15 aprile 2022 12:00

Un bambino si succhia il pollice abbracciato alla madre. I passanti notano la scena, ma proseguono con passo affrettato. Madre e figlio dormono sul marciapiede dell’avenida Paulista, davanti a una banca. Accanto a loro c’è un cartello con la scritta: “Per favore aiutateci a compare un giocattolo”. Dall’altro lato della strada un uomo, due donne e cinque bambini dividono pochi metri quadrati davanti alla chiesa Saõ Luís Gonzaga. Chiedono denaro e da mangiare. Parlo con Fernanda, 32 anni, una di queste madri di strada. Abitava a Guarulhos, nel municipio della Grande São Paolo, e lavorava come collaboratrice domestica. “Con la pandemia il lavoro prima è diminuito, poi è scomparso. Abitavo in affitto, ma ora non posso più pagare. Sono in strada da tre giorni. Forse andrò a vivere da una nipote”.

Nel 2019, negli ostelli o sotto i viadotti di São Paolo vivevano 24.300 persone. Alla fine del 2021 erano diventate 31.800, secondo i dati del comune della città. Nelle altre grandi città del Brasile non esistono studi aggiornati, ma durante la pandemia ho potuto documentare un aumento considerevole di persone che vivono per strada, tra cartelli ai semafori e lunghe code per la distribuzione di cibo.

La pandemia e la crisi politico-economica del paese hanno spinto alla vita di strada anche chi in precedenza aveva un tetto, per quanto precario. “Lo smantellamento sistematico dei centri di assistenza psicologica e sociale gestiti dal servizio sanitario pubblico (Sus) ha colpito molto le persone che soffrono di disturbi mentali”, spiega Leonardo Rodrigues, dell’ong Casa da Sopa, a Fortaleza. Casa da Sopa, con cui collaboro dal 2011, è conosciuta in tutto il Brasile per il lavoro che svolge con le persone che vivono in strada.

Donne fuori delle statistiche
“È evidente che questa crescita non è dovuta solo alla pandemia. Diverse misure hanno colpito i più vulnerabili, esclusi anche dagli aiuti d’emergenza. Molte persone non hanno accesso a internet, non hanno un indirizzo email e dunque non sono state inserite nel sistema informatico del governo. L’esclusione tecnologica ha incrementato la disuguaglianza”, spiega Gilcilene Pereira Silva, coordinatrice della Pastoral do povo da rua di Salvador. “Quello che davvero è cambiato negli ultimi anni è il profilo di queste persone. Prima vivevano in strada soprattutto gli uomini neri e senza legami familiari. Nel 2021 invece troviamo intere famiglie senza tetto”.

Qui a Salvador i poveri hanno aiutato gli altri poveri

Il problema è che le donne come Fernanda, la madre che dorme nell’avenida Paulista, non rientrano nelle statistiche ufficiali. Leonardo Rodrigues mi spiega che esistono almeno tre profili di esclusi. I cosiddetti “provvisori”, abitanti della periferia che migrano verso il centro della città, “passano due o tre giorni in strada per ricevere donazioni e da mangiare, poi tornano a casa”, spiega. Poi ci sono quelli che vivono in strada nelle periferie e non vengono mai raggiunti da chi dovrebbe censirli. Infine ci sono le persone che dormono in affitto in cubicoli, ma che si arrangiano facendo i parcheggiatori, vendendo alimenti o svolgendo lavori occasionali. Con i lockdown e le strade vuote tutte queste attività si sono interrotte, lasciando senza reddito da un giorno all’altro tante persone che lavoravano alla giornata senza tutele.

“Queste persone vivono al limite della vulnerabilità. Qualsiasi alterazione economica le costringe a vivere per strada. Non rientrano nelle statistiche ma ne fanno sicuramente parte”.

L’attivista e produttore culturale Marcelo Teles, compagno di progetti e di lunghe camminate a Salvador, aggiunge un profilo: le persone “che sono state appena sfrattate. Portano con sé la tv, il divano e altri effetti personali. Sono stati sfrattati nonostante il divieto di sfratto approvato durante la pandemia”. Shirley Bonfim, 44 anni, e Marcio Santiago, 34 anni, fanno parte di questa categoria. Sposati da sette anni, hanno perso il lavoro nel 2021 e oggi vivono in una piazza di Salvador con gli oggetti provenienti dalla loro vecchia casa (padelle, vestiti, un ventilatore).

Shirley, che è incinta, lavorava come cuoca in un ristorante sul lungomare. Fino alla terza ondata di covid-19 “vivevamo in casa, avevamo una routine, un frigorifero, una connessione a internet. Il ristorante in cui lavoravo ha chiuso tre volte. Alla fine non ha più riaperto. Siamo stati licenziati tutti. Non sono felice in strada. La vita con mio marito è l’unica cosa che mi salva”.

La nostra conversazione notturna si svolge nel Comercio, un quartiere centrale di Salvador che durante il giorno brulica di vita e che di notte si svuota. “Da qui passano le ong, le associazioni e le persone della chiesa per offrire un piatto caldo. Chi vive in strada dipende dalla carità degli altri. Quando sono arrivata qui, a giugno, mangiavamo quello che avanzava dai ristoranti, ma ora ho paura. Un ragazzo che mangiava avanzi è morto. Un altro si è avvelenato. Preferisco i piatti offerti dalla chiesa”, dice Shirley.

Marcelo Teles fa parte del collettivo Resistência preta (resistenza nera), che ha consegnato migliaia di cestini di prodotti alimentari nell’ambito di Você tem fome de quê?, una campagna di solidarietà. “Volendo vedere il lato positivo, direi che c’è stato un grande ritorno dei sentimenti umani. Molte persone hanno contribuito con donazioni, specialmente quelle economicamente svantaggiate. Qui a Salvador i poveri hanno aiutato gli altri poveri”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale brasiliano CartaCapital.
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