07 aprile 2020 16:26

Il crollo della domanda di petrolio dovuto alla pandemia di nuovo coronavirus, unito a una selvaggia guerra dei prezzi, ha messo in ginocchio l’industria dei combustibili fossili. Secondo gli analisti il settore è di fronte alla sfida più difficile in un secolo di storia, una sfida che porterà cambiamenti duraturi. Molti parlano di uno scenario “infernale” o comunque “senza precedenti”.

Un aspetto cruciale della vicenda è la possibilità che il fenomeno alteri definitivamente il corso della crisi climatica. Molti esperti pensano che possa avvicinarsi il momento in cui la domanda di petrolio e gas raggiungerà il picco per poi intraprendere un’irreversibile parabola discendente e permettere così all’atmosfera di “risanarsi” gradualmente.

C’è addirittura chi sostiene che la domanda di combustibili fossili potrebbe aver già toccato l’apice e che il 2019 passerà alla storia come l’anno in cui le emissioni di anidride carbonica hanno raggiunto il massimo. Ma c’è anche chi pensa il contrario, cioè che l’industria si riprenderà come ha sempre fatto e che il calo del prezzo del petrolio farà rallentare l’indispensabile transizione verso le energie verdi.

Chi ha ragione? La risposta dipende da una complessa combinazione di fattori geopolitici, profitti, umori degli investitori, salvataggi dei governi, obiettivi di riduzione delle emissioni, pressioni degli attivisti e, non ultimo, il comportamento dei consumatori. Per esempio: lavorare da casa diventerà la nuova norma?

Miliardi in fumo
Il dissesto del settore petrolifero è innegabile. Il prezzo del petrolio ha raggiunto il livello più basso degli ultimi vent’anni. Da gennaio il valore delle azioni di alcune aziende petrolifere si è dimezzato. Almeno due terzi degli investimenti annuali – 130 miliardi di dollari – sono andati in fumo, cancellando decine di migliaia di posti di lavoro. In alcuni mercati i prezzi sono addirittura scesi sotto lo zero: visto che in tutto il mondo le strutture di stoccaggio sono quasi piene, alcuni venditori sono disposti a pagare pur di liberarsi del petrolio.

“La guerra dei prezzi e il covid-19 hanno gettato nel caos il settore del petrolio e del gas. Oggi ci sono aziende che lottano per la sopravvivenza”, conferma Valentina Kretzschmar della società di analisi Wood Mackenzie.

Secondo Goldman Sachs è possibile che siano già stati chiusi numerosi pozzi di petrolio, per una produzione complessiva di quasi un milione di barili al giorno, perché il prezzo del greggio è ormai inferiore ai costi di trasporto. La banca statunitense stima che il numero di pozzi cresca “di ora in ora”. Questo potrebbe “cambiare definitivamente l’industria dell’energia e la sua geopolitica, influenzando il dibattito sul cambiamento climatico”, sottolinea Jeffrey Currie, capo del settore delle materie prime di Goldman Sachs.

Mentre il nuovo coronavirus impedisce alle persone di uscire di casa e gli aerei restano fermi sulle piste, la domanda di petrolio precipita. Secondo Kingsmill Bond, un analista di Carbon Tracker, “il virus anticiperà il picco della domanda dei combustibili fossili”. L’ultimo degli shock ricorrenti sta colpendo un’industria che è già vicina a un picco strutturale dovuto all’impegno dei governi per azzerare le emissioni nette di gas serra, spiega Bond. “L’impatto del virus su questo fenomeno dipende dalla gravità dell’emergenza”.

Nel 2018 Carbon Tracker aveva previsto che il picco della domanda sarebbe stato nel 2023, ma secondo Bond è possibile che la crisi attuale lo abbia anticipato di tre anni. “Questo significa che quasi sicuramente il picco delle emissioni è stato raggiunto nel 2019, e forse anche quello dei combustibili fossili. È ancora possibile una nuova impennata nel 2022, ma sarà di breve durata e poi comincerà una discesa inarrestabile”.

Anche se le compagnie petrolifere sostengono che il picco della domanda sia lontano, la maggior parte degli esperti era già convinta che sarebbe arrivato nel corso di questo decennio. Mark Lewis, capo del settore ricerca e investimento sul cambiamento climatico di Bnp Paribas, concorda sul fatto che la crisi potrebbe anticipare il punto di non ritorno della domanda.

