01 agosto 2022 09:57

Il primo giorno di guerra ho provato solo orrore, incredulità e indignazione. Le parole erano finite. Era come se un razzo avesse colpito la mia lingua e avesse frantumato ogni singolo vocabolo. Ci avevano prospettato uno scenario terribile, ma ciò che è accaduto il 24 febbraio, quando la Russia ha invaso l’Ucraina, è stato peggio. Poi finalmente ho aperto la bocca per parlare, e ho imprecato. Ben presto, preghiere silenziose hanno preso il posto delle imprecazioni.

Dubito che a Chișinău, la capitale della Moldova, i più ferventi sostenitori della federazione russa si aspettassero quello che è successo. La sera del 23 febbraio hanno festeggiato il giorno dei difensori della patria quando in Russia e in altri paesi post-sovietici, si commemora il primo reclutamento dell’armata rossa nel 1918. Poi il 24 febbraio hanno celebrato la guerra bevendo vodka e ostentando la lettera Z, disegnata sui mezzi militari russi e divenuta il simbolo del sostegno all’invasione. Altri sembravano scoraggiati, tristi, preoccupati.

Il nostro è un popolo che crede nell’utopia. Vediamo le cose in modo differente, i nostri impegni sono approssimativi e saldi, e la nostra rabbia ribolle. Mentre l’aumento della povertà non fa che peggiorare la situazione.

Con le valigie pronte
La maggior parte dei profughi ucraini ha attraversato la Moldova per recarsi altrove, ma alcuni sono rimasti. In percentuale rispetto alla popolazione abbiamo accolto più profughi di qualsiasi altro paese. I prezzi sono aumentati, in parte a causa degli sciacalli locali, ma è aumentata anche la paura. I moldavi erano paralizzati dal terrore ed erano tentati di fuggire per mettersi in salvo, verso Iași, capoluogo della regione moldava in Romania.

Il 26 febbraio mi ha rincuorato vedere come i comuni cittadini si fossero organizzati e avessero cominciato a raccogliere generi di prima necessità per i profughi appena arrivati, ma la paura continuava ad assillarmi. Volevo raccogliere le mie cose in modo da essere pronta se fossimo stati costretti a fuggire. Non ne vado fiera, ma prima ho preparato le mie valigie e poi anche io ho portato degli aiuti al centro per i profughi. Mentre tornavo a casa, i notiziari confermavano la presenza di treni quotidiani per Iași. Ho detto a mia madre che avremmo aspettato un altro paio di giorni. A Iași non conoscevamo nessuno, ma se le cose fossero peggiorate saremmo salite su un treno il lunedì successivo.

Ho disfatto le valigie il 9 maggio. Nei giorni seguenti ho letto l’elenco delle armi di cui gli ucraini avevano bisogno, pubblicato su Twitter da Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelenskyj. Ho letto dei bombardamenti strategici della Russia, delle città rase al suolo, della quasi annessione dell’Ucraina. Forse ho disfatto le valigie troppo presto.

Il conflitto del passato
La paura era, ed è ancora oggi, il sentimento più palpabile. La paura del passato è affiorata alla superficie del presente ed è esplosa. Il ricordo della carestia, della deportazione e della collettivizzazione forzata si è mescolato all’incubo di una guerra che vedi sullo schermo di un telefono.

I primi giorni la maggior parte delle notizie erano terribili, ma una fotografia mi ha colpito in modo particolare. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Quello scatto ha assunto un valore simbolico per me. A un checkpoint una madre e un bambino stavano attraversando il confine tra l’Ucraina e la Moldova. Il bambino teneva in braccio una piccola pianta d’appartamento. Era stato costretto a lasciare casa sua e aveva portato con sé la pianta. Quella fotografia mi ha aiutato a non affogare mentre altre immagini da incubo si susseguivano giorno e notte.

A marzo di quest’anno ricorreva il trentennale dello scoppio della guerra di Transnistria, una regione moldava che nel 1990 ha dichiarato la sua indipendenza, ma non è stata riconosciuta dai paesi dell’Onu. Il cessate il fuoco fu deciso solo tre mesi dopo, ma questo conflitto non ha mai smesso di lacerare la popolazione. E proprio a marzo siamo venuti a sapere dei terribili crimini commessi a Buča e in tutta l’Ucraina. Gli abitanti di Chișinău hanno cominciato a parlare dei rifugi antiatomici in Moldova, chiedendosi se esistessero o meno, e in che stato fossero.

La casa editrice Cartier ha annunciato che l’8 aprile avrebbe celebrato la sua annuale “notte dei libri”. I volumi sarebbero stati venduti con uno sconto, così molte persone si sono ritrovate alla libreria centrale, in un seminterrato vicino al ministero degli affari interni. Tutti parlavano di barbarie e di guerra. Mi sono resa conto che probabilmente la libreria centrale era il miglior rifugio antiatomico a nostra disposizione. Con tutti quei libri intorno, chiunque avrebbe meno paura di morire.

