06 luglio 2021 10:42

Il covid-19 è in una fase d’intenso automiglioramento. Da quando è penetrato nella popolazione umana, il sars-cov-2 si è frammentato in centinaia di lignaggi, alcuni dei quali hanno poi prodotto nuove varianti a rapida diffusione. Una versione più infettiva del coronavirus (con il passaggio da D614 a G614) si è presentata la scorsa primavera, prima di cedere il passo alla variante altamente trasmissibile alfa (b.1.1.7). Ora la versione delta (b.1.617.2), potenzialmente la più contagiosa fino a oggi, è pronta ad assumere il primato globale.

Dal punto di vista cronologico il virus sta diventando sempre più bravo nel raggiungere il suo obiettivo primario: infettarci. E gli esperti temono che ci vorrà ancora un po’ prima che il suo potenziale contagioso raggiunga la massima potenza. “Un virus cercherà sempre di aumentare la sua trasmissibilità, se può”, mi ha detto Jemma Geoghegan, virologa evolutiva dell’università di Otago.

Tuttavia per altri aspetti, è molto più difficile fare previsioni e perfino ottenere delle prime conclusioni. I ricercatori non conoscono ancora bene la virulenza delle varianti, una misura che permetterebbe di sapere quali sono quelle che causano più forme gravi della malattia. E se è vero che il grado di contagiosità di un virus può a volte aumentare la sua propensione a uccidere, le due cose non sono affatto legate: i futuri ceppi di coronavirus potrebbero essere più letali, meno letali, o nessuna delle due cose. Continuiamo a cercare di classificare varianti specifiche come “più pericolose”, “più mortali”, o “più problematiche”, ma l’evoluzione virale è un caos che intimidisce e confonde: un intreccio complesso da osservare in tempo reale. “Non possiamo essere compiacenti e dirci che non ci saranno più mutazioni”, mi ha detto Akiko Iwasaki, virologa e immunologa di Yale.

Capriccio biologico
Finché il virus avrà delle persone che lo ospitano da infettare, continuerà a cambiare forma e in modi che non possiamo prevedere completamente. Questo capriccio biologico rende più difficile prevedere quali saranno i prossimi ostacoli pandemici da superare, e valutare i pericoli che ci aspettano. Ma anche il nostro ruolo in questa relazione è importante: ciò che il virus può fare dipende anche molto da noi, il che significa che questo vale anche per la sua evoluzione.

L’obiettivo principale del covid-19 è quello di avvicinarsi a noi. Il suo imperativo biologico è quello d’inserirsi in un padrone di casa adatto, riprodursi e disperdersi, per poi ricominciare il processo altrove. Nell’ultimo anno e mezzo, il covid-19 si è fatto strada in più di 180 milioni di persone, e non è ancora sazio. “La spinta evolutiva di un virus è la trasmissibilità”, mi ha detto Iwasaki. Qualsiasi cambiamento che ne renda più veloce la trasmissione lo aiuterà a prosperare, come un’erbaccia a crescita rapida che si diffonde in un nuovo giardino.

Nessuna prova finora suggerisce che il coronavirus si stia evolvendo sistematicamente per diventare più maligno

Le mutazioni che si verificano nel genoma del sars-cov-2 in gran parte sono irrilevanti, perfino dannose per la campagna di propagazione del virus. Di tanto in tanto, però, un virus si imbatte in un piccolo vantaggio. A parità di condizioni, la variante avrà una marcia in più rispetto alle altre e potrà superarle. Gli epidemiologi che campionano i malati assisteranno a un’impennata di persone infettate da una specifica versione del virus, in percentuale troppo grande e troppo improvvisa per essere solo casuale. Un simile picco ha suggerito ai funzionari della sanità pubblica la presenza della variante alfa poco prima che esplodesse in tutto il mondo. “È passata da zero a mille in pochissimo tempo”, mi ha detto Joseph Fauver, epidemiologo genomico dell’università di Yale. La variante delta ora sembra seguire le orme di chi l’ha preceduta. Si è abbattuta prima sull’India e sul Regno Unito, spodestando varianti meno contagiose, e poi si è diffusa in tutto il mondo.

È meno chiaro come le varianti alfa e delta abbiano effettivamente compiuto la loro ascesa fulminea: il sars-cov-2 ha probabilmente trovato diversi modi per diffondersi in modo più efficace tra quanti la ospitano. Alcune mutazioni potrebbero aver aiutato alfa a incollarsi più facilmente all’esterno delle cellule; altre potrebbero aver aumentato la capacità di delta di accumularsi nelle vie respiratorie, il naturale punto di uscita del virus. Altri cambiamenti genetici, inoltre, potrebbero rendere le varianti specifiche più resistenti, permettendo forse loro di indugiare nel naso, rendendo i loro padroni di casa contagiosi più a lungo.

Un virus efficiente
Queste diverse possibilità possono essere esplorate separatamente in esperimenti condotti in laboratorio su colture cellulari e animali, ma tutte convergono su un unico principio, mi ha detto Angela Rasmussen, virologa presso l’Organizzazione per i vaccini e le malattie infettive di Saskatchewan, in Canada: “Quel che stiamo osservando è un virus sempre più efficiente nel creare altri virus”. Se trascorre una quantità di tempo sufficiente in una persona che lo accoglie, ci si può aspettare che la maggior parte dei virus diventi più trasmissibile; il coronavirus probabilmente non fa eccezione.

Un virus più contagioso potrebbe, a prima vista, sembrare un virus più letale: le sue rafforzate capacità d’invasione potrebbero permettergli di rimanere aggrappato in maniera più forte alla persona che lo ospita, raggiungendo livelli abbastanza alti da sopraffare il corpo. “In quel caso, la trasmissibilità e la virulenza potrebbero aumentare di pari passo”, mi ha detto Paul Turner, virologo e biologo evolutivo a Yale: una questione semplice e chiara. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questa potrebbe essere la logica alla base delle varianti alfa e delta, entrambe collegate a un aumento dei ricoveri.

Ma questi modelli non sono ancora stati definitivamente confermati, ha detto Turner, e nessuna prova finora suggerisce che il coronavirus si stia evolvendo sistematicamente per diventare più maligno. I virus sono entità microscopiche affamate di diffusione, non di massacri. La sofferenza delle persone che li ospitano non è fondamentale per la loro sopravvivenza. Se si verifica un aumento della virulenza, spesso è dovuto a un danno incidentale-collaterale di un aumento della contagiosità.

Il covid-19 si presenterà in maniera diversa in futuro. Ma il nostro rapporto con il virus non dipenderà solo dalle sue peripezie genetiche

La marcia verso la trasmissibilità non sempre porta con sé una maggiore virulenza. Si è scoperto che molte persone trasportano silenziosamente quantità di sars-cov-2 nelle loro vie respiratorie, senza ammalarsi. A volte, le due caratteristiche possono anche scontrarsi, costringendo i virus a diventare meno potenti nel tempo a favore di una diffusione più rapida. Il virus molto virulento del mixoma, un agente patogeno deliberatamente introdotto nei conigli australiani negli anni cinquanta con finalità di biocontrollo, per esempio, sembra essere diventato meno letale nel tempo. Invece di uccidere i conigli all’istante, ha cominciato a prolungare la malattia dei corpi che lo accolgono – e per estensione, la sua stessa finestra infettiva.

Ma il mixoma è più l’eccezione che la regola. I virus più letali o debilitanti come ebola e dengue, ha sottolineato Fauver, non sembrano rallentare con il tempo e si sono diffusi piuttosto agevolmente. Il sars-cov-2 potrebbe avere davvero poche ragioni per attenuare la propria forza, dato che la maggior parte della sua trasmissione avviene prima che appaiano sintomi gravi: “Non sta uccidendo le persone prima che possano trasmetterla a qualcun altro”, mi ha detto Rasmussen. Se i destini della virulenza e della trasmissione del sars-cov-2 non sono strettamente legati, “non si possono fare previsioni responsabili sul modo in cui la virulenza cambierà a breve”, dice Brandon Ogbunu, biologo evolutivo e computazionale a Yale.

Un concetto oscuro
Le varianti alfa e delta potrebbero comunque essere nemici più formidabili di altre varianti. Se stanno generando più malattie, ricoveri e decessi, queste tendenze sono evidentemente degne di attenzione. Ma collegarle con certezza a specifici tratti virali o mutazioni è difficile, in parte perché la virulenza stessa è un concetto oscuro. “È una parola piuttosto fallimentare”, mi ha detto Ogbunu. Dovrebbe esprimere il danno causato a un ospite da un agente patogeno. Ma il danno è soggettivo, e dipende almeno tanto dalla persona che lo ospita quanto dal virus. Se misurare la trasmissibilità può significare semplicemente chiedersi se una variante sia presente e in che misura, analizzarne la virulenza è una ricerca più qualitativa del modo in cui virus e corpo interagiscono, in una serie di ambienti diversi. Se le varianti sono erbacce, la virulenza misura quanto siano dannose, e la risposta può essere pesantemente influenzata dalla delicatezza delle piante da giardino che queste erbacce stanno soffocando.

Ricoveri e decessi, che sono tra i migliori indicatori per misurare la virulenza nel mondo reale, da soli possono fornire dati di complesso utilizzo, dice Müge Çevik, virologo ed esperto di malattie infettive presso l’università di St. Andrews, nel Regno Unito. Non tutti i posti hanno gli stessi standard di cura, o lo stesso accesso alle terapie. I malati potrebbero essere ricoverati in un ospedale a causa di una forma più grave del virus. O a causa di fattori di rischio che li hanno resi più vulnerabili, tanto per fare un esempio.

