18 maggio 2022 11:35

Il covid è arrivato ufficialmente anche in Corea del Nord, paese che finora, almeno secondo le dichiarazioni di Pyongyang, era misteriosamente rimasto indenne da una pandemia che non ha risparmiato nemmeno l’ultimo atollo del Pacifico. Il paese aveva sigillato i confini all’inizio del 2020, appena l’emergenza è scoppiata in Cina, e da allora i pochi stranieri presenti nel paese – per lo più diplomatici e cooperanti – se ne sono andati, lasciandoci senza fonti di notizie attendibili sulla situazione.

Il 12 maggio le autorità hanno ammesso per la prima volta la presenza del virus nel paese, dov’è stato imposto il lockdown. Dalla fine di aprile, ha fatto sapere l’agenzia di stampa ufficiale Kcna, 1,72 milioni di persone hanno sviluppato una febbre di origine ignota (non ci sono abbastanza tamponi, ma è presumibile si tratti di covid-19), mentre i morti, ufficialmente, sono 62 (dati aggiornati al 17 maggio). Per la prima volta Kim Jong-un il 13 maggio si è presentato in pubblico con la mascherina arrivando alla sede dell’unità di risposta all’emergenza, salvo poi togliersela per fumare e parlare al gruppo di funzionari lì riuniti.

Parata fatale
È verosimile che il covid sia arrivato solo adesso? Come mai questo annuncio dopo aver assicurato per due anni che il paese era riuscito a rimanere indenne? C’è chi ipotizza che effettivamente i contagi finora siano stati contenuti e che la grande parata militare del 25 aprile per il 90° anniversario delle forze armate, con centinaia di migliaia di persone senza mascherina, sia stata fatale. Il timore è che la pandemia possa provocare disastri in un paese già fiaccato da due anni di chiusura totale, dove probabilmente la grande maggioranza della popolazione non è vaccinata (Pyongyang ha rifiutato l’invio di vaccini tramite il meccanismo Covax) e con un sistema sanitario non in grado di affrontare un’emergenza simile.

Ma cosa sappiamo della sanità in Corea del Nord, al di là di quel che tutti possiamo immaginare? L’abbiamo chiesto a Carla Vitantonio, cooperante e autrice, tra gli altri, di Pyongyang Blues, resoconto dei quattro anni trascorsi in Corea del Nord. Lì Vitantonio, che oggi lavora a Cuba, seguiva i progetti di una ong che assisteva disabili, e per questo ha frequentato cliniche e ospedali del paese. “Il sistema sanitario nordcoreano è diviso in tre livelli”, spiega Vitantonio. “Al primo c’è il dispensario, l’ambulatorio, la cui presenza è capillare e dove in genere un medico, paragonabile al nostro medico di base, non assiste più di mille pazienti. Poi ci sono le cliniche di secondo livello, ospedali distrettuali o cittadini, che offrono servizi di base per analisi standard e dove il medico di base può mandare il paziente per accertamenti. Ci sono infine i grandi ospedali provinciali, strutture dove si fanno analisi più specifiche o centri specializzati in alcune malattie, come gli ospedali oncologici, gli ortopedici e così via. In teoria il personale medico e paramedico è abbondante”.

A rendere ancora più vulnerabile il sistema sanitario è la mancanza di strumenti. Molto materiale sanitario è sotto embargo, inclusi i bisturi, perché sono di metallo

“Negli anni settanta quello nordcoreano doveva essere, tra i paesi socialisti, un sistema avanzato”, prosegue Vitantonio. “Oggi, però, soprattutto per quanto riguarda l’aggiornamento delle tecniche, ma ancor di più la disponibilità di materiali, la sanità nordcoreana non può contare sull’avanguardia. Che io sappia, gli unici aggiornamenti sistematici li fa la Croce rossa internazionale e riguardano interventi d’urgenza, riabilitazione, operazioni post-traumatiche. L’unica ong che forniva attività di aggiornamento era Medici senza frontiere, che però ha lasciato il paese all’inizio degli anni duemila. L’Organizzazione mondiale della sanità fa attività di aggiornamento ma soprattutto si è occupata, anche con fondi italiani, di telemedicina.

