17 ottobre 2023 11:56

“La regione mediorientale è più tranquilla oggi di quanto non lo sia stata in due decenni”. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, è stato sbeffeggiato per queste parole pronunciate appena dieci giorni prima dell’attacco di Hamas e della rappresaglia di Israele contro la Striscia di Gaza. Parlando a una conferenza della rivista The Atlantic, Sullivan aveva osservato con soddisfazione: “La quantità di tempo che devo dedicare alle crisi e ai conflitti in Medio Oriente oggi, rispetto a tutti i miei predecessori dai tempi dell’11 settembre 2001, è significativamente ridotta”.

Andando oltre l’aspetto ironico della cosa, mi sembra che la posizione di Sullivan sintetizzi bene il problema fondamentale della strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente. In sostanza, da anni Washington tende a rapportarsi con quella regione sulla base di come vorrebbe che andassero le cose, invece che adattandosi a come le cose vanno realmente.

Da almeno quindici anni, cioè da quando Barack Obama ha preso il posto di George W. Bush, una delle priorità degli Stati Uniti in politica estera è stata ridurre progressivamente il proprio impegno in Medio Oriente per concentrarsi su fronti considerati più importanti rispetto all’interesse nazionale. Questa valutazione, condivisa dalla maggior parte dei politici sia democratici sia repubblicani, nasceva dalla presa d’atto di una serie di fallimenti – nella lotta al terrorismo e nella costruzione di istituzioni solide in Afghanistan e in Iraq – per cui il paese aveva pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane, risorse economiche e reputazione internazionale.

Joe Biden è andato alla Casa Bianca con idee strategiche sul Medio Oriente diverse da quelle di Obama e di Donald Trump, ma condivideva con i suoi predecessori la convinzione che gli impegni degli Stati Uniti in Medio Oriente fossero una distrazione dalle sfide più urgenti, in particolare quelle poste dall’ascesa geopolitica ed economica della Cina. Come ha scritto Suzanne Maloney su Foreign Affairs, l’amministrazione Biden “ha elaborato una via di uscita creativa, cercando di mediare un nuovo equilibrio di potere in Medio Oriente che permettesse a Washington di ridimensionare la sua presenza e la sua attenzione, assicurandosi al tempo stesso che Pechino non riempisse il vuoto”. In questa prospettiva va letto il tentativo storico di normalizzare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita, in modo da allineare formalmente i due più importanti partner regionali degli Stati Uniti contro il nemico comune, l’Iran, e di togliere i sauditi dell’orbita strategica cinese.

“Parallelamente a questo sforzo”, spiega Maloney, “l’amministrazione Biden ha cercato di allentare le tensioni con l’Iran, l’avversario più pericoloso che gli Stati Uniti devono affrontare in Medio Oriente. Dopo aver fallito nel tentativo di resuscitare l’accordo sul nucleare del 2015 – negoziato da Obama e poi cancellato da Trump –, Washington ha lanciato un piano b fatto di incentivi economici e accordi informali. La speranza era che, in cambio di modeste concessioni, Teheran potesse convincersi a rallentare i suoi programmi nucleari e ridurre gli sforzi per destabilizzare la regione (anche sostenendo Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano). La prima fase è stata raggiunta a settembre, con un accordo che ha liberato dalle prigioni iraniane cinque statunitensi ingiustamente detenuti e ha dato a Teheran accesso a 6 miliardi di dollari di fondi iraniani bloccati a causa delle sanzioni statunitensi” (i soldi sono stati di nuovo bloccati il 12 ottobre). Nell’ottica dell’amministrazione Biden, un nuovo allineamento tra due dei principali attori della regione – Arabia Saudita e Iran – avrebbe potuto trasformare in meglio la sicurezza e l’economia del Medio Oriente.

Secondo Maloney, il piano di Biden per uscire dal Medio Oriente è fallito perché sopravvalutava gli effetti degli incentivi all’Iran e minimizzava l’interesse di Teheran ad alimentare il caos nella regione. “Non è mai stato plausibile che intese informali e un po’ di alleggerimento delle sanzioni fossero sufficienti a pacificare la Repubblica islamica e i suoi alleati, che sono ben consapevoli dell’utilità dell’escalation per far avanzare i loro interessi strategici ed economici. Inoltre la prospettiva di un’alleanza israelo-saudita ha spaventato l’Iran, poiché avrebbe spostato l’equilibrio regionale di nuovo a favore di Washington”.