La Moldova è un paese neutrale, ma questo non significa che non abbia a cuore la propria sicurezza

Mia madre voleva imbiancare il bagno. Io ovviamente ho protestato. Le ho ricordato che non sapevamo cosa sarebbe successo, che vivevamo vicinissimo alla base militare e al suo ospedale, e che quelli erano dei potenziali bersagli. “Sto solo dando una rinfrescata. Smetti di leggere tutte quelle notizie. Non ti fa bene”. La voce di mia madre era completamente calma. Ha cominciato a dipingere e così io mi sono messa a cuocere la paska, un dolce tipico del periodo pasquale. La guerra sembrava darci un po’ di respiro.

Poi, la sera del sabato santo mi sono ritrovata a piangere mentre leggevo con rabbia come preparare delle molotov. Quel giorno avevo saputo del bombardamento di Odessa. Una nonna, una madre e un bambino erano morti nel loro appartamento. Cristo è risorto!

Per Radonitsa, la commemorazione ortodossa dei defunti che cade il secondo martedì di Pasqua, sono andata in campagna. Mio zio Vasile mi ha chiesto quando il conflitto ci avrebbe raggiunto. Lui nel 1992 aveva combattuto in Transnistria. Gli ho risposto che la guerra non sarebbe arrivata fin qui, e che le esplosioni di questi giorni in Transnistria erano una specie di prova. I separatisti filorussi volevano tenerci sulla corda. Non avevano intenzione di perdere il potere, ma neanche di combattere. Per loro è solo una questione di soldi.

“Un’indovina di Edinet mi ha detto che morirò tra qualche mese. Spero succeda prima che arrivi il conflitto. Dopo il 1992, della guerra ne ho fin sopra i capelli”, ha detto lo zio Vasile. Ha sollevato una mano sopra la testa. Ho cercato di calmarlo. “Quella donna stava lavorando”, gli ho detto, “aveva bisogno di soldi. Non fare l’ingenuo”. Zio Vasile ha annuito, si è acceso una sigaretta, ha sospirato ed è andato a bere. Qualche ora dopo l’ho sentito gridare per strada: “La Bessarabia (regione della Moldova che confina con l’Ucraina) brucia! La Bessarabia brucia!”.

Ero in ansia per il giorno della vittoria, che celebriamo il 9 maggio in ricordo della capitolazione dei nazisti alla fine della seconda guerra mondiale. Tutto si è svolto con lo sfoggio dei soliti nastri neri e arancioni (simbolo militare filorusso), e con l’arroganza e l’insensibilità di sempre. La gente è stata pagata per salire sugli autobus e andare in città a festeggiare, un po’ come le persone assoldate per votare determinati candidati.

Si sentiva parlare sempre più spesso di armi donate dall’estero. La Moldova è un paese neutrale, ma questo non significa che non abbia a cuore la propria sicurezza. I massimi esperti militari e i generali moldavi hanno continuato a ripetere lo stesso copione: non corriamo il pericolo di essere invasi dall’esercito russo.

In realtà il pericolo più grande per i moldavi è rappresentato dai truffatori. Alcuni indossano il nastro nero e arancione, altri no. Le deportazioni di massa dei moldavi sono cominciate nel giugno di 81 anni fa. Faremmo bene a ricordarcelo mentre guardiamo gli ucraini costretti a fuggire.

“Dopo quello che è accaduto a Buča, istituiremo una giornata di commemorazione nazionale. Non dimenticheremo più. Non lo dimenticheremo”, ha scritto di recente Iuri Andruhovâci sulla rivista romena Dilema Veche. Spero che i moldavi facciano lo stesso.

Mentre gli edifici crollano in Ucraina e i prezzi s’impennano in Moldova, mia madre ha cominciato ad accumulare provviste. Le ho detto che avremmo fatto meglio a preparare di nuovo le valigie. La gente compra tutto quello su cui riesce a mettere le mani. Una coppia di anziani dietro di me discuteva di piselli secchi. La donna ha detto al marito di rimetterli a posto: “Per bollirli serve molto tempo e il gas costa caro. Il porridge e i noodles andranno bene”.

Riusciremo a parlare di questa guerra in un secondo momento. Saremo in grado di analizzarla correttamente. E spero in modo onesto. Per ora, temo che ci stiamo lentamente ma inesorabilmente abituando al terrore. Quanto alla povertà, a quella siamo assuefatti da tempo.

(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Voxeurop. Fa parte della serie La guerra alle porte.

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