28 ottobre 2022 11:34

Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2018 nel numero 1286 di Internazionale.

Michael Young era un figlio scomodo. Il padre era un musicista e critico musicale australiano; la madre, cresciuta in Irlanda, era una pittrice bohémienne. Erano spiantati, distratti e litigavano spesso. Michael, nato nel 1915, scoprì presto che nessuno dei due aveva molto tempo da dedicargli. Un giorno, vedendo che i genitori sembravano aver dimenticato il suo compleanno, pensò che lo aspettasse una sorpresa. Invece i genitori avevano davvero dimenticato il suo compleanno, il che non era affatto sorprendente. Una volta li sentì per caso parlare della possibilità di darlo in adozione. Come avrebbe raccontato in seguito, non superò mai del tutto la paura dell’abbandono.

Tutto cambiò quando, a quattordici anni, Young fu mandato in un collegio sperimentale a Dartington Hall, nel sud dell’Inghilterra. L’istituto, fondato dai filantropi progressisti Leonard e Dorothy Elmhirst, puntava a cambiare la società trasformando le persone. Per Young fu come essere adottato, perché gli Elmhirst lo trattarono come un figlio, incoraggiandolo e sostenendolo finché vissero. Young si ritrovò di colpo a far parte di un’élite internazionale che cenava con il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e assisteva a conversazioni tra Leonard ed Henry Ford.

Considerato uno dei più importanti sociologi del novecento, Young ha aperto la strada all’esplorazione scientifica moderna delle relazioni sociali della classe operaia britannica. Ma il suo scopo non era solo studiare le classi sociali: voleva ridurre i danni che potevano causare. L’ideale promosso a Dartington Hall (coltivare le personalità e le abilità, qualunque fossero) era ostacolato dalla struttura di classe britannica. Cosa doveva prendere il posto della vecchia gerarchia sociale, così simile al sistema delle caste? Per molti, oggi, la risposta è la meritocrazia, un termine coniato sessant’anni fa proprio da Young per indicare un mondo in cui il potere e il privilegio sono assegnati in base al merito individuale e non alle origini sociali. Ispirati dall’ideale meritocratico, molti condividono una certa visione di come dovrebbero essere organizzate le gerarchie del denaro e del prestigio sociale. Pensiamo che un posto di lavoro debba andare non a chi ha i contatti giusti o la famiglia più influente, ma a chi è più qualificato per quel lavoro, indipendentemente dalla sua estrazione sociale.

A volte ammettiamo delle eccezioni, per esempio nel caso della discriminazione positiva, che aiuta a smantellare gli effetti di una discriminazione precedente. Ma si tratta di eccezioni provvisorie: quando i pregiudizi legati a sesso, etnia, classe e casta spariranno, le eccezioni non saranno più legittimate. Abbiamo respinto la vecchia società di classe e, spostandoci verso l’ideale meritocratico, abbiamo creduto di eliminare ogni traccia lasciata dalle gerarchie del passato. Le cose non vanno esattamente così, e Young l’aveva capito.

Young odiava l’espressione “stato sociale” (diceva che sapeva di acido fenico), ma non aveva ancora trent’anni quando contribuì a crearne uno. Come direttore dell’ufficio ricerche del Partito laburista britannico, scrisse ampie parti del manifesto che contribuì alla vittoria elettorale del 1945. Il manifesto, intitolato Let us face the future (Affrontiamo il futuro), auspicava “la creazione del commonwealth socialista della Gran Bretagna, libero, democratico, efficiente, progressista, dotato di senso civico, le cui risorse materiali siano messe al servizio della popolazione britannica”. Il partito mantenne le promesse: portò a quindici anni l’obbligo scolastico, rafforzò l’istruzione per gli adulti, migliorò l’edilizia popolare, rese gratuita l’istruzione pubblica secondaria, creò un servizio sanitario nazionale e garantì a tutti la previdenza sociale. Fu l’inizio di un netto miglioramento nella vita della classe operaia britannica. I sindacati e le nuove leggi permisero di ridurre l’orario di lavoro degli operai, facendo crescere il loro tempo libero. Grazie all’aumento dei redditi, i lavoratori comprarono televisori e frigoriferi. E le cose cambiarono anche per le fasce più ricche, in parte grazie alle nuove imposte sulle successioni. Nel 1949 il ministro del tesoro laburista Stafford Cripps (che si dà il caso fosse mio nonno) introdusse un’imposta con un’aliquota dell’80 per cento sui patrimoni di almeno un milione di sterline, l’equivalente di 32 milioni di sterline di oggi (più di 35 milioni di euro). Per due generazioni queste riforme sociali garantirono protezione a quelli che facevano parte della classe operaia e permisero ai loro figli di progredire nella scala degli incarichi di lavoro, dei redditi, e quindi, entro certi limiti, anche in quella del prestigio sociale. Young era profondamente consapevole di questi risultati, ma con altrettanta acutezza ne percepiva i limiti.

Indicatori di classe
Dopo la seconda guerra mondiale il numero d’iscritti alle università britanniche esplose. Aver frequentato l’università diventò uno dei principali indicatori di classe. L’appartenenza dei bibliotecari alla classe media, nonostante i loro magri stipendi, era dovuta al fatto che l’istruzione superiore era un requisito della professione. Se gli addetti alla catena di montaggio non avevano lo stesso status, anche se guadagnavano di più, era perché facevano un mestiere che non aveva lo stesso requisito. La coscienza della classe operaia, presente nel nome stesso del Partito laburista britannico fin dalla sua fondazione nel 1900, era nata in un’epoca di mobilitazione, di lavoratori che difendevano i loro interessi. La nuova epoca dell’istruzione, invece, era quella della mobilità sociale, dei colletti blu che diventavano bianchi. La mobilità avrebbe indebolito la coscienza di classe?

Queste domande tormentavano Young, che fondò un istituto per gli studi di comunità nel quartiere londinese di Bethnal
Green, e da lì sostenne la nascita e lo sviluppo di decine di programmi e organizzazioni al servizio dei bisogni sociali che lui stesso aveva individuato. La Consumers’ association fu una sua idea, come anche la rivista dell’associazione, Which?, che esiste ancora. Nel 1969 Young fondò la Open university, che da allora ha avuto più di due milioni di studenti, diventando la principale istituzione accademica nel Regno Unito per numero d’iscritti. L’istruzione, secondo Young, era importante non solo perché permetteva la mobilità sociale, ma perché rendeva le persone cittadini più forti, qualunque fosse la loro condizione sociale, più resistenti agli attacchi degli imprenditori o dei funzionari di governo. In seguito avrebbe perfino creato una scuola per imprenditori sociali. Per anni s’impegnò a rafforzare le reti sociali – il “capitale sociale”, come lo chiamano oggi i sociologi – delle comunità, intimidite da chi rivendica una fetta sempre più grande del potere e delle ricchezze della società.

Young sentiva che le gerarchie di classe avrebbero resistito alle riforme che voleva realizzare. Spiegò in che modo nel suo secondo best seller, L’avvento della meritocrazia, un’opera satirica pubblicata nel 1958. Come molti altri fenomeni, la meritocrazia deve il suo nome a un avversario. Il libro di Young si presentava come un testo scritto nel 2033, in cui uno storico analizzava la nuova società britannica sorta nei decenni precedenti. In quel lontano futuro soldi e autorità si guadagnