11 aprile 2020 09:45

L’arrivo della pandemia di covid-19 in Africa non ha colto di sorpresa i leader del continente. Molti hanno adottato tempestivamente, già verso la metà di marzo, misure di distanziamento sociale e limitazione dei contagi simili a quelle introdotte dalla Cina e dall’Italia. Ma da subito è suonato un campanello d’allarme: quelle soluzioni (isolamento a casa, chiusura delle scuole e delle frontiere, stop dei mezzi di trasporto collettivi) mal si applicano al contesto africano, dove milioni di persone vivono in baraccopoli, dove nelle case vivono famiglie allargate, dove i servizi igienici e le pompe dell’acqua sono condivise all’interno di una comunità, e dove spesso si usano mototaxi o minivan per spostarsi.

Per non parlare del fatto che tanti non hanno un posto di lavoro fisso ma vivono alla giornata vendendo la loro mercanzia lungo la strada o si sostengono grazie alle rimesse inviate dai familiari che sono andati a lavorare all’estero. Gli africani che lavorano nell’economia informale sono, secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro, l’85 per cento, mentre le rimesse di questi tempi sono destinate a calare drasticamente.

Queste considerazioni valgono per paesi industrializzati come il Sudafrica (la seconda economia del continente e primo paese per numero di contagi, quasi duemila, di cui solo 18 mortali) o l’Algeria esportatrice di petrolio (dove il virus ha contagiato quasi 1.700 persone, di cui 216 sono morte, il numero di decessi più alto del continente) ma soprattutto per i paesi poveri, con sistemi sanitari disastrati, come la Repubblica Centrafricana o la Somalia. Ogni anno la spesa media procapite per la salute negli stati africani è di 14 euro all’anno contro i 4.500 euro di un paese come il Regno Unito. Il Sudafrica, che ha uno dei migliori sistemi sanitari nel continente, può contare solo su mille posti letto in terapia intensiva, il Malawi ne ha 25, il Burkina Faso 15. Anche la carenza di respiratori è drammatica.

Crisi sanitaria, sociale ed economica
Alcuni sperano che la giovane età della popolazione africana o il clima caldo umido possano limitare la diffusione del virus e la sua letalità, ma non c’è da contarci. La direttrice della sezione Africa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Matshidiso Moeti ha recentemente dichiarato che l’epidemia si espande rapidamente e non risparmia nessuno. Se cinque settimane fa c’erano persone infette solo in Egitto e in Algeria, oggi ce ne sono più di diecimila in 52 dei 54 paesi africani. “La presenza di tanti casi di aids, tubercolosi e malnutrizione aggrava la situazione, anche dei giovani, perché spesso il covid-19 colpisce più duramente chi ha altre patologie”, ricorda Moeti.

In definitiva, se non si riuscirà a fermare per tempo i contagi, una gravissima crisi sanitaria è proprio dietro l’angolo (si stimano 450mila contagiati per la metà di maggio). Ma un’altra crisi è già una certezza: quella economica e sociale.

Non si tratta di distribuire solo denaro, ma anche prodotti di prima necessità

Noura Hamladji, del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ha detto a Radio France internationale che a causa della pandemia “si rischiano di perdere anni di progressi economici. Le misure di isolamento sono necessarie, ma avranno conseguenze durissime. Le proiezioni di crescita, che erano intorno al 3,8 per cento, sono già state abbassate a meno dell’1,8 per cento. Si stimano cali sostanziali nell’occupazione, con alcuni settori più toccati di altri, come il trasporto aereo e il turismo. Ma sarà grave anche l’impatto sui paesi esportatori di petrolio: la Commissione economica per l’Africa prevede perdite per cento miliardi di dollari statunitensi solo nel 2020. Tutto questo avrà conseguenze sul piano sociale e umano in tutto il continente”.

