12 febbraio 2024 16:32

Questa è la seconda di una serie di interviste a giovani registi che hanno fatto film e documentari sugli Stati Uniti. L’idea è dare spazio a voci che raccontano in modo originale la società americana e, di riflesso, parlano anche molto della nostra. Qui c’è la prima puntata. Chi volesse proporre i suoi lavori può scrivere alla newsletter Americana (americana@internazionale.it).

Un uomo in pantaloncini e maglietta scorrazza su una bici bmx. La telecamera lo riprende mentre si alza sui pedali, prende la rincorsa per superare un dosso, imbocca velocemente un fosso e poi riemerge con un salto, inclinando la bici in volo per frenare nell’atterraggio. Intorno a lui c’è il deserto, si vedono solo piante e cespugli secchi e le montagne lontane. In sottofondo la storia dell’uomo, che si chiama Adam, viene raccontata da sua madre, Sonia: “È stato in prigione per più di vent’anni. Ha rapinato cinque banche e poi ha dato i soldi alla sua fidanzata perché potesse pagare le bollette. È un uomo generoso, ma ha sacrificato metà della sua vita per farlo. Va in giro in bici come se avesse dodici anni. So che è un brav’uomo, ma ci sono così tanti vuoti, tutto quel tempo prezioso che non tornerà mai più”.

Poi tocca ad Adam raccontarsi: “È una terapia, un isolamento, un luogo dove posso essere me stesso e divertirmi come un bambino per un attimo. Io e mia madre siamo nemici ora, un paio d’anni fa abbiamo litigato, le ho tirato delle bottiglie sull’auto e lei ha cercato di investirmi. Nei primi anni novanta rapinavo banche. Sono appena andato in pensione, dovrei avere 57 anni. Mi piace stare nel deserto, qui non si sentono le sirene, non ci sono bande, non ci sono sparatorie. Sono tornato qui nel 2011 perché questa è casa mia e perché distruggevo tutto ciò che toccavo. Mamma ha dovuto riprogrammarmi per farmi calmare. Sono il secondogenito e mio fratello maggiore è appena morto”.

Adam e Sonia vivono a Bombay Beach, una comunità sul lago Salton, nella parte interna della California. È uno di quei posti che possono esistere solo negli Stati Uniti, capaci di essere allo stesso tempo deprimenti ed entusiasmanti, ostili e accoglienti, poveri e sfarzosi. Ci si sono trasferiti nel 1974: quando il marito cercò di ucciderla, la donna prese i quattro figli, li mise sulla sua Volkswagen e li portò a Bombay Beach, dove costruì una casa.

Il percorso di questa famiglia è il condensato perfetto di un bellissimo documentario realizzato da Susanna della Sala, intitolato Last Stop before Chocolate Mountain. Raccontando delicatamente le vite di tante persone fuori dall’ordinario, la regista arriva a toccare le parti essenziali dell’esistenza umana: il bisogno di trovare una comunità di cui sentirsi parte, la capacità di rigenerarsi, la spinta vitale che permette di trasformare un luogo, una società.

La regista Susanna della Sala. (Ilaria Costanzo)

Della Sala è nata a Pavia nel 1987. Quando era adolescente la famiglia si trasferì nel New Jersey, vicino alla cittadina di Clinton. Lì frequentò la quinta elementare e la prima media. Il primo impatto fu traumatico, racconta: “La scuola non aveva strutture di supporto per gli studenti stranieri, perché non ne avevano mai avuti. Percepivo anche un forte razzismo – mi chiedevano spesso se mio padre fosse un mafioso – anche se nel New Jersey ci sono tantissimi italoamericani”. In previsione di un ritorno in Italia, la famiglia si trasferì a New York, dove Della Sala frequentò la seconda media nella scuola italiana Guglielmo Marconi.

Al di là delle difficoltà, i tre anni negli Stati Uniti le hanno lasciato due cose che poi l’avrebbero aiutata molto nel suo percorso artistico: la voglia di conoscere meglio quel paese e, soprattutto, l’attitudine a esplorare temi e linguaggi espressivi diversi. “Nella scuola statunitense spingono molto su questo punto. Ti danno la possibilità di esaltare le tue abilità, inclinazioni che magari nella scuola italiana possono essere viste come debolezze. Da noi se hai una propensione artistica ti dicono ‘di cosa camperai?’ oppure ‘rischi di diventare una nullafacente’. Invece lì è un motivo di vanto, come anche il talento nello sport”.