L’immunità al sars-cov-2 si è inoltre sviluppata nel tempo, il che confonde ulteriormente la valutazione della vulnerabilità. E molte delle difficoltà causate dal covid-19 rimangono fuori delle mura degli ospedali. La difficoltà di paragonare diverse popolazioni può essere in parte un motivo per cui diversi studi che esaminano la gravità della variante hanno talvolta dato risultati discordanti. Il rapido aumento dei casi è a volte un processo che si autoalimenta: quando molte persone si ammalano improvvisamente – magari perché è emersa una variante più trasmissibile – le infrastrutture mediche vengono sopraffatte, e più persone potrebbero morire, anche se il virus in sé non è più potente.

“L’epidemiologia è un campo così vivace, che è molto difficile stabilirlo”, mi ha detto Vineet Menachery, virologo esperto di coronavirus presso la sezione di medicina dell’’università del Texas (i ricercatori concordano oggi generalmente sul fatto che la variante alfa sia più letale di altre varianti; i dati sulla variante delta sono meno certi).

Questo dà ai ricercatori l’onere di catalogare meticolosamente non solo le varianti che ci infettano, ma anche le caratteristiche delle persone che sono colpite più gravemente, dice Rebekah Honce, virologa del St. Jude children’s research hospital. “È una dinamica che coinvolge tre attori: persona (che ospita il virus), agente ( virus) e ambiente: non si può ignorare nessuno dei tre”.

Una comune influenza?
Il covid-19 si presenterà, inevitabilmente, in maniera diversa in futuro. Ma il nostro rapporto con il virus non dipenderà solo dalle sue peripezie genetiche: possiamo aspettarci che le difese immunitarie che erigiamo contro il sars-cov-2 ne modelleranno il percorso evolutivo.

Con le vaccinazioni in aumento in molte parti del mondo, e un minor numero di persone da infettare, il virus sta cominciando a incontrare degli ostacoli e lentamente va spegnendosi. “Vaccinando, stiamo rendendo meno probabile l’emergere di nuove varianti”, mi ha detto Çevik. Alla fine, con il progressivo rafforzamento delle nostre difese collettive, il sars-cov-2 potrebbe diventare una seccatura non peggiore di una comune influenza da coronavirus, che provoca solo sintomi fugaci e irrilevanti nella maggior parte delle persone, i cui corpi hanno già conosciuto una qualche versione di questo agente patogeno, mi ha detto Jennie Lavine, epidemiologa e virologa della Emory university. Questo, naturalmente, rende l’accesso equo ai vaccini ancora più importante, perché fa sì che in luoghi non protetti non sorgano nuovi epicentri di mutazione.

Lasciato a se stesso, il virus potrebbe ipoteticamente anche imbrigliarsi da solo. Ma potrebbe non avere alcun incentivo a farlo. “Contare sul fatto che il virus diventi da solo meno virulento è una cattiva scommessa”, come aspettarsi che un nemico attenui la sua offensiva, mi ha detto Iwasaki di Yale. La mossa migliore è raddoppiare la nostra difesa: lo strumento che già conosciamo meglio.

Esiste una bizzarra puntualizzazione da fare alla campagna vaccinale. Se le inoculazioni non sono di per sé la causa delle mutazioni del sars-cov-2, l’immunità che forniscono può spingere il virus su nuove traiettorie che dobbiamo continuare a monitorare. Un vaccino poco efficace sviluppato per bloccare la malattia di Marek nei polli ha generato in un virus una maggiore trasmissibilità e virulenza, rendendo l’agente patogeno più pericoloso per gli uccelli non vaccinati (non ci sono prove che ciò stia accadendo con il sars-cov-2 e il nostro arsenale di eccellenti vaccini, ma il virus continuerà a rappresentare una minaccia particolarmente grande per coloro che non sono immuni). La pressione dei vaccini potrebbe anche aumentare la diffusione di varianti che sono più in grado di eludere le nostre difese e, forse, di respingere alcuni dei nostri attacchi. Una manciata di varianti, tra cui quella delta, hanno già dimostrato la capacità di schivare certi anticorpi. Un’altra caratteristica, mi ha detto Çevik, che permette al virus di entrare più facilmente nel suo ospite.

Nei prossimi anni dovremo probabilmente armeggiare e modificare le ricette dei nostri vaccini, per tenere il passo con un virus che cambia velocemente. Ma ogni vaccino che lanciamo può potenzialmente bloccare un potenziale nuovo percorso del virus. I genomi virali non sono infinitamente mutevoli: possono modificare solo il materiale di partenza che gli è stato dato, e non possono effettuare certi cambiamenti senza indebolire la loro preziosa capacità di diffusione. Con il tempo, potremmo essere in grado di usare le vaccinazioni in maniera strategica, per spingere il sars-cov-2 su percorsi evolutivi più prevedibili, mi ha detto Turner: “È in questo modo che assumiamo il controllo della situazione”. Se abbiamo intenzione di convivere con questo virus – come è assolutamente necessario fare – allora i vaccini sono la nostra chiave per costruire una relazione sostenibile, una relazione in cui siamo noi a prenderci una rivincita. Possiamo fare in modo che l’evoluzione del virus reagisca a noi, e non il contrario.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.

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