11 gennaio 2024 14:00

Hamza al Dahdouh era un giornalista e cameraman di Al Jazeera. Domenica 7 gennaio era in macchina con il suo collega Mustafa Thuraya, un giornalista freelance, sulla strada che collega Khan Yunis a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, quando l’auto è stata colpita da un bombardamento israeliano. I due giornalisti sono morti e altri due colleghi, Ahmed al Burash e Amer Abu Amr, che lavorano per il canale televisivo Palestine Today, sono rimasti feriti.

Poche ore prima della sua morte Hamza al Dahdouh aveva pubblicato alcune foto di edifici distrutti a Gaza e il giorno prima aveva commentato una foto del padre Wael con questa didascalia: “Non perdere fiducia nella ripresa e nella misericordia di dio, e sii certo che dio ti ricompenserà per essere paziente”.

Wael al Dahdouh è il capo della redazione di Gaza di Al Jazeera e ha dedicato tutta la sua carriera a raccontare al mondo quello che succedeva nel territorio palestinese. Hamza era il figlio più grande, aveva 27 anni, ed è il terzo dei suoi otto figli ad aver perso la vita da quando Israele ha cominciato l’operazione militare nella Striscia dopo l’attacco di Hamas nel suo territorio il 7 ottobre. Il 25 ottobre un bombardamento israeliano ha ucciso la moglie, una figlia, un figlio e un nipote di Al Dahdouh nel campo profughi di Nuseirat, dove si erano rifugiati dopo aver lasciato la loro casa nella città di Gaza. Lui stesso è stato ferito a metà dicembre durante un attacco nel sud della Striscia nel quale è morto un cameraman di Al Jazeera.

Il Committee to protect journalists (Cpj), un’ong con sede negli Stati Uniti che difende la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo, all’8 gennaio ha registrato la morte di almeno 79 giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione nella guerra lanciata da Israele contro Hamas.

Il numero rende questo periodo il più sanguinoso per i giornalisti da quando il comitato ha cominciato a raccogliere dati nel 1992. Tra le vittime 72 erano palestinesi, quattro israeliani e tre libanesi. Altri sedici giornalisti sono stati feriti, tre sono scomparsi e 21 sono stati arrestati. Il comitato sta anche investigando sulle notizie non ancora confermate di altri giornalisti presi di mira, minacciati, censurati e delle loro case e dei loro uffici danneggiati dai bombardamenti israeliani.

“I giornalisti in tutta la regione stanno facendo grandi sacrifici per coprire questo conflitto straziante”, si legge in un documento del Cpj in cui sono riportati i nomi di tutti i giornalisti uccisi. “Quelli a Gaza, in particolare, hanno pagato, e continuano a pagare, un prezzo senza precedenti e devono affrontare minacce esponenziali. Molti hanno perso colleghi, familiari e uffici, e sono fuggiti in cerca di salvezza quando non c’è nessun luogo sicuro né via d’uscita”.

Nella Striscia di Gaza non possono entrare giornalisti stranieri né da Israele né dall’Egitto. Gli unici ammessi nel territorio dopo il 7 ottobre sono embedded, al seguito dell’esercito israeliano. Questo implica accettare alcune condizioni, come presentare il materiale ai militari prima della pubblicazione e non avere autonomia di movimento. Quindi a raccontare con le immagini o le parole quello che succede dentro la Striscia di Gaza sono i giornalisti che abitano nel territorio. La loro è una condizione particolare perché oltre a coprire la guerra la vivono e, come tutti gli altri, cercano di sopravvivere.

L’ha raccontato su Mada Masr Noor Swirki, fuggita nel sud della Striscia all’inizio dell’operazione militare israeliana, insieme al marito e collega e ai loro due figli. “La nostra famiglia non è l’unica; decine di colleghi che lavorano insieme a noi nella tenda stampa allestita nel complesso medico Nasser a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, sono in condizioni simili, se non peggiori. Le esperienze passate e presenti con i bombardamenti hanno insegnato ai giornalisti che siamo obiettivi e che è meglio riunirci tutti nello stesso luogo per offrirci a vicenda sostegno e conforto”.

La rivista statunitense Time ha dedicato ai lavoratori dell’informazione a Gaza un articolo in cui spiega: “Nessuno di questi giornalisti è un osservatore neutrale né pretende di esserlo. Molti di loro sono stati sfollati dalle loro case e dalle loro città; molti hanno perso colleghi, amici e familiari nei bombardamenti. Come tutti a Gaza, devono fare i conti con la mancanza di cibo, acqua pulita, rifugi ed elettricità”.

Le continue interruzioni di corrente rendono difficili le comunicazioni con l’esterno, le attrezzature, compresi i giubbotti antiproiettile, cominciano a danneggiarsi e a rompersi, non ci sono più infrastrutture su cui contare. Diverse testate e stazioni radiofoniche locali sono state costrette a chiudere e a interrompere le trasmissioni e i giornalisti pubblicano i loro materiali soprattutto sui social network. “Non ho più nessuna speranza di sopravvivere”, ha detto all’inizio di dicembre Bisan Owda, una filmmaker di 25 anni, ai suoi tre milioni di follower su Instagram.

Israa al Buhaisi, corrispondente del canale iraniano Al Alam, ha raccontato al Washington Post che i suoi figli stanno con i nonni in una casa costruita per dieci persone che ora ne ospita cinquanta. Da quando fa le cronache dagli ospedali della Striscia, ha cominciato a “scrutare i volti dei bambini che arrivano nelle ambulanze per controllare se ci sono i miei figli. Siamo spaventati per uno squillo di telefono o un messaggio. Abbiamo paura di tutto. Siamo morti viventi e invidiamo i morti”. Secondo il bilancio diffuso oggi dal ministero della salute di Hamas, dall’inizio dell’operazione militare israeliana nel territorio palestinese sono state uccise 23.357 persone e 59.410 sono state ferite.

Diretti e senza filtri, i resoconti dei giornalisti di Gaza, spesso difficili da sopportare, sono preziosi non solo perché fanno arrivare al mondo le voci degli abitanti della Striscia, trasmettendoci un’idea seppure vaga di quello che succede lì, ma anche perché sono uno strumento di resistenza, un modo per le persone di ritrovare una dignità e un senso in mezzo a tutto l’orrore che stanno vivendo.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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