Tornata in Italia, Della Sala è stata reinserita in un contesto scolastico più rigido. Ha frequentato il liceo scientifico, che garantiva maggiori prospettive lavorative rispetto all’accademia d’arte o al liceo artistico, ma ha potuto riprendere il suo percorso artistico all’università, iscrivendosi al corso di design degli interni al Politecnico di Milano. Lì ha ritrovato quell’approccio multidisciplinare che aveva apprezzato nella scuola statunitense, e ha cominciato a combinare la passione per il disegno, che aveva avuto fin da piccola, con l’interesse crescente per il video. Si è laureata con una tesi su scenografie itineranti, presentata con un cortometraggio, e poi si è trasferita a Eindhoven, nei Paesi Bassi, dove ha lavorato per un po’ con lo scultore spagnolo Nacho Carbonell, facendo la saldatrice e contribuendo a realizzare i video di animazione con cui l’artista presentava le sue opere.

A quel punto Della Sala sapeva di voler lavorare nel cinema, ma come farsi strada in un mondo che è allo stesso tempo chiuso e affollato? Ha sperato che la carta del disegno potesse aprirle di nuovo le porte. Su consiglio di Anne Seibel, scenografa che ha lavorato spesso con Woody Allen, si è iscritta alla scuola di scenografia del Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Da lì, un po’ alla volta, è arrivata alla regia, che era la sintesi di tutti i mezzi artistici che aveva sperimentato fino a quel momento.

Nei suoi primi cortometraggi ci sono già gli elementi che poi saranno centrali nel documentario su Bombay Beach: l’interesse per gli outsider, per le persone che, per scelta o per necessità, vivono fuori dalla norma; e l’interpretazione della realtà attraverso le lenti di una visione onirica, legata al subconscio, a tratti surreale. “Il mio primo cortometraggio s’intitola Il dottore dei pesci, parla di un uomo che ha un ‘pescile’, cioè una sorta di canile per pesci. Un personaggio bizzarro e fuori da ogni logica, perché non credo esista nella realtà. L’uomo viene scoperto da alcuni presentatori tv americani, che lo deridono e lo inseriscono in un freak show. Ma lui in un monologo spiega perché fa questo mestiere e lascia tutti senza parole, muti come pesci. Il secondo l’ho girato nel deserto: c’è una macchina che produce esseri umani perfetti pronti per essere inseriti in società. Alcune creazioni però sono rotte o difettose, quindi vengono buttate nella terra degli scarti”.

Poi è arrivato Neolovismo, un lungometraggio di finzione realizzato insieme a un altro film-maker e nato come una sorta di esperimento: “Volevamo capire se con pochissime risorse si poteva girare un film con una certa estetica cinematografica. Era anche un modo per sfidare la grande macchina delle produzioni cinematografiche e per esercitare il mestiere. Un aspetto frustrante della regia è che, a differenza di quello che succede con altre forme artistiche, come la musica e la pittura, non hai la possibilità di esercitarti se non hai un budget”. Neolovismo, che parla di una coppia chiusa in una casa e dei problemi che si creano in una situazione del genere, è stato in qualche modo un film premonitore, visto che è arrivato poco prima della pandemia.

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Mentre realizzava questi lavori e si guadagnava da vivere lavorando come scenografa in produzioni cinematografiche, Della Sala pensava a Bombay Beach. Ne aveva sentito parlare per la prima volta nel 2012 dal regista italo-americano Tao Ruspoli, figlio di Dado Ruspoli, il nobile italiano a cui si sarebbe ispirato Federico Fellini per La dolce vita. Facendo ricerche si è sentita attirata da un posto che, per la sua storia e la sua estetica, sembrava molto vicino alle sue idee artistiche.

Bombay Beach sorge sul Salton sea, un lago che si formò accidentalmente tra il 1905 e il 1907, quando la rottura di un canale d’irrigazione del fiume Colorado inondò la pianura. Con il passare degli anni diventò un luogo di migrazione e nidificazione per centinaia di specie di uccelli. Negli anni cinquanta sulle sue rive nacque una comunità, chiamata Bombay Beach, che cominciò a prosperare come meta di villeggiatura, attirando persone da Los Angeles, San Diego e altre città della California. Quando Sonia arrivò con Adam e gli altri figli, nel 1974, la località era ancora nel suo momento di massimo splendore. Ma visto che il lago non aveva immissari naturali, a un certo punto l’acqua cominciò a evaporare, prima lentamente e poi più rapidamente. I livelli di salinità aumentarono. Gli agricoltori locali nel frattempo facevano confluire le loro acque reflue, inquinando il lago. I pesci cominciarono a morire in massa e scoppiò un’epidemia di botulismo aviario. Nel 2003 una parte dell’acqua fu trasferita verso le zone costiere, causando un ulteriore abbassamento del livello del lago. Quando nel 2017 lo stato ha smesso di rifornire completamente il lago di acqua, i tassi di evaporazione sono cresciuti, le sostanze inquinanti si sono diffuse nell’aria, creando una crisi ecologica e lasciando una forte puzza di pesce. I mezzi d’informazione hanno cominciato a descrivere Bombay Beach come un posto velenoso, spaventando i potenziali visitatori.

