16 giugno 2021 13:22

Mazen stava costruendo una tenda per la sua famiglia quando alcuni amici l’hanno avvicinato, parlandogli della possibilità di essere inviato in Libia per fare parte di una milizia sostenuta dalla Turchia. Nella Siria controllata dal regime di Bashar al Assad, la famiglia di Mazen era stata più volte costretta a scappare da casa e ora si stava trasferendo in un accampamento di fortuna a Idlib, una città controllata dall’opposizione nel nord del paese. Il figlio minore, Rami, era gravemente malato. La loro era una vita di povertà estrema, insostenibile. Nel luglio del 2020 Mazen ha percorso quasi duemila chilometri nella speranza di cambiarla (il suo nome, come gli altri dell’articolo, è stato cambiato per motivi di sicurezza).

Per ogni mese in missione a Mazen sono stati offerti duemila dollari, una somma sufficiente per pagare almeno un anno d’affitto di un appartamento a Idlib. La sua determinazione ad arruolarsi era rafforzata dal risarcimento promesso alla famiglia nel caso fosse morto all’estero. Le truppe sostenute dalla Turchia garantivano un pagamento di sessantamila dollari in caso di decesso, una somma quasi inaudita per la Siria in tempo di guerra. “La morte esiste qui come esiste lì”, ha pensato Mazen, “ma se muoio lì, i miei figli vivranno”.

La decisione non è stata facile. “Alcuni parenti ci hanno criticato”, ricorda Mazen. “Mi chiedevano se volevo davvero essere un mercenario. Ma ci servivano i soldi. Guardavo mio figlio malato e non potevo fare nulla per lui. È quello che mi ha spinto a partire”.

Timore divino
I reclutatori finanziati dalla Turchia hanno detto a Mazen che avrebbe dovuto battersi contro il gruppo Stato islamico (Is), gli iraniani e i russi: i nemici della rivoluzione siriana. Aveva qualche dubbio, dato il fragile cessate il fuoco di Turchia e Russia a Idlib. E i suoi dubbi hanno presto trovato conferma. Ha scoperto appena arrivato di essere stato ingannato a proposito di chi e come avrebbe dovuto combattere. I combattenti sostenuti dalla Turchia in Libia erano schierati per lo più contro i libici, e addirittura contro altri siriani reclutati dalla Russia. “È una sensazione indescrivibile”, dice Mazen. “Sapevamo che stavamo combattendo contro dei musulmani come noi. Ho pensato ‘questo è haram’, Dio, la religione lo vieta. E ho cercato di non uccidere”.

I comandanti hanno reso ancora più profondo il suo trauma con insulti, umiliazioni e botte. “Se non svolgevi bene un compito o non eseguivi gli ordini”, ricorda Mazen, “ti picchiavano fino a romperti le ossa”.

Un combattente arrivato quindici giorni dopo Mazen era “spaventato dagli scontri” e ha detto al suo comandante di voler tornare in Siria. Alcune guardie gli hanno rotto entrambe le gambe e lo hanno gettato nella prigione della sua unità fino alla scadenza del contratto. A un altro giovane è stato detto “puoi tornare in una bara o dopo la scadenza del tuo contratto”. Ai combattenti che hanno contemplato l’idea di andarsene – e ce n’erano tanti – i comandanti rispondevano con la violenza. Lo stesso Mazen sperava di tornare prima ma si è trovato in trappola.

Alcuni hanno fatto scelte disperate, sparandosi per sfuggire ai combattimenti

Posti di fronte a una violenza proveniente da ogni lato, e senza vie d’uscita, molti si sono rifugiati nell’alcol e nella droga. Quasi il 90 per cento dei componenti del suo battaglione beveva o usava droghe, compresi i comandanti, ha riferito Mazen. Le pillole stimolanti erano uno strumento di sopravvivenza, quando le battaglie duravano giorni e una disattenzione poteva portare alla morte. Anche chi era musulmano osservante si aiutava con hashish e alcol per reggere la situazione.

Alcuni hanno fatto scelte disperate, sparandosi per sfuggire ai combattimenti o per costringere i comandanti a rispedirli in Siria. I capi cercavano di evitare le defezioni trattenendo i salari dei combattenti fino alla scadenza dei loro contratti.

La missione di Mazen si è interrotta quando è stato ferito alla testa. Uscito da una battaglia, è entrato in un’altra: quella per ottenere quanto gli era dovuto. Mazen si aspettava che parte del suo salario sarebbe stato trattenuto da comandanti e reclutatori, ma non immaginava fino a che punto. Alla fine ha avuto solo la metà dei duemila dollari che gli erano stati promessi. Il suo comandante gli ha rubato tutto il primo mese di salario, come “compensazione per le spese di viaggio”.

Con i soldi ricevuti, Mazen ha costruito una casa di una stanza per la sua famiglia. Il figlio Rami continua a uscire ed entrare dall’ospedale, e Mazen fatica a pagare le bollette. È furioso per l’avidità del suo comandante ma ha cercato di reclamare il suo denaro solo tramite intermediari e messaggi di testo, per paura di rappresaglie violente.

La nuova battaglia
Mazen è uno delle migliaia di siriani che hanno combattuto come mercenari in Libia, Azerbaigian e forse altrove, per conto della Russia e della Turchia. Sono spinti dalle terribili necessità economiche – debiti da pagare, case da costruire, famiglie da sostenere – e dal senso d’inutilità. Decine di loro sono stati uccisi e centinaia sono rientrati dalle missioni dopo la fine dei loro contratti, ma nessuno torna alla vita che si era lasciato alle spalle.

Basam aveva 15 anni quando è cominciata la guerra civile siriana, e a 17 ha lasciato la scuola per partecipare alla rivoluzione. Per anni ha combattuto con l’Esercito siriano libero, una coalizione di gruppi ribelli. Ma quando l’esercito ha cominciato a sgretolarsi, sono crollate anche le speranze di Basam di vedere cambiare le cose in Siria.

In Siria era un cittadino che combatteva per una causa in cui credeva. In Libia avrebbe combattuto da straniero per una causa incerta

La città d’origine di Basam, nella zona nord di Hama, è stata riconquistata dal regime. Sfollato nella Siria nordoccidentale controllata dall’opposizione, poteva solo scegliere di vivere sotto il gruppo salafita e jihadista Hayat tahrir al Sham o sotto l’occupazione turca. Costretto a pagare affitti altissimi nell’angusta provincia di Idlib, Basam non aveva più soldi.

Quando i compagni rivoluzionari hanno abbandonato la causa nazionale per una causa personale, Basam li ha seguiti. I reclutatori sostenuti dalla Turchia gli hanno detto di andare ad Afrin, nella Siria nordoccidentale controllata da Ankara, indossando abiti civili. Da lì avrebbe viaggiato sotto copertura in autobus fino alla Turchia, e sarebbe poi stato trasferito con un volo di linea da Istanbul a Tripoli. In Siria era un cittadino del paese, che combatteva apertamente per una rivoluzione nella quale credeva. In Libia sarebbe stato uno straniero, che combatteva segretamente per una causa incerta.

Per non svelare la natura della missione, Basam e i suoi compagni siriani sono stati isolati dalle controparti libiche, combattevano in settori diversi e rimanevano sequestrati nelle loro basi quando non erano sul campo. Dal punto di vista turco, l’isolamento doveva impedire ai combattenti di creare reti sociali che avrebbero potuto facilitare la loro fuga.

I pochi libici con cui Basam ha avuto furtive conversazioni gli hanno descritto una rivoluzione vittoriosa, in pesante contrasto con le sue esperienze in Siria. I libici, racconta, potevano immaginare la fine della loro guerra, con il trionfo dell’opposizione a Gheddafi. Impressionato dalla loro consapevolezza politica, Basam ha aperto gli occhi sui fallimenti dei rivoluzionari siriani. Se l’opposizione siriana fosse stata così unita, ha pensato, forse avrebbero potuto “risolvere militarmente la guerra nel loro paese”.

Questa nuova consapevolezza, tuttavia, non ha riacceso le speranze rivoluzionarie di Basam, che desiderava solo tornare alla sua vita di studente. Quando ce l’ha fatta, ha avuto poco da mostrare per gli otto anni persi a causa della rivoluzione. Alla fine ha dovuto pagare al suo comandante seicento dollari per il privilegio di tornare in una Siria distrutta.

Dallaltra parte del fronte
Jasem è cresciuto nella provincia di Latakia, solidamente fedele al regime e non si è mai unito alla rivoluzione siriana. Dall’altra parte del fronte di Idlib, l’economia locale non se la passava tanto meglio. A 26 anni Jasem aveva bisogno di un lavoro e considerava il reclutamento nelle milizie all’estero come un buon investimento. E così ha versato un acconto a un reclutatore russo, per confermare il suo posto in un battaglione diretto in Libia. Le quote di reclutamento variano dai cento ai cinquecento dollari, e gli intermediari alzano il prezzo per i combattenti inesperti o i ribelli pacificati. Jasem ha pagato 150 dollari.

