30 luglio 2020 14:57

Da quasi dieci anni Carmen Barrera va a pesca nelle acque che circondano le isole Canarie. Ma solo negli ultimi mesi ha notato i grandi quantitativi di guanti di plastica e altri dispositivi di protezione individuale (i cosiddetti dpi) che galleggiano nell’acqua o rimangono impigliati nelle sue reti.

“Mi preoccupa molto”, racconta Barrera al Financial Times dalla sua casa di Tenerife. “Dal primo momento in cui le persone hanno cominciato a indossare guanti e maschere, abbiamo cominciato a vederli anche in mare. Il problema è il modo in cui le persone usano e smaltiscono i loro rifiuti”.

La produzione di dpi si è impennata negli ultimi mesi, con i fornitori di servizi sanitari che, complessivamente, hanno comprato milioni di dispositivi per evitare la diffusione del coronavirus tra i loro lavoratori, e i cittadini che hanno cominciato a indossare maschere e altri tipi di protezione per meglio proteggersi.

Ma mentre l’emergenza sanitaria globale è stata al cuore delle cronache, sono in molti a pensare che la battaglia per ridurre i rifiuti in plastica sia stata trascurata sia dai governi che dai consumatori più consapevoli.

Il flusso di plastica negli oceani sarà quasi triplicato nel 2040

“I dpi sono la punta dell’iceberg dei rifiuti tossici in plastica che ignoriamo da anni”, spiega Sian Sutherland, cofondatore di A plastic planet (Un pianeta di plastica), un’associazione senza fini di lucro che cerca di educare le persone a un minore uso di questo materiale.

Uno studio pubblicato il 23 luglio da SystemIq, un’azienda che si occupa di sostenibilità, prevede che il flusso di plastica negli oceani sarà quasi triplicato nel 2040, raggiungendo i 29 milioni di tonnellate all’anno, se non verranno prese misure molto più stringenti da governi e aziende. “Stiamo sprofondando sempre più in un buco di plastica, senza sapere cosa ci riservi il futuro”, dice Martin Stuchtey, uno degli autori dello studio.

Buona parte dei dpi usati nel mondo sono progettati per essere monouso e contengono una gamma di diverse plastiche, come polipropilene e polietilene nelle mascherine e nei camici, o nitrile, vinile e lattice nei guanti.

Eppure solo alcuni decenni fa quasi tutti i dpi erano riutilizzabili, sostiene Jodi Sherman, professore di anestesiologia ed epidemiologia all’università di Yale. Le cose sono cambiate negli anni ottanta, quando l’industria dei dispositivi medici ha intuito il potenziale dei prodotti monouso usa e getta, spiega.

“Più cose vengono gettate, più devono essere comprate. Si tratta di un modello d’affari che favorisce l’esistenza di oggetti non durevoli”, dice Sherman.

Oggi una netta maggioranza dei dispositivi di protezione è usa e getta, è prodotta in zone molto lontane da quelle di utilizzo e viene consegnata su richiesta, per limitare le esigenze di stoccaggio e per garantire che le scorte non scadano.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha previsto che le scorte di dpi avrebbero dovuto aumentare del 40 per cento al mese per soddisfare la domanda durante la pandemia, con una stima di 89 milioni di mascherine, 76 milioni di paia di guanti e 1,6 milioni di occhialini protettivi. La società di consulenze Frost & Sullivan ha calcolato che gli Stati Uniti rischiano di generare un intero anni di rifiuti medici in appena due mesi.

Ma solo adesso i governi stanno cominciando a riflettere a dove andranno a finire questi milioni di prodotti.

Smaltimenti pericolosi
Il ministero della salute e dell’assistenza sociale del Regno Unito si è detto incapace di prevedere in che modo verranno smaltiti i due miliardi di dispositivi di protezione che si è procurato, ma ha aggiunto che stava esaminando alternative efficaci al modello usa e getta.

Buona parte dei rifiuti europei vengono inviati in paesi come Indonesia e Turchia, in quello che Sutherland di A plastic planet definisce “il peggio dell’imperialismo dei rifiuti”.

In molti paesi occidentali rifiuti medici pericolosi spesso vengono inceneriti sul posto del loro utilizzo, per evitare la diffusone di malattie infettive: un processo che può portare all’emissione di sostanze inquinanti tossiche. “A parte bruciarli, non c’è molto altro che possiamo fare. Sono progettati per diventare rifiuti”, dice Sander Defruyt, capo della divisione plastica della fondazione Ellen MacArthur, un’associazione senza fini di lucro fondata dalla velista britannica.

Ma sei cittadini seguono le linee guida governative, quindi indossano dispositivi di protezione monouso, i dpi finiscono anche nel flusso di rifiuti ordinari o vengono dispersi a cielo aperto.

Secondo un rapporto del Wwf, se anche solo l’1 per cento delle maschere venisse smaltito in maniera scorretta, ogni mese circa dieci milioni di esse finirebbero in natura, inquinando fiumi e oceani.

A peggiorare ulteriormente le cose, il confinamento globale legato al covid-19 ha creato disagi ai sistemi di gestione dei rifiuti di tutto il mondo, portando a una drastica riduzione del prezzo della plastica.

Quest’anno, anche prima che il prezzo del petrolio crollasse, i prezzi delle plastiche più comuni erano ai minimi da molti anni a questa parte, perlopiù a causa dell’eccesso di domanda. I prezzi del polietilene ad alta densità sono quasi dimezzati rispetto all’inizio del 2018, secondo S&P Global Platts, una società di consulenza e informazioni sulle materie prime, mentre quelli del polipropilene sono scesi di oltre un terzo. E da metà 2019 il polietilene tereftalato riciclato (Pet) è più costoso del suo omologo originario.

Nel frattempo le politiche per ridurre l’uso della plastica sono state messe nel dimenticatoio. Vari governi, tra cui quello britannico e quello portoghese, hanno rimandato la messa al bando della plastica usa e getta per preoccupazioni legate alla trasmissione del covid-19.

Secondo gli esperti, trovare una soluzione per il boom della plastica durante e dopo la pandemia richiederà uno sforzo congiunto tra produttori e politici, affinché ripensino e regolamentino l’intero ciclo di vita dei prodotti.

Ogni settimana A plastic planet ha prodotto un milione di mascherine protettive senza plastica, fatte a partire da componenti riciclabili e biodegradabili, distribuendoli in tutto il mondo, anche in luoghi come saloni da parrucchiere e ristoranti.

Un’altra possibilità è quella di riutilizzare i dpi. Secondo il professor Sherman di Yale non ci sono prove che, per la maggior parte delle strumentazioni mediche, i pazienti siano più al sicuro utilizzando oggetti usa e getta piuttosto che quelli riutilizzabili.

Gli ambientalisti sostengono che, poiché negli ultimi mesi l’azione di governi e aziende per ridurre i rifiuti da dpi è stata limitata, cercare dei materiali riciclabili o riutilizzabili è la migliore opzione a disposizione dei consumatori che desiderino ridurre la loro produzione di plastica.

Barrera, la pescatrice, ritene che serva la collaborazione di tutti, se il mondo vuole davvero cambiare la tendenza generale in materia di rifiuti plastici.

“Popolazioni e governi sono gli unici che possano fermare tutto questo”, dice. “Dobbiamo scegliere prodotti che siano più ecologici e sostenibili, proibendo l’uso delle plastiche monouso”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal Financial Times.

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