Alcune famiglie, quelle che non avevano altri posti dove andare, sono rimaste. Altri abitanti se ne sono andati di corsa, senza nemmeno svuotare le loro case, creando un surreale effetto Pompei. Bombay Beach è diventata un’attrazione post-apocalittica – le persone arrivavano per fotografare i pesci morti, le carcasse di macchine e moto abbandonate – o uno sfondo per servizi fotografici e video musicali. Ma poi hanno cominciato ad arrivare gli artisti, attirati da un posto dove gli schemi sociali e culturali erano saltati e dove si poteva costruire qualcosa di nuovo e diverso attraverso la sperimentazione. Hanno contribuito a rigenerare ciò che sembrava destinato all’estinzione. Alcuni arrivavano con i loro camper, altri occupavano le case abbandonate. Della Sala dice di aver avuto la fortuna di conoscere Bombay Beach nel momento in cui è cominciata questa trasformazione: “Entravi nelle case e vedevi che c’erano ancora le sigarette nei posacenere, negli armadi c’erano i vestiti dei bambini e i costumi da bagno. Quelle fuggite erano persone ricche, probabilmente si potevano permettere di abbandonare tutto”.

Dal 2016 si tiene la Bombay Beach Biennale, che comprende installazioni, conferenze, feste e performance. Molti artisti si sono trasferiti e hanno comprato proprietà, messo in piedi un teatro dell’opera, un museo, un cinema drive-in e altro. Questa rinascita ha fatto crescere il prezzo dei terreni e ora anche lì, come in altre zone del paese, c’è chi teme gli effetti della gentrificazione. Della Sala non vede questo pericolo: “Ciò che detta legge a Bombay Beach è il deserto. È difficile che apra uno Starbucks nel deserto”. Quante persone ci vivono? “Ogni anno arrivano nuove persone ma altre più anziane muoiono. Al momento gli abitanti sono tra i 150 e i duecento”.

Il documentario colpisce per la naturalezza del racconto. Della Sala registra il flusso della vita di Bombay Beach senza interferire, lasciando che siano i luoghi e i personaggi a decidere l’andamento della storia. Spiega così la sua scelta: “Volevo raccontare la parte più umana, più emotiva, quel genere di cose che accomunano tutte le persone. Spesso quell’umanità più autentica la trovi in contesti borderline, perché nell’assenza di tutto hai la libertà di essere chi sei. E non volevo che il mio sguardo condizionasse in nessun modo quella libertà. Volevo essere in ascolto, come un gigantesco orecchio. Non ho fatto domande, non ho indagato su quello che le persone mi raccontavano, non gli ho chiesto di rapportarsi in un certo modo con la telecamera. Non volevo comunicare la mia visione di quel luogo ma la visione percepita dai personaggi”.

Questo approccio le ha permesso di guadagnarsi la fiducia di persone che, come nel caso di Adam e di sua madre, avrebbero potuto avere qualche riluttanza a raccontare la propria storia. Costruire quel rapporto non è stato facile. Della Sala ha girato il film in nove mesi tra il 2018, il 2019 e il 2020, vivendo a Bombay Beach per lunghi periodi (in alcuni momenti insieme al direttore della fotografia Andrea José Di Pasquale). “È stato difficile. In molti casi si tratta di persone spaventate. Mi dicevano ‘non vogliamo la pornografia della povertà’. Di queste comunità si raccontano spesso il peggio e gli aspetti più inquietanti”.

Viaggio nella memoria tra Stati Uniti e Italia
Valerio Ciriaci e Isaak Liptzin hanno realizzato film e documentari che esplorano il rapporto tra il passato e l’attualità. Nella maggior parte dei casi le vicende raccontate si sviluppano tra Italia e Stati Uniti.

Bombay Beach può sembrare un posto troppo estremo e lontano per parlare a noi europei. In realtà la sua parabola riguarda tutti, in un periodo in cui le catastrofi ambientali si moltiplicano, con conseguenze sociali ed economiche devastanti, e si pone il problema di come (e se) salvare e riconvertire le aree colpite. “Ciò che è successo a quella comunità è un esempio di come gli esseri umani distruggono, ma è anche una dimostrazione della loro capacità di adattarsi e dare vita a una trasformazione”, dice Della Sala. In Last Stop before Chocolate Mountain la rigenerazione del luogo e quella umana, interiore, vanno in parallelo. E trovano una sintesi nella storia di Adam, l’uomo che scorrazza in bicicletta. Prima che arrivassero gli artisti lui passava ore al giorno a disegnare da solo. Frequentando i nuovi arrivati capisce che può condividere quella passione con altre persone, e torna a far parte di una comunità.

