06 marzo 2024 10:33

Stare a letto, non cambiare l’aria nella stanza, non ingerire alimenti crudi o freddi, lavarsi il meno possibile, in particolare i capelli, astenersi dai rapporti sessuali: tutto questo per un mese circa dal giorno del parto. Nonostante non ci siano riscontri scientifici sulla loro efficacia, le prescrizioni tradizionali per le puerpere in alcuni paesi dell’Asia orientale sono ancora molto seguite.

In Cina il periodo di isolamento si chiama zuoyuezi, “mese seduto”, e in genere sono le madri o le suocere delle partorienti ad accudire il neonato e ad assisterle, assicurandosi che oltre a rispettare i divieti si nutrano con gli alimenti più indicati per il periodo.

In Corea del Sud le cure post parto, sanhujori, prevedono una dieta che includa la miyeok guk, una zuppa di alghe e manzo ritenuta un toccasana fondamentale, e durano in genere 21 giorni, tanto serve al corpo di una donna per riprendersi, almeno secondo la tradizione. Nel paese dove nascono meno bambini al mondo – questa settimana il governo di Seoul ha annunciato che nel 2023 si è ha toccato il record negativo di nascite – e dove la famiglia estesa è un ricordo del passato, le poche donne che partoriscono scelgono di trascorrere l’isolamento post parto in centri specializzati.

I joriwon sono nati alla metà degli anni novanta per sopperire alla mancanza di assistenza familiare e negli anni sono diventati molto popolari. Oggi otto sudcoreane su dieci dopo il parto si affidano a questi centri, alcuni dei quali offrono servizi da hotel di lusso. Ne ha scritto di recente Lauretta Charlton, una giornalista della redazione di Seoul del New York Times, che dopo aver partorito ha trascorso due settimane in uno dei joriwon privati più esclusivi della capitale, per poi raccontarlo sul suo giornale.

Leggendolo ho ripensato al reparto della clinica di ginecologia e ostetricia di Pyongyang, in Corea del Nord, dove le puerpere vengono isolate insieme al neonato per un mese. Non possono avere contatti diretti con nessuno ma gli è consentito comunicare con i mariti tramite una videocamera e un telefono nell’ora dei colloqui. Il sistema mi era stato presentato con orgoglio dal direttore dell’ospedale, fiore all’occhiello del regime nordcoreano. Anni luce dal “ritiro in stile Bali” di cui parla Charlton descrivendo la sua esperienza: riposo, pasti in camera, massaggi, trattamenti per viso e capelli, lezioni di pilates oltre che di come prendersi cura dei neonati, accuditi nel nido dalle infermiere che li portano alle madri quando queste lo richiedono.

Tutto questo costa molto (nella clinica più esclusiva di Gangnam, il quartiere posh di Seoul, si arriva a 26mila euro per due settimane), ma ci sono perennemente le liste d’attesa. Chi non può permettersi di spendere tanto, prova a trovare un posto nei centri pubblici, gestiti dai governi locali, dove il costo medio è l’equivalente di 1.180 euro. Ce ne sono solo 19 in tutto il paese, dunque per aggiudicarsi un soggiorno lì le persone, in genere i futuri padri, fanno ore di fila, anche di notte.

I motivi per cui in Corea del Sud non si fanno figli non sono solo economici, ma la spesa per l’assistenza post parto è solo la prima di una lista così lunga e onerosa da scoraggiare le giovani coppie.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it