Dopo l’attacco senza precedenti di Hamas e la risposta durissima di Israele, gli Stati Uniti dovranno prendere atto che un disimpegno dalla regione non sarà una prospettiva realistica ancora per molto tempo, e dovranno elaborare una nuova strategia che parta da presupposti diversi. La loro politica estera sta già cambiando. Tra le prime conseguenze della guerra c’è il riavvicinamento con il governo israeliano (preoccupato dalla svolta nazionalista di Israele, negli ultimi mesi Biden aveva ridotto al minimo i contatti diretti con il primo ministro Benjamin Netanyahu).

“Nessun leader israeliano farà concessioni ai palestinesi. La soluzione dei ‘due Stati’, portata avanti da Biden, è più lontana che mai”

Era inevitabile che succedesse, anche perché Biden non vuole passare come il presidente che ha voltato le spalle a Israele dopo un’aggressione del genere, soprattutto a un anno dalle elezioni (i repubblicani sostengono che Biden, con le sue politiche morbide nei confronti del regime iraniano, abbia in qualche modo contribuito all’attacco di Hamas). Ma gli Stati Uniti devono anche chiedersi fin dove arriverà il loro sostegno. Scrive l’Economist: “Anche supponendo che Hamas possa essere distrutto, né Biden né Netanyahu possono rispondere alle difficili domande su cosa succederà dopo la punizione di Israele: chi gestirà Gaza e quale sarà lo status dei palestinesi in mezzo a Israele? Come Israele ha imparato nell’invasione sbagliata del Libano nel 1982 e gli Stati Uniti hanno scoperto in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre 2001, è facile essere trascinati in una guerra contro i terroristi. È molto più difficile uscirne”. Per descrivere la condizione di Washington vale quella famosa battuta di Michael Corleone nel Padrino III: “Adesso che credevo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro”.

Quanto ai piani statunitensi di alleanze regionali, spiega l’Economist, “le possibilità di concludere un accordo tra israeliani e sauditi sponsorizzato da Washington sono molto ridotte, almeno per ora. Rispetto alla questione palestinese, nessun leader israeliano farà concessioni ai palestinesi, quindi la prospettiva della soluzione dei ’due Stati’, portata avanti da Biden, è più lontana che mai. Anche lo spazio di manovra dell’Arabia Saudita sarà più limitato; e il principe saudita Mohammed bin Salman potrebbe essere riluttante a stringere un patto con i leader americani e israeliani che potrebbero presto uscire di scena”.

Allargando lo sguardo dal Medio Oriente al resto del mondo, è interessante che molti commentatori americani abbiano letto lo scoppio della guerra tra Hamas e Israele come l’ennesima dimostrazione del declino globale statunitense. Gli esperti di politica estera vedono i segni di questo declino negli atti di sfida all’egemonia americana lanciati negli ultimi anni in varie zone del mondo: la Cina in Asia; la Russia in Europa; e ora l’Iran in Medio Oriente.

Ne ha scritto Ross Douthat sul New York Times: “Non sappiamo ancora se gli attacchi di Hamas siano stati pianificati con la benedizione o la connivenza di Teheran. Ma il fatto che negli ultimi anni gli iraniani abbiano aumentato i finanziamenti e il sostegno ad Hamas significa che gli attentati derivano in qualche modo da una loro più ampia strategia: circondare Israele di nemici, estendere il loro potere attraverso alleati e proxy e disturbare il tentativo statunitense di mediare un riavvicinamento tra Israele e gli stati arabi sunniti”.

“Anche se non è esplicitamente concordata con Pechino e Mosca, questa strategia si allinea funzionalmente con le ambizioni di quei regimi a Taiwan e in Ucraina. In tutti i casi c’è un’attenzione ostile verso un territorio percepito come un satellite o un avamposto dell’impero americano. C’è il desiderio di umiliare, sconfiggere o conquistare quel territorio non solo per il proprio interesse ma anche per cambiare lo status quo regionale o globale”.

In questo scenario le scelte di politica estera di Washington si complicano, e di conseguenza anche i rapporti con i paesi alleati. “Il tacito allineamento dei paesi rivali significa che gli Stati Uniti non possono considerare il loro approccio a una singola questione senza valutare come condizionerà la loro capacità di gestire le minacce in altri teatri. Il comprensibile massimalismo degli ucraini, ora affiancato dalla comprensibile furia degli israeliani, non può essere l’unica guida della politica statunitense”.

Si può pensare che la fine dell’egemonia statunitense non sia necessariamente una brutta notizia, ma bisogna prepararsi al fatto che il percorso verso un nuovo, eventuale ordine mondiale sarà tutt’altro che pacifico. Ne ha parlato qualche giorno fa Noah Smith nella sua newsletter: “Sta emergendo un mondo completamente multipolare e le persone si stanno rendendo conto che il multipolarismo comporta un bel po’ di caos”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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