Li hanno portati via in piena notte a bordo di sei furgoni con i vetri oscurati scortati da auto della polizia. Quarantotto uiguri, arrivati nel 2014 dalla Cina nella speranza di raggiungere la Turchia e da allora rinchiusi in un centro di detenzione per migranti di Bangkok, sono atterrati a Kashgar, nella regione autonoma cinese dello Xinjiang, qualche ora dopo.
L’operazione è avvenuta al riparo da occhi indiscreti perché non si è trattato di un semplice rimpatrio di immigrati irregolari, ma della conseguenza lampante del nuovo assetto mondiale che si sta delineando sempre più chiaramente ogni giorno che passa. Insieme alle Filippine, la Thailandia è storicamente l’alleata degli Stati Uniti nel sudest asiatico.
Se per più di undici anni quei detenuti, parte di un gruppo di trecento persone arrestate nella giungla al confine con la Malaysia mentre cercavano di entrare nel paese, non sono stati consegnati alle autorità cinesi, che pure li reclamavano, è proprio per le pressioni di Washington su Bangkok. Quando a gennaio è stato confermato segretario di stato, Marco Rubio si è impegnato a premere sul governo tailandese perché non rimandasse in Cina i 48 uiguri (il fatto che nel frattempo a casa sua la deportazione degli immigrati illegali sia già cominciata di certo non ha aiutato a rendere convincenti le sue parole).
Ma un paio di settimane fa la premier tailandese Paetongtarn Shinawatra è stata in visita ufficiale a Pechino e lì ha incontrato il presidente Xi Jinping. Il tema centrale e più urgente del vertice è stato il contrasto ai cosiddetti scam center, i centri che ormai costellano diversi paesi del sudest asiatico in cui eserciti di schiavi vengono addestrati e costretti a truffare gente in tutto il mondo. Gli affari sono controllati per lo più dalla criminalità cinese e hanno tra le vittime molti cittadini cinesi. Per Pechino si tratta dunque di una priorità. Il 13 febbraio, pochi giorni dopo il rientro di Shinawatra dalla Cina, le forze armate tailandesi hanno fatto una retata in alcuni centri delle truffe in Birmania, liberando 250 persone provenienti da venti paesi diversi. L’operazione è stata chiaramente una diretta conseguenza della visita a Pechino della prima ministra.
Pechino e Bangkok festeggiano quest’anno cinquant’anni di relazioni diplomatiche e a detta del presidente cinese i rapporti tra i due paesi devono rafforzarsi alla luce dei “cambiamenti senza precedenti” in atto. Durante l’incontro Xi Jinping ha parlato di un nuovo progetto ferroviario tra i due paesi (la Thailandia ha appena approvato la costruzione della seconda parte della ferrovia per l’alta velocità, un progetto da 10 miliardi di dollari, che collegherà Bangkok con Kunming, in Cina, e che fa parte degli investimenti di Pechino nel paese). I due leader hanno discusso anche di cooperazione nel campo dei veicoli elettrici (la Thailandia è un mercato emergente per il settore) e in quello turistico.
Alla luce di tutto questo, il rimpatrio di giovedì, criticato dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani, è interpretabile come il segnale di uno spostamento di Bangkok verso Pechino, che si prepara a collezionare successi simili via via che gli Stati Uniti perdono credibilità come potenza responsabile (un refrain molto amato da Pechino) anche agli occhi degli alleati. “È ovvio che è stato fatto solo per obbedire alla Cina, dove i mezzi d’informazione statali ora celebrano il successo”, ha detto a The Diplomat Magnus Fiskesjo, docente di antropologia alla Cornell University. “La macchina della propaganda, anche con bot e influencer, è in piena attività”.
Come ha scritto su Bluesky Jim Millward, storico della Georgetown University e massimo esperto di Xinjiang e della questione uigura, se dopo l’avvertimento di Marco Rubio nel suo discorso inaugurale Shinawatra ha consegnato i migranti alla Cina, “l’ipotesi più probabile è che gli Stati Uniti abbiano perso influenza rispetto agli ultimi undici anni”. Millward poi taglia corto sulla lettura data da vari analisti dell’iniziativa di Trump sull’Ucraina: “L’idea che una svolta trumpista filorussa sull’Ucraina aiuti una svolta strategica incentrata sulla Cina è assurda. Ma con lo spostamento della conversazione sui minerali ucraini (palese imperialismo) e altri cambi di linea, Trump ha già minato la posizione degli Stati Uniti nelle situazioni di stallo diplomatico con Pechino in Asia (e altrove). Salvare la vita a questi 48 uomini può sembrare una questione poco rilevante, ma ora Washington non è in grado di fare nemmeno questo. I diritti umani contano nella politica estera statunitense, per ragioni sia di soft power sia di hard power. Se fai a meno dell’uno fai a meno anche dell’altro”.
Quanto a Bangkok, Shinawatra è sotto accusa anche internamente per il tentativo di sdrammatizzare sostenendo che gli uiguri sarebbero tornati in Cina volontariamente, che Pechino ha garantito che non sarà loro torto un capello e che saltuariamente le autorità tailandesi potranno fare delle ispezioni. In ogni caso, passato il relativo clamore su questa vicenda, “bilanciare i rapporti con la Cina e gli Stati Uniti richiederà acrobazie a Shinawatra e al suo governo”, come ricordava qualche giorno fa Francesca Regalado sul Nikkei Asia: da un lato Pechino è il partner principale di Bangkok per le forniture militari e per gli investimenti stranieri, dall’altro gli Stati Uniti sono l’unico alleato militare formale e il primo destinatario delle esportazioni tailandesi.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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