Le forze sostenute dalla Russia in Libia hanno gestito una versione più istituzionalizzata della stessa, brutale attività. Hanno schierato battaglioni con un numero preciso di uomini, scoraggiando qualsiasi tentativo individuale di disertare o fuggire in altro modo. Jasem si è presto stancato, ma il suo comandante ha scacciato ogni speranza di rientro anticipato: sarebbe tornato alla scadenza del suo contratto “e non una sola ora prima”.

Idlib, Siria, 17 aprile 2021. (Muhammed Said, Anadolu Agency via Getty Images)

I mercenari russi, compresi i componenti del famigerato gruppo Wagner, hanno fornito ai combattenti siriani un addestramento “ininterrotto” nei campi militari della Libia orientale. A differenza di Mazen, che è stato costretto a implorare per ricevere il suo salario, Jasem pensa che riceverà il compenso stabilito nel contratto. Le esperienze agli ordini dei russi sono più organizzate e razionali, ma non meno rischiose. Jasem non ha intenzione di arruolarsi nuovamente una volta tornato a casa.

Quale via duscita?
Hossam non aveva detto alla sua famiglia che sarebbe andato in missione in Azerbaigian. Il suo amico d’infanzia Tamer l’aveva reclutato nelle operazioni sostenute dalla Turchia per riconquistare alcune parti del Nagorno Karabakh controllate dall’Armenia. A entrambi l’opportunità è parsa troppo redditizia per rifiutarla. Hossam era l’unico figlio maschio e si sentiva responsabile per le sei sorelle. Tamer ha cinque figli. La sua famiglia è stata costretta a trasferirsi cinque volte in sei mesi a causa dell’aumento degli affitti nella provincia di Idlib. Tutti e due riuscivano a malapena a guadagnarsi da vivere in Siria. Dopo quasi dieci anni di guerra, Tamer guadagnava solo 25 dollari al mese a Idlib. Combattendo nel Nagorno Karabakh poteva guadagnare 40 volte tanto.

L’Azerbaigian ha dunque acceso un barlume di speranza, sia sul piano economico sia come via d’uscita dalla Siria, perché si diceva che chi si arruolava, o la sua famiglia, avrebbe avuto diritto alla cittadinanza turca dopo la missione militare. Un passaporto straniero valeva più di qualsiasi incentivo finanziario, e spingeva a correre qualsiasi rischio. Hossam e Tamer si sono promessi che se uno dei due non fosse tornato il sopravvissuto si sarebbe preso cura della famiglia dell’altro.

Tamer era preoccupato per come se la sarebbe cavata il suo amico Hossam. Tra i combattenti intorno a lui c’erano civili recentemente arruolati e “che non avevano mai tenuto in mano un’arma”. I reclutatori sostenuti dalla Turchia gli avevano detto che avrebbero sorvegliato i confini, le basi e i giacimenti di gas. Tamer si è invece trovato in mezzo a feroci battaglie e combattimenti che “non si fermavano nemmeno per un’ora”.

Intanto la famiglia di Hossam credeva che fosse partito per lavorare come civile in Turchia. Hanno saputo del suo reclutamento in Azerbaigian dai suoi amici rimasti a casa. Erano angosciati dal rischio che si era preso per loro, e l’hanno contattato chiedendogli di tornare in Siria. Hossam ha giurato che sarebbe tornato non appena avesse ricevuto il primo stipendio. Dieci giorni dopo essere arrivato in Azerbaigian, e con il pensiero già rivolto al ritorno a casa, Hossam è morto sul campo di battaglia.

Storie sconosciute
Non esiste un registro formale dei morti siriani in Libia o in Azerbaigian, né da parte turca né da parte russa. I combattenti stimano che centinaia di persone siano morte in ciascuno dei due teatri di guerra. Innumerevoli storie di cameratismo e perdita restano sconosciute. Quelli che sono riusciti a tornare a casa hanno avuto fortuna. I corpi dei morti finiscono negli aeroporti di Mitiga e Baku. Mazen ha condiviso il suo volo di ritorno con le bare di tre combattenti siriani, “uno dei quali era stato fatto a pezzi”.

Due giorni dopo la sua morte, Hossam è stato riportato in aereo in Siria dove è stato sepolto da sua madre e dalle sue sei sorelle. La vicenda di Hossam ha colpito moltissimo Tamer. Il dolore provato vedendo i suoi compatrioti morire in combattimento, sul suolo straniero e per gli interessi di altri paesi, l’ha accompagnato mentre cercava di reintegrarsi nella società. Tornato in Siria, Tamer ha usato il suo salario per comprare una casa di tre stanze per la famiglia.

La sua ritrovata stabilità, tuttavia, dipende dalla resistenza dell’ultima roccaforte dell’opposizione in Siria. Se il regime di Assad dovesse riprendere l’offensiva contro Idlib, Tamer dovrebbe tornare al fronte con le forze sostenute dalla Turchia – ma stavolta in Siria – per difendere la sua nuova casa. Tamer ritene che combattere per la Turchia, in Siria e all’estero, sia un suo dovere, come riconoscimento del sostegno di Ankara all’opposizione siriana. E dice di non rimpiangere di aver servito come soldato in Azerbaigian.

Forse con questa convinzione cerca di razionalizzare il suo sacrificio: se davvero era loro dovere combattere per la Turchia, allora Hossam non è morto invano. Tamer si consola ulteriormente con la consapevolezza che la famiglia di Hossam ha raggiunto la sicurezza finanziaria per la quale il suo amico ha perso la vita. Un comandante affiliato alla Turchia si è presentato a casa loro più di un mese dopo il funerale, e la madre di Hossam ha ricevuto il pagamento di sessantamila dollari per la perdita del figlio.

Solo promesse
Altre famiglie si sentono dimenticate, non avendo ricevuto alcun risarcimento e poche notizie dei loro cari. Si ritiene che in Libia 150 combattenti sostenuti dai turchi siano stati catturati da gruppi nemici. Alcuni ipotizzano che le forze sostenute dalla Russia abbiano consegnato i detenuti al regime di Assad, una condanna a morte per qualsiasi esponente dell’opposizione siriana. I comandanti sostenuti dalla Turchia hanno giurato alle famiglie e ai compagni dei dispersi che li avrebbero trovati e avrebbero negoziato il loro rilascio. “Ma sentiamo solo promesse”, dice un combattente. “È come se i dispersi fossero svaniti nel nulla, come se non fossero mai esistiti”.

Nonostante le promesse non mantenute, la Turchia e la Russia possono ancora scegliere tra le migliaia di giovani siriani senza lavoro e disperati. Nuovi combattenti continuano ad arruolarsi anche dopo che quelli inviati in missione hanno smascherato l’inganno. Come racconta Basam: “Quando sono partito, molte persone che prima erano contrarie all’idea di andare in Libia mi hanno seguito per sfuggire alle difficili condizioni di vita in Siria”. Nella fiorente economia di guerra siriana, i reclutatori chiedono ai combattenti di pagare per il privilegio di arruolarsi, e devono farlo anche successivamente con denaro, obbedienza e, a volte, con la loro vita.

Gli ideali che hanno animato la rivoluzione siriana si sono sgretolati quando si sono scontrati con le guerre all’estero di Turchia e Russia. Mazen si è reso conto di come la Libia fosse “totalmente diversa” dalla Siria: lì i siriani non hanno interessi, li ha solo la Turchia. Ankara ha cercato d’includere i suoi combattenti per procura, libici e siriani, nella stessa categoria di “rivoluzionari”, ma i siriani non erano disposti a confondere le due cose. Combattere in Siria è stato, per loro, una necessità esistenziale. Farlo all’estero, invece, un errore che pochi sono disposti ripetere.

Turchia e Russia hanno bisogno di un afflusso costante di combattenti per portare avanti i loro programmi di politica estera, e considerano i siriani come sacrificabili. Il loro dispiegamento sul campo probabilmente aumenterà e si estenderà ad altri paesi. Nei prossimi dieci anni migliaia di siriani potrebbero combattere, per gli interessi di Mosca e Ankara, in diversi teatri di guerra: dal Venezuela allo Yemen. Si arruolano per sfuggire alla loro realtà disperata, con promesse di cittadinanza o denaro. La cittadinanza non si materializza mai, e il denaro non è mai quanto sperato.

L’economia siriana ha poche possibilità di riprendersi finché la guerra non finirà. Questo crea un circolo vizioso: senza opportunità di lavoro, altri uomini sono spinti a partire in missioni all’estero pericolose e mal pagate. Oltre a petrolio, gas e fosfati, oggi anche i mercenari fanno parte della breve lista delle esportazioni redditizie della Siria. La disuguaglianza economica strutturale divide chi compra e vende manodopera mercenaria da chi la fornisce, e pone le basi per un esplosivo conflitto nei prossimi decenni. Senza una risoluzione del conflitto in patria, con la speranza e le opportunità che si riducono, i siriani continueranno a morire all’estero.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sulla rivista statunitense Newlines Magazine.

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