Le restrizioni ai movimenti, sostiene Hamladji, dovranno assolutamente essere accompagnate da forme di sostegno sociale ai più vulnerabili. Servono sistemi di protezione che al momento in molti paesi non esistono e che vanno adottati con urgenza: non si tratta di distribuire solo denaro, ma anche prodotti di prima necessità. Alcuni paesi hanno preso misure per aiutare i cittadini in difficoltà, per esempio erogando aiuti una tantum o sospendendo il pagamento di utenze, come ha fatto il Ghana con l’acqua, per renderla accessibile a tutti. In Ruanda, invece, ministri e alti funzionari hanno rinunciato allo stipendio di aprile per destinarlo ai più poveri.

Inoltre va tenuto conto del fatto che alcuni paesi, come l’Uganda e l’Etiopia, accolgono un gran numero di profughi. Ci sono sei milioni di persone che vivono nei campi profughi di tutta l’Africa, e bisogna pensare anche a loro.

Il caso del Sudafrica
L’emergenza coronavirus sta quindi riportando in primo piano l’urgenza e la necessità della lotta alla povertà. Anche senza la pandemia, l’Africa subsahariana resta la regione al mondo dove vivono più persone costrette a sopravvivere con meno di 1,90 dollari al giorno. I progressi compiuti negli ultimi decenni, così come l’idea di un “decollo” africano, rischiano di essere spazzati via dal virus, in un momento in cui anche i paesi più ricchi saranno impegnati a rimediare ai danni causati dalla pandemia. Secondo un’analisi della Banca mondiale, l’economia dell’Africa subsahariana rischia una recessione per la prima volta in 25 anni, per non parlare dei danni causati da una grave crisi alimentare innescata da un possibile calo della produzione agricola, in una misura compresa tra il 2,6 e il 7 per cento, a causa delle restrizioni al commercio.

Il sito New Frame si concentra sulla situazione del Sudafrica. Nel paese, dove il lockdown rischia di devastare l’economia informale, è stato realizzato uno studio su come le famiglie escono, ricadono o rimangono intrappolate nella povertà. Ha messo in evidenza che metà della popolazione non ha praticamente modo di sfuggire alla miseria.

Più della metà dei sudafricani vive sotto la soglia di povertà e, prima della chiusura delle scuole, circa nove milioni di bambini mangiavano un pasto al giorno perché lo ricevevano a mensa. Ma ci sono interventi che possono aiutare le persone più fragili: garantire i sussidi di disoccupazione anche ai lavoratori che di solito non godono di queste tutele e dare sostegno economico alle famiglie con bambini. Misure del genere, stimano gli autori, potrebbero salvare milioni di sudafricani dalla miseria.

La moratoria sul debito
L’appello ad agire non è limitato ai singoli governi, ma soprattutto alle organizzazioni internazionali. L’Europa ha sbloccato 15 miliardi di euro per alcuni paesi partner, in gran parte africani, come ha scritto Pierre Haski. L’Unione africana sta elaborando un piano d’emergenza da almeno cento miliardi di dollari. A fine marzo la conferenza dell’Onu per il commercio e lo sviluppo ha proposto un piano da 2.500 miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo, di cui mille miliardi deriverebbero dalla sospensione o dall’eventuale cancellazione del debito da parte di istituzioni come il Fondo monetario internazionale. Da più parti arrivano inviti in questo senso: un gruppo di africani influenti, tra cui il banchiere senegalese Tidjane Thiam, ha chiesto ai creditori privati di applicare una moratoria di due anni su questi pagamenti. Secondo The Conversation, i privati detengono un terzo del debito africano a lungo termine. Resta da capire come si muoverà la Cina, che negli ultimi dieci anni ha investito tantissimo nel continente.

Interventi degli stati, aiuti internazionali, congelamento o cancellazione del debito. Se non si interverrà con decisione per contenere i danni socioeconomici del nuovo coronavirus, 500 milioni di persone in tutto il mondo potrebbero tornare povere. Molte di loro saranno in Africa. Ed è un rischio che non possiamo correre.

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