20 luglio 2023 13:01

Dieci mesi dopo la morte di Mahsa Jina Amini, che ha dato il via a una grande mobilitazione contro il regime di Teheran, la polizia religiosa è tornata nelle strade dell’Iran. Il 16 luglio il suo portavoce, Saeed Montazerul-Mahdi, ha annunciato che le pattuglie inaspriranno i controlli su chi indossa in pubblico “abiti fuori dall’ordinario” e chi “insiste a violare le regole”. Sui social network si sono moltiplicate le segnalazioni di auto della polizia religiosa e di agenti a piedi che pattugliano varie città iraniane. Negli ultimi mesi erano quasi del tutto scomparsi e a dicembre si era perfino diffusa la notizia, poi smentita, che l’intera unità fosse stata smantellata. Molte donne andavano in giro senza indossare l’hijab, il velo che copre la testa ed è obbligatorio dopo la rivoluzione islamica del 1979.

Negli ultimi giorni sono stati denunciati vari incidenti legati alle regole sull’abbigliamento. Al Jazeera riferisce che le autorità hanno diffuso un video in cui si vede un gruppo di funzionari di polizia, accompagnati da una troupe, avvicinarsi a donne di tutte le età per intimargli di sistemare bene il velo. La telecamera si sofferma sui volti delle donne e compare una scritta per indicare che sono state identificate e denunciate. Il 16 luglio invece è stato arrestato l’attore Mohamad Sadeghi, che il giorno prima aveva pubblicato sui social network un video in cui critica un altro filmato di una poliziotta che spinge contro un muro una donna per costringerla a indossare l’hijab. Qualche giorno fa un tribunale ha vietato all’attrice Azadeh Samadi l’uso dei social network e del telefono cellulare e le ha imposto una terapia per curare un “disturbo antisociale di personalità”. A maggio aveva partecipato al funerale di un regista a capo scoperto. Negli ultimi mesi le autorità sono state particolarmente dure nei confronti di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, molte delle quali sono state convocate o condannate per essersi tolte il velo in pubblico oppure online.

La repressione non si è mai fermata

Intanto il governo e il parlamento stanno lavorando a una legge che ha l’obiettivo di rafforzare i controlli sull’abbigliamento, ma le misure sono state criticate dai politici più conservatori che le ritengono troppo morbide. La repressione in ogni caso non si è mai fermata. In primavera le autorità hanno attivato delle telecamere che usano l’intelligenza artificiale per individuare le donne con il capo scoperto dentro le loro auto. In due mesi sono stati messi sotto sequestro duemila veicoli. Le guidatrici sono state identificate, convocate in commissariato tramite un sms sul telefono e costrette a firmare una lettera in cui s’impegnano a non mettersi più al volante senza il velo. In caso di recidiva saranno punite con la detenzione. Nell’ultimo mese si sono inaspriti anche i controlli sui luoghi commerciali e ricreativi che non fanno rispettare alle loro clienti le regole sull’abbigliamento. Decine di bar, ristoranti e altre attività sono state chiuse a Teheran e in diverse città del paese. Un articolo del Guardian ha denunciato che almeno sessanta studenti sono state espulse dall’università per essersi rifiutate d’indossare il velo. Sono aumentate anche le azioni delle squadre per la sicurezza che irrompono nei dormitori picchiando le studenti che hanno sostenuto le proteste sui social network, e i processi improvvisati negli atenei in seguito ai quali le ragazze e le insegnanti disobbedienti sono sospese.

Il ritorno della polizia religiosa nelle strade non farà che aggravare la situazione. Fin dalla rivoluzione si sono avvicendate varie versioni di polizia religiosa. L’ultima, nota formalmente con il nome di Gasht-e Ershad (letteralmente “pattuglia della guida” o “dell’orientamento”) è in vigore dal 2006. Non è chiaro il numero di uomini e donne che compongono questa unità. Si sa però che hanno accesso a molte armi e che controllano centri di detenzione e di rieducazione in cui sono rinchiuse le persone – soprattutto donne, ma anche uomini – che non rispettano le leggi sull’abbigliamento. All’interno delle strutture le detenute sono costrette a seguire lezioni sull’islam e sull’importanza del velo e prima di essere rilasciate devono firmare un documento in cui s’impegnano a uniformarsi alle regole.

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