10 ottobre 2016 14:38

“Ci sono decenni in cui non succede nulla e ci sono settimane in cui sembrano passati decenni”, disse Lenin descrivendo la rivoluzione bolscevica. L’Etiopia all’inizio di agosto del 2016 ha vissuto una settimana del genere, una di quelle che nel paese passerà alla storia: un movimento dal basso ha ottenuto in pochi giorni quello che élite organizzate non sono riuscite a realizzare in vent’anni.

All’inizio di ottobre, centinaia di migliaia di persone, un numero senza precedenti, sono scese in strada per manifestare contro decenni di abusi, discriminazioni ed emarginazione. È stato il culmine di un’ondata di proteste cominciate nel novembre del 2015 in Amhara e Oromia, due delle regioni più popolate del paese. Il governo aveva subito risposto accusando i manifestanti di essere agenti di forze straniere, e schierando l’esercito. Da novembre si stima che siano morte più di cinquecento persone e ne siano state arrestate molte altre.

Ma le proteste e gli scioperi sono continuati e stanno mobilitando una nuova generazione. Al centro di questo attivismo c’è la crescente solidarietà tra i gruppi etnici oromo e amhara, che insieme costituiscono circa i due terzi della popolazione etiope. Questa solidarietà ha allarmato il governo, ma fino a che punto può arrivare l’azione collettiva basata su rivendicazioni condivise piuttosto che su un insieme coerente di ideali e orizzonti?

L’Etiopia è un insieme di diversi gruppi etnici e culturali. Fino agli anni settanta la “Grande Etiopia” perseguì una politica di uniformazione etnica, in cui l’identità amhara diventò dominante. Gli oromo, il gruppo etnico più numeroso, furono emarginati e non gli fu riconosciuta un’influenza commisurata al loro contributo demografico ed economico. Questa asimmetria alimentò l’antagonismo tra i due gruppi.

La risposta violenta del governo alle proteste ha sottolineato che chi è oppresso in Etiopia condivide la stessa vulnerabilità

Salito al potere nel 1991, l’attuale governo, guidato dal Fronte di liberazione del Tigrè (Tplf), ha usato questa rivalità come arma politica. Ha insistito sulla presunta eterna rivalità tra gli amhara e gli oromo per sostenere che rappresentavano una minaccia per lo stato e per la stabilità della regione. Gli oromo sono stati dipinti come secessionisti che volevano attentare all’unità e alla sovranità del paese, mentre gli amhara come fanatici e violenti, favorevoli al ritorno di un impero di stampo medioevale. In questa cornice propagandistica il partito al potere, dominato dall’élite del gruppo etnico tigrino, è diventato un faro di stabilità e di unità.

Per 25 anni il Fronte di liberazione del Tigrè si è affidato a questi miti per piantare i semi della divisione. Ma ora questa strategia comincia a essere palese. La risposta violenta del governo alle proteste degli amhara e degli oromo ha sottolineato che chi è oppresso in Etiopia condivide la stessa vulnerabilità. E questa esperienza condivisa ha generato emozioni condivise, avvicinando le due comunità.

Con l’intensificarsi della violenza dello stato, gli ex nemici hanno messo da parte le rivalità per darsi man forte. Un’ondata di solidarietà sta evidenziando le traballanti fondamenta del regime. “Siamo tutti oromo”, “gli amhara siamo noi, gli oromo siamo noi”, “il sangue che scorre in Oromia è anche il nostro sangue” sono alcune frasi scandite alle manifestazioni.

Queste parole minacciano di far crollare i miti che tengono insieme l’impalcatura ideologica del sistema. Vanno al di là delle parole usate dal governo per reprimere e dividere la popolazione, e creano le condizioni per una politica partecipata e per nuove forme di alleanza. Gli oromo e gli amhara hanno anche organizzato manifestazioni insieme, sventolando le rispettive bandiere. Per la propaganda del governo non c’è azione collettiva più destabilizzante che vedere insieme questi due simboli, entrati nell’immaginario del paese come antitetici e inconciliabili. Di fronte a questo un regime che sembrava invincibile ha cominciato a tremare.

Fronte comune
Ma, per quanto politicamente significativa, l’attuale ondata di solidarietà è basata su un comune malcontento più che su una prospettiva condivisa. Negli ultimi vent’anni le élite oromo e amhara non sono state in grado di costruire una fiducia reciproca per affrontare le questioni importanti. Mentre gli amhara insistono sull’unità nazionale come condizione per collaborare, gli oromo sostengono che non ci siano valori democratici che possano unire i due gruppi.

Questa mancanza di consenso potrebbe sembrare una debolezza, ma non bisogna per forza risolvere questi disaccordi perché i due gruppi s’incontrino e traccino un percorso per il futuro. Il compito di venire a patti con un passato contestato richiede un dibattito solido e inclusivo, che può svilupparsi solo all’interno di uno stato democratico, capace di riconciliare i conflitti sociali sulla base di regole condivise.

Per creare questa piattaforma democratica, gli etiopi devono liberarsi dall’oppressione dell’élite tigrina. Né gli oromo né gli amhara devono rinunciare alle loro identità per raggiungere questo obiettivo. La solidarietà non riguarda l’unità, ma la costruzione della comprensione, della tolleranza, del rispetto. Questa solidarietà emergente, seppur precaria, rappresenta la più grande minaccia alla politica del divide et impera portata avanti dal regime.

(Traduzione di Sonia Grieco)

Questo articolo è stato pubblicato il 7 ottobre 2016 a pagina 28 di Internazionale, con il titolo “Un’inedita alleanza in Etiopia”. Compra questo numero| Abbonati

La versione originale è uscita il 27 settembre 2016 su African Arguments.

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