Per Della Sala quella spinta naturale alla trasformazione, a cambiare se stessi e il contesto circostante, è un elemento che distingue gli americani da noi. “C’è l’attitudine ad agire, a provare, a fare. Noi tendiamo ad avere paura e a vivere nella nostalgia del passato, nell’ammirazione delle rovine. Una riverenza che è anche un peso, perché limita la possibilità di fare. In America hai possibilità di reinventare. E questo è interessante, anche proprio come pensiero. Se puoi toccare le rovine, puoi ricostruirle, smetti di avere paura. In Italia quando proponi un’idea nuova, ci saranno sempre più persone che ti elencheranno i motivi per cui quella cosa non la devi fare. E lì invece ti diranno mille volte perché la devi fare”.

Tra le cose migliori del documentario c’è la colonna sonora, usata soprattutto per valorizzare gli aspetti immateriali, anche magici, del racconto. Spiega la regista: “Il suono mi ha permesso di far emergere quegli elementi che sono legati all’emotività dei personaggi, alla loro percezione di quel luogo. Ci sono suoni presi dal reale ma distorti e modificati, ci sono suoni presi dagli archivi, nei momenti in cui i personaggi ricordano il passato. E poi c’è una parte più onirica che è legata al mondo marino. A Bombay Beach si ha la sensazione di essere su un’isola, perché il lago è enorme e intorno non c’è niente. Così abbiamo giocato a ricostruire i suoni del mondo marino – barche, lamiere, acqua, onde – anche quando non si vede l’acqua, per restituire una visione legata al mondo onirico e al subconscio. Le musiche le ha realizzate il compositore Vittorio de Vecchi. Partendo dall’idea del luogo, ha registrato con strumenti scordati – un pianoforte vecchio con i tasti rotti, una chitarra senza una corda – come se fossero strumenti di Bombay Beach lasciati a deteriorarsi all’aria aperta”. Nella colonna sonora ci sono anche canzoni di artisti che partecipano alla biennale di Bombay Beach. Alex Ebert, fondatore del gruppo Edward Sharpe and the Magnetic Zeros, ha composto il pezzo di chiusura del film. Ci sono i The Acid, un gruppo di musica elettronica inglese. C’è la cantautrice Vera Sola, che suona dal vivo nel film (ed è la figlia dell’attore Dan Aykroyd).

Il documentario, uscito nel 2022, ha avuto un’ottima accoglienza. Prima a Locarno, poi al Festival dei Popoli, dove è stato il film più premiato nel concorso italiano. Nel 2023 è stato nominato ai David di Donatello tra i dieci migliori documentari. E lo stesso anno, ad aprile, il film è stato proiettato a Bombay Beach, inaugurando il Bombay Beach film festival, di cui Susanna della Sala va molto orgogliosa.

Dove vedere i lavori di Susanna della Sala:

Last Stop before Chocolate Mountain inoltre tornerà al cinema con la rassegna Rovine d’America:

Il 23 febbraio a Genova, Cinema Nickelodeon ore 21
L’11 marzo a Bologna, Cinema Arlecchino ore 21
Il 14 marzo a Perugia, Cinema Postmodernissimo ore 21
(altre città in arrivo)

Per finire, ho chiesto alla regista consigli su libri, film e posti da vedere negli Stati Uniti. Ecco la sua lista.

Libri
Greetings from Salton sea, di Kim Stringfellow
Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, di Giorgio Vasta e Ramak Fazel
Leggende del deserto americano, di Alex Shoumatoff
Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, di Francesco Orlando
Arte e anarchia, di Edgar Wing
Vite di scarto, di Zygmunt Bauman
Eremiti del deserto, di Ermanno Cavazzoni

Film
Plagues & pleasures on the Salton sea, di Chris Metzler e Jeff Springer, narrato da John Waters
Bombay Beach, di Alma Har’el
Below the sea level, di Gianfranco Rosi
Vernon, Florida, di Errol Morris
Encounters at the end of the world, di Werner Herzog
Louisiana, di Roberto Minervini

Podcast
Mistery train, di Alessandro Portelli

Posti da visitare
East Jesus a Niland, California
Slab City a Calipatria, California
Anza Borrego Desert Park Sculptures a Borrego Springs, California
Noah Purifoy Desert Art Museum a Joshua Tree, California
Galleta Meadows Estate a Borrego Springs, California
Marfa, Texas

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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