13 febbraio 2024 15:24

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Se solo ne fossi in grado gli potrei fare un ritratto. Biondo, occhi chiari e uno zaino Invicta sulle spalle. Sulla trentina. Non particolarmente alto né magro. Chissà se l’immagine che ho in testa gli somiglia sul serio.

Avevo incrociato il suo sguardo, insieme a quello di decine di altre persone, all’interno di un vagone della metropolitana affollato. Erano da poco passate le 22, avevo finito di seguire un workshop di giornalismo e dovevo raggiungere casa di un amico che mi ospitava in una città in cui non vivevo, in un quartiere dove non ero mai stata. E dove a distanza di più di dieci anni non sono più tornata.

Sono uscita dalla metropolitana e ho preso un sottopassaggio. La direzione era obbligata, credo, o comunque non mi ero preoccupata di trovare un’altra strada. Era poco illuminata, alla mia sinistra le luci dei fari delle auto, alla mia destra erbacce. Con una mano tenevo il telefono all’orecchio, con l’altra facevo oscillare un ombrello chiuso, reggendolo dal cordino.

Sentivo dei passi dietro di me, e ogni tanto avevo la percezione che si stessero avvicinando. Normale, pensavo. Troppo vicini, non volevo pensare. Una voce in qualche area remota del mio cervello mi diceva che finché parlavo al telefono sarei stata al sicuro. E così, anche quella volta, l’avrei scampata.

E invece abbiamo riattaccato, e in pochi secondi quei passi troppo vicini sono diventati una mano che mi afferrava dalla cintura dei pantaloni. Il tizio biondo con lo zaino mi stava spingendo verso il lato buio della strada. Ho urlato, tantissimo, e l’ho colpito con l’ombrello. Poi ho corso, non saprei dire quanto né con quali gambe.

Per un po’ di anni non ho avuto un buon rapporto con i sottopassaggi e ho preferito fare chilometri di strade alternative invece di passarci. La cosa mi faceva imbestialire.

La cultura dello stupro

A come ho vissuto quell’esperienza ripenso spesso. Per diverso tempo non l’ho raccontata praticamente a nessuno. Mi dicevo che era per non creare preoccupazione inutile, tutto sommato era andata bene. In realtà avevo il dubbio di aver sbagliato qualcosa. In fondo non avevo cercato una strada diversa rispetto a quella poco illuminata. Il corso era finito nel tardo pomeriggio, ma mi ero trattenuta in giro fino a sera. E non conoscevo il posto dove stavo andando. Avevo forse ricambiato lo sguardo in metropolitana?

Mi sono limitata a evitare i sottopassaggi, senza riuscire a dare una forma e un nome al fastidio che mi provocava dover cambiare strada. La sensazione di non aver fatto abbastanza non mi ha abbandonata per anni, mi è rimasta addosso come un prurito che ogni tanto ritornava.

Ero cresciuta con la convinzione che la violenza maschile fosse un dato inevitabile. Il mio compito come donna era fare di tutto per evitarla. Nel caso non ci fossi riuscita – e nonostante l’inevitabilità – la colpa sarebbe stata mia. Qualche anno più tardi avrei imparato che questa dissonanza cognitiva socialmente accettata si chiama “cultura dello stupro”.

Nel libro Transforming a rape culture è definita come “un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne”. Una cultura dello stupro “condona come ‘normale’ il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale è ‘un fatto della vita’, inevitabile come la morte o le tasse”.

Questa cultura è sostenuta da diverse cose, come ha scritto Giulia Siviero: “Le battute sessiste, il dare la colpa alla vittima, l’oggettivazione sessuale, l’usare la mancanza di coscienza come attenuante e non come aggravante, o la cosiddetta goliardia: non vuol dire che chiunque faccia battute sessiste automaticamente stupri le donne; vuol dire che chiunque faccia delle battute sessiste, o ne rida, o rimanga in silenzio, alimenta la cultura dello stupro”.

Fin da piccole ci insegnano che ci dobbiamo proteggere. Dal lupo, dal mostro. “Da un malintenzionato”, era l’espressione più usata in famiglia. Tra i ricordi della mia adolescenza ci sono certi sabato pomeriggio passati a vestirci con le mie amiche prima di uscire. Con i miei genitori c’era un tacito accordo: potevo indossare quello che più mi piaceva, ma era meglio se non fossi stata “troppo nuda”, se il piano era andare in giro in centro il sabato notte. La gonna corta e la maglietta scollata andavano bene per le feste in casa o per delle serate tranquille. Se si usciva era meglio non mettersi nelle condizioni di non aver fatto abbastanza.

Queste raccomandazioni mi facevano sentire a disagio. Eppure, le percepivo come buon senso, e così anche le mie coetanee. Non ne parlavamo mai, non ce lo dicevamo mai, ma lo sapevamo che dovevamo proteggerci, limitarci, mettere in campo una sorta di valutazione del rischio. E così abbiamo fatto, e continuiamo a fare.

Camminiamo con le chiavi strette in mano già a due isolati di distanza dal portone di casa, parliamo a voce alta al telefono o fingiamo di farlo, ci guardiamo le spalle, teniamo la musica bassa o la ascoltiamo solo da una cuffietta, condividiamo la posizione con persone di fiducia, scegliamo la via più illuminata anche se più lunga, cambiamo marciapiede se incrociamo qualcuno, proviamo sollievo se si tratta di un’altra ragazza.