“Quando la situazione si sarà normalizzata il dibattito sul picco della domanda sarà ancora molto attuale, più impellente che mai, soprattutto se il settore dell’aviazione commerciale a lungo raggio non riuscisse a riprendersi. Negli ultimi anni le compagnie aeree hanno avuto un forte impatto sulla crescita della domanda, ma oggi la gente resta a casa, lavorando da remoto e con le videoconferenze. Più questo periodo si allungherà e più persone si chiederanno: ‘Abbiamo davvero bisogno di volare?’”.

Ormai i tassi di rendimento per i progetti legati al petrolio sono in linea con quelli del solare e dell’eolico

Il crollo del prezzo del petrolio ha compromesso i forti guadagni sui progetti di esplorazione a cui molti investitori erano abituati. Questo minaccia di interrompere quella che Lewis chiama “l’epoca d’oro dei dividendi” degli ultimi vent’anni, in cui le azioni petrolifere sono state un punto fermo nei portafogli d’investimento.

Recentemente la Wood Mackenzie ha valutato le possibili conseguenze sui piani d’investimento delle aziende del settore ipotizzando un prezzo del petrolio intorno ai 35 dollari al barile . “È uno scenario da incubo”, spiega Kretzschmar. “A quel prezzo nel 75 per cento dei progetti non si arriverebbe a coprire il costo del capitale investito”. La cosa più impressionante è che i rendimenti previsti per i progetti legati al petrolio e al gas sono precipitati dal 20 al 6 per cento. “Ormai sono in linea con quelli del solare e dell’eolico”.

“Già gas e petrolio sono poco amati dagli investitori. In un contesto come quello attuale, con prezzi così bassi, stanno diventando investimenti con rendimenti ridotti, grandi rischi e molte emissioni”, spiega Kretzschmar. “Non è un pacchetto allettante”. Alcuni ipotizzano che i prezzi possano calare ulteriormente. “A 20 dollari al barile l’industria sarebbe decimata”, commenta Kretzschmar.

Soluzioni più stabili
Il settore petrolifero stava già subendo pressioni dagli investitori preoccupati per la crisi climatica e le norme introdotte dai governi per ridurre le emissioni. Colin Melvin della Arkadiko Partners, una società di consulenza che lavora per alcuni dei fondi pensione e d’investimento più grandi del mondo, è convinto che dopo la crisi assisteremo a un flusso d’investimenti sempre più consistente verso aziende che offrono benefici alla società. “Lo scopo degli investimenti di capitale è creare benessere e ricchezza nel vero senso della parola. Penso che questo aspetto sarà sempre più importante”, spiega Melvin.

Adam Matthews, direttore del settore etico del fondo pensionistico della chiesa anglicana, ritiene che le conseguenze per il settore petrolifero potrebbero essere significative. “Il calo della domanda potrebbe accelerare il cambiamento. Penso che gli investitori valuteranno attentamente le sfide a lungo termine e si orienteranno verso soluzioni più stabili.

Secondo un’analisi dell’Istituto per gli studi energetici dell’università di Oxford, l’estrema volatilità dei mercati petroliferi causata dalle crisi attuali potrebbe allontanare gli investitori quanto le considerazioni climatiche. “Il mercato è di fronte a una prova estrema”, sottolinea.

Per garantire che la ripresa economica sia sostenibile serviranno interventi mirati degli stati

Ma non tutti gli esperti sono convinti che le difficoltà dell’industria petrolifera siano un bene per la transizione energetica e il clima. “È possibile che favoriscano l’utilizzo del petrolio, perché costa poco. Potrebbe essere una pessima notizia per il clima”, sottolinea Dieter Helm, professore di politiche energetiche dell’università di Oxford. Per garantire che dopo la pandemia la ripresa economica sia sostenibile serviranno interventi mirati da parte degli stati. “È qui che entra in gioco la tassa sulla emissioni. Il momento è ora”, spiega Helm.

I governi stanno stanziando enormi quantità di denaro per sostenere un’economia globale messa in ginocchio dal nuovo coronavirus (cinquemila miliardi di dollari solo nei paesi del G20), ma il modo in cui i fondi verranno erogati è ancora poco chiaro. I leader dell’Unione europea hanno promesso di allineare le misure d’emergenza con il green deal della Commissione europea. Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale per l’energia, ha dichiarato che si tratta di “un’occasione storica” per investire in tecnologie capaci di ridurre le emissioni di gas serra.

Ma il pacchetto di emergenza da duemila miliardi di dollari annunciato dagli Stati Uniti comprende un finanziamento da 60 miliardi di dollari per le compagnie aeree in difficoltà, oltre a prestiti agevolati per le aziende petrolifere non vincolati all’adozione di misure contro l’emergenza climatica. Anche il governo canadese ha annunciato prestiti per le società petrolifere nazionali in difficoltà.

