello macroeconomico potrebbero essere temporaneamente negative”. Un’impresa simile può riuscire, aggiungono Pisani-Ferry, Tagliapietra e Zachman, solo se si salvaguardia l’equità, cioè se a nessuno sarà chiesto di investire oltre le sue possibilità, e se l’Unione europea riuscirà a imprimere una visione comune senza infrangere la sovranità nazionale.

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