25 giugno 2021 12:57

Tutti ci ricordiamo cose della nostra infanzia. Spesso sono piccoli dettagli, odori e sensazioni che sonnecchiano nell’inconscio. Come le nuvole che guarda Mason, il bambino protagonista di Boyhood, splendido film del 2014 di Richard Linklater che racconta il passaggio dall’infanzia all’età adulta. O i viaggi nella vecchia auto Buick insieme al padre descritti da Bruce Springsteen in My hometown. Queste schegge di memoria sono le stesse che alimentano le canzoni di Boy from Michigan, il nuovo album del cantautore statunitense John Grant, un viaggio che parte proprio dalla sua infanzia trascorsa tra Buchanan, in Michigan, e Parker, in Colorado, e dai luoghi che l’hanno accompagnata.

A introdurre il primo brano, quello che dà il titolo al disco, ci sono delle note di sintetizzatore un po’ da film di fantascienza. Poi arriva la voce di Grant, sempre profonda ed espressiva, a ricordare gite al parco, giostre, aceri e quel bambino, Scotty, che diceva a Grant: “Stai attento, sei solo un sempliciotto del Michigan, non abbassare mai la guardia”.

“Non so se è il mio disco più autobiografico, tutti i miei dischi sono molto personali. Ma questo lo è in modo più strutturato. Ho scelto di aprire il disco con Boy from Michigan perché la storia comincia proprio da lì, e mi piaceva quell’intro così lunga con i sintetizzatori, un po’ alla Blade runner”, racconta Grant dal divano della sua casa a Reykjavík, in Islanda, dove si è trasferito da qualche anno. La barba come al solito lunga, una t-shirt azzurra e le cuffie, sembra più giovane dei suoi 52 anni. “Non posso fare a meno dei synth, del resto il mio cuore somiglia a uno Yamaha CS-80. Sono anche un fan delle colonne sonore di John Carpenter: la mia preferita è quella di Halloween III - Il signore della notte. Al tempo fu recensito molto male ma io lo amai subito. Quella è l’unica volta in vita mia che sono entrato di nascosto in un cinema, perché era vietato ai minori e io avevo 15 anni. Ma anche Essi vivono e Fog sono dei capolavori”, aggiunge.

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Le storie dell’album hanno spesso un retrogusto surreale, quasi horror. C’è quella di The rusty bull, uno dei pezzi migliori, che racconta i viaggi in macchina insieme ai suoi genitori. “Quando ero bambino vicino a Buchanan, percorrevamo in macchina questa strada meravigliosa piena di salite e discese. A un certo punto c’era una strada laterale tutta sporca dove c’era un gigantesco toro arrugginito, così grande che ci passavi sotto con la macchina per entrare dentro uno sfasciacarrozze dove mio padre andava a cercare i pezzi di ricambio. Era una cosa bellissima e spaventosa, la associo al periodo in cui stavo scoprendo la mia sessualità, in cui ho cominciato a capire di essere gay. Ho scritto The rusty bull in una giornata, anche se l’idea probabilmente era dentro il mio subconscio da molto tempo. Mi piace tanto quel groove lento elettronico, è uno dei miei pezzi preferiti del disco”.

Durante la sua carriera, John Grant ha sempre avuto la capacità di raccontare le contraddizioni del sogno americano. Gay, figlio di una famiglia di metodisti, ha ricevuto un’educazione rigidamente religiosa e da piccolo ha subìto il bullismo e l’omofobia dei suoi compagni di scuola. Gli hanno insegnato a disprezzare quello che era ed è riuscito a fare coming out solo dopo i vent’anni. In passato ha sofferto di depressione, attacchi d’ansia, ha superato l’alcolismo e nel 2011 ha scoperto di avere l’Hiv. Dopo l’esperienza con la band The Czars, aveva perfino deciso di abbandonare la musica. Sono stati i Midlake a convincerlo a registrare lo splendido Queen of Denmark, l’album del 2010 che l’ha fatto conoscere al pubblico internazionale.

“Sono una vittima del sogno americano, per questo ne parlo così spesso nelle mie canzoni, e soprattutto in questo disco. Il sogno americano è: fama e soldi. Se non hai una di queste due cose, o entrambe, non sei nessuno. La cantautrice e amica Cate Le Bon, che ha prodotto Boy from Michigan con me qui nella mia casa di Reykjavík, mentre lavoravamo alle canzoni mi ha convinto a leggere Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, forse il mio scrittore americano preferito. Vonnegut sosteneva che essere poveri negli Stati Uniti è una cosa di cui bisogna vergognarsi, è un fallimento personale. Mi chiedono spesso ‘Perché pensi sempre agli Stati Uniti se vivi da un’altra parte?’. Io rispondo che non si può mai abbandonare la propria casa”.

“Dietro a questo album ci sono come al solito tante influenze, da Chris & Cosey ai Devo, ma anche i film di Terrence Malick come The tree of life, che creano epica da dettagli apparentemente insignificanti, o anche la pittura espressionista di Monet”, prosegue il cantautore, “La spinta a guardare il mio passato in realtà viene anche dalla politica statunitense, dall’esperienza orribile della presidenza Trump, che ha ispirato in particolare il brano The only baby”. Ma la politica c’è anche nella conclusiva Billy, nella quale il protagonista si autodistrugge a causa del “culto della mascolinità”.

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Viene spontaneo chiedere a Grant perché la sua musica è così personale, parla senza filtri di tutti i suoi problemi e mette le sue ossessioni al centro della scena. “Mi viene naturale. È un modo per prendere il controllo della mia vita, per sopravvivere e trovare un senso nel mondo che mi circonda. Mi hanno insegnato a vergognarmi di quello che sono e per me questo è un bel modo per smetterla di disprezzare me stesso. Con la musica sistemo le cose. All’inizio mica volevo fare canzoni sul fatto che sono gay o che ho l’Hiv. L’ho fatto perché questa cosa in passato è stata usata contro di me come un’arma”.

Quali progetti ha il cantautore per i prossimi mesi, pandemia permettendo? “Farò dei concerti nel Regno Unito a settembre e delle date in Europa nel 2022. Se non potrò andare in tour, lavorerò a qualche colonna sonora o a canzoni nuove. Prima o poi vorrei fare un disco mescolando tutte le lingue che conosco”, aggiunge Grant, che parla tedesco, russo (lingua presente nel brano Your portfolio, come già era successo nel pezzo del 2015 Disappointing), spagnolo e islandese. E quando è il momento di concludere l’intervista dice: “Buona serata”, con un ottimo accento italiano.

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