Dopo la crisi finanziaria globale del 2008 si sperava che le migliaia di miliardi di dollari spesi dai governi avrebbero reso l’economia più verde. Invece l’uso dei combustibili fossili ha continuato a crescere, causando un aumento delle emissioni. “La grande differenza rispetto al 2008”, spiega Bond, “è che oggi il costo delle energie rinnovabili è inferiore a quello dei combustibili fossili. Continuare a proteggere risorse insostenibili e dal costo enorme non ha più alcun senso. Sarebbe paradossale se i neoliberisti seguaci di Ayn Rand chiedessero di essere salvati dal governo”.

Meglio nazionalizzare
Secondo Adrienne Buller, economista del think tank Common Wealth, i governi di paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di nazionalizzare le grandi aziende petrolifere: “Non possono permettere che falliscano in massa”. Qualsiasi salvataggio dovrebbe prevedere una corrispondente partecipazione pubblica in azioni, e un forte impegno per l’ambiente e il clima, che preveda l’abbandono dei combustibili fossili. “Tuttavia, considerando che l’obiettivo di questa partecipazione dovrebbe essere ridurre rapidamente la produzione garantendo un’adeguata transizione per i lavoratori e la fornitura energetica, la nazionalizzazione potrebbe essere una soluzione appropriata e pragmatica”, dice Buller.

L’Associazione internazionale dei produttori di petrolio e di gas (Iogp) ribadisce che l’industria avrà ancora un ruolo vitale dopo la pandemia. “Il petrolio e il gas sono molto importanti nel mix energetico globale, e continueranno a esserlo in futuro”, ha dichiarato un portavoce. “È troppo presto per prevedere l’impatto a medio termine, ma il settore del petrolio e del gas ha sempre risposto in modo efficace alle difficoltà, e siamo convinti che saprà adattarsi come ha fatto in passato. Per decenni l’industria petrolifera è stata un motore essenziale della prosperità e dell’innovazione. Ha l’esperienza, le competenze e le risorse necessarie per realizzare un futuro a basse emissioni, e senza di essa la transizione sarebbe molto più difficile e costosa”.

La guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita e dalla Russia non fa che gettare benzina sul fuoco. Mosca e Riyadh hanno aumentato la produzione nel momento in cui l’epidemia ha causato un crollo della domanda. Secondo alcuni è una manovra per conquistare nuove fette di mercato, eliminando i produttori statunitensi di gas e petrolio di scisto, che hanno costi maggiori.

Bernard Haykel, professore dell’università di Princeton, ritiene che la situazione attuale rifletta un più vasto cambiamento strategico voluto dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. “Dato che la transizione globale verso l’energia pulita è inevitabile, Bin Salman sta disperatamente cercando di incassare il più possibile finché può farlo”. Le conseguenze a lungo termine della guerra dei prezzi dipenderanno da quanto i sauditi e i russi vorranno continuare a estrarre petrolio a basso prezzo. Entrambi i paesi possono beneficiare di costi di produzione molto bassi, ma hanno comunque bisogno di introiti elevati per equilibrare i bilanci nazionali.

Cambiamenti radicali
Michael Liebreich, di Bloomberg New Energy Finance, sostiene che per l’Arabia Saudita il pareggio di bilancio arriverebbe con un prezzo intorno agli 80 dollari al barile. Questo significa che le riserve in valuta estera del regno basterebbero solo per due o tre anni se il petrolio fosse venduto a prezzi stracciati. “La Russia, con un pareggio intorno ai 40 dollari al barile e un’economia diversificata, può sostenere prezzi bassi per una decina d’anni”, precisa Liebreich.

Comunque vada a finire, l’industria petrolifera non sarà più la stessa dopo il doppio colpo assestato dalla pandemia e dalla guerra dei prezzi. “Le aziende che usciranno dalla crisi non saranno le stesse di quando ci sono entrate”, commenta Bond. “Assisteremo a cambiamenti radicali, con tagli e ristrutturazioni”.

Alcuni esperti, tra cui Currie della Goldman Sachs, sostengono che quasi certamente il dibattito sul cambiamento climatico prenderà una direzione diversa dopo la crisi. Ma non è ancora chiaro quale sarà. “Prima bisogna capire quanto durerà questa situazione, e per il momento nessuno lo sa”, ammette Kretzschmar.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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