La telemedicina in Corea del Nord è importante perché il paese è completamente cablato, quindi, quando c’è l’elettricità, il sistema funziona, soprattutto in fase diagnostica. Da un ospedale provinciale si può avere una diagnosi da una struttura specialistica e si può fare anche il telementoring, cioè un medico specializzato può formare a distanza i colleghi o anche mostrare come eseguire alcune pratiche. Quando il governo italiano finanziò questo sistema non mancarono le critiche da parte di alcune ong, secondo cui la telemedicina era una cosa da primo mondo, mentre in Corea del Nord si fa la fame. Critiche che non condivido perché, dato che la telemedicina si appoggia su infrastrutture già esistenti, si è trattato di comprare strumenti come schermi e videocamere, con un beneficio potenzialmente altissimo.

Oltre alla mancanza di formazione e aggiornamento, a rendere ancora più vulnerabile il sistema sanitario è la mancanza di strumenti. Molto del materiale sanitario è sotto embargo, inclusi i bisturi, perché sono di metallo. Gli stessi colleghi della Croce rossa internazionale lo ammettevano: c’è molto molto poco, e le donazioni arrivano con difficoltà. Quando lavoravo lì importavamo materiale ortopedico e sedie a rotelle ed era già difficile, immagino che adesso sia anche peggio. Solo una ong al mondo, la sudcoreana GreenTree foundation, d’ispirazione cristiana, è riuscita a ottenere dalle Nazioni Unite un cosiddetto waver umanitario, cioè una dispensa per importare per motivi umanitari prodotti che sono sotto embargo, come appunto quelli in metallo. Però non fornisce materiale sanitario”.

Quindi come potrebbe rispondere il governo all’emergenza covid? “Dato che per affrontare una situazione simile servono materiali di alta tecnologia come gli intubatori, l’ossigeno e dispositivi di protezione personale dubito che il sistema possa sostenere un alto numero di ricoveri. I nordcoreani lo sanno, ed è per questo che quando ci fu la Sars fu imposta la quarantena preventiva: chiunque arrivava nel paese veniva isolato in un hotel per due-tre settimane. Anche nel 2014-2015, quando c’era il timore che attraverso la Cina potesse arrivare l’ebola dall’Africa, chiunque arrivasse dall’aeroporto di Pechino era messo in isolamento. Quindi la quarantena preventiva è una misura che in Corea del Nord è già stata applicata proprio perché le autorità ammettono i limiti del sistema sanitario”.

Ancora più verosimile è l’ipotesi che il covid sia uno strumento per fare leva sull’invio di aiuti internazionali

È verosimile che il virus sia arrivato nel paese solo adesso? “Non credo, forse ora è semplicemente uscito fuori controllo. La Corea del Nord ha reagito con una chiusura ancora più totale rispetto a quelle del passato, quindi probabilmente c’era già stato qualche caso nel paese e forse era stato isolato. È probabile che adesso ci siano stati nuovi focolai e per questo hanno dato l’allarme. Ancora più verosimile è l’ipotesi che il covid sia uno strumento per fare leva sull’invio di aiuti internazionali. Questo è il periodo in cui, passate le tradizionali tensioni del mese di aprile (in cui ogni anno si fanno test nucleari o missilistici che irritano i vicini), Pyongyang fa delle previsioni sulla stagione agricola e chiede aiuti umanitari in base a quelle. Quindi non escludo che quest’anno abbiano deciso di legare la richiesta di aiuti all’emergenza covid”.

Da non sottovalutare il fatto che a Seoul si è appena insediato il nuovo presidente, Yoon Suk-yeol, che ha nominato Kwon Young-se ministro dell’unificazione (incaricato dei rapporti con il Nord). Dalle prime dichiarazioni di Kwon, la nuova amministrazione potrebbe non distanziarsi troppo dalla linea di quella precedente, favorevole al dialogo. E la crisi sanitaria potrebbe influire sulle prime mosse del governo sudcoreano. Intanto Yoon si è già detto pronto a inviare vaccini e materiale sanitario a Pyongyang, ma non è chiaro se il governo nordcoreano accetterà. Intanto NKNews riferisce che negli ultimi giorni aerei della Air Koryo, la compagnia di bandiera, hanno fatto la spola con la Cina per procurare materiale relativo al covid-19.

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