In questo patto silenzioso “scrivimi quando arrivi a casa” è stata una forma di cura che ho sperimentato fin da ragazza. Non riesco a fare una stima di quante volte negli anni ho detto, scritto, letto, sentito questa frase, salutando qualcuna a tarda notte. Erano sempre donne, uniche in grado di capire al volo e senza bisogno di spiegazioni il sottotesto di quelle parole: sentirsi delle potenziali prede, scamparla anche stavolta.

Quello che con le mie amiche adolescenti non ci siamo mai confidate, perché non credevamo fosse il caso, è che la sensazione di sentirci prede ci faceva schifo. Non sapevamo cosa fosse detto in proposito ai maschi, ma avevamo il dubbio che “non stuprare” non fosse tra le raccomandazioni. Non era scritto, pubblicizzato, citato da nessuna parte che ci dovessero lasciare stare.

Per questo “scrivimi quando arrivi a casa” mi provoca ancora sensazioni ambivalenti: atto di preoccupazione e attenzione verso l’altra, ma anche certificazione del dispositivo della paura che abita molti dei nostri spostamenti. Non si tratta di sapere se sia successo un incidente, un inciampo qualsiasi, se si sia fermata l’auto. “Scrivimi quando arrivi a casa” è il pensiero spaventoso non detto, quello che fa mormorare “ecco” quando poi a qualcuna succede.

Quando nel 2021 Sarah Everard è stata stuprata e uccisa da un poliziotto a Londra, nel Regno Unito, stava tornando a casa dopo una cena da amici, erano le 21.30. Everard aveva 33 anni, era vestita senza lasciar scoperti lembi di pelle, aveva scelto la strada più lunga perché più illuminata. Aveva parlato al telefono con il suo ragazzo poco prima di essere aggredita. Era tutto giusto, eppure qualcuno ha avuto da ridire.

Dopo la sua morte, la deputata britannica Jenny Jones ha provocatoriamente proposto un coprifuoco dalle 18 per gli uomini, così le donne sarebbero state più al sicuro. È successo un finimondo, da parte di donne e uomini. In quei giorni Arwa Mahdawi ha scritto che in effetti è come se le donne dovessero già rispettare un coprifuoco immaginario: “Chi insorge all’idea di un coprifuoco maschile forse dovrebbe chiedersi, con un po’ di spirito critico, perché non ci si arrabbia allo stesso modo quando alle donne viene detto di adattare il loro comportamento in risposta alla violenza maschile”.

Uno spazio ristretto

Fin dall’adolescenza, spiegava qualche tempo fa la scrittrice Rachel Hewitt, lo spazio pubblico delle ragazze è decisamente più ristretto rispetto a quello dei ragazzi. Se hai quattordici anni e sei donna, la mappa dei tuoi movimenti quotidiani è un terzo rispetto a quella dei coetanei maschi.

Un uomo gode di una libertà piena di vivere la città e lo spazio urbano, senza limiti di orario o necessità di grande programmazione. Da un certo punto in poi, invece, la capacità di movimento femminile è legata a doppio filo con il verbo “evitare”: evitare una certa strada, evitare di incrociare uno sguardo, evitare di andare in un certo posto a una certa ora con i mezzi pubblici, evitare tratti a piedi. Evitare i sottopassaggi, anche.

Nei miei giri sui siti immobiliari mentre cercavo casa, tra i parametri che muovevano la mia ricerca c’era la necessità di trovare un posto in cui poter tornare tranquillamente da sola. Mi sono resa conto che nella mia testa avevo composto una dettagliata mappa del quartiere, suddivisa in base alla percezione di un potenziale pericolo. Quella via no, quella zona no, quel palazzo meglio di no. Evitare e, in fin dei conti, rinunciare.

Alla base di questo continuo lavoro di valutazione della sicurezza c’è la paura. Spesso catalogata come sentimento legato a una qualche fragilità di genere, la paura femminile è invece un dispositivo non solo saldo, accettato, ma anche utile a uno scopo. La paura, sostiene la professoressa Leslie Kern nel libro Feminist city, limita la vita delle donne e le mantiene “dipendenti dagli uomini come protettori”, relegandole allo spazio privato della casa. Secondo la ricercatrice Federica Castelli le donne vivono una sorta di “autoespulsione” da uno spazio pubblico disegnato a immagine e somiglianza maschile, attraversandolo un po’ come ospiti.

La società patriarcale si regge sulla paura delle donne. Ed è un sentimento tutt’altro che irrazionale. Le ragazze sono continuamente messe in guardia non solo dai buoni consigli di familiari e conoscenti, ma anche dai mezzi d’informazione. È un ritornello a voci unificate che ripete: sei libera di andare serena dove vuoi e quando vuoi, ma poi non lamentarti se ti succede qualcosa, te l’avevamo detto.

Uno dei cori portati in piazza dal movimento femminista dice: “La notte ci piace, vogliamo uscire in pace”. Secondo l’Istat solo il 51 per cento delle donne si sente sicura di uscire la sera da sola nella zona in cui vive. Dunque quasi una su due proprio “in pace” non esce.

Il coro continua così: “Ci piace pure il giorno, levatevi di torno”. Ogni tanto sui social network qualcuna fa un esperimento e chiede alle donne e ragazze che la seguono: “Cosa faresti se gli uomini non esistessero per 24 ore?”. Le risposte più gettonate sono sempre le stesse: passeggiare da sole di notte, indossare qualsiasi cosa, ballare e ubriacarsi senza preoccupazione, dormire all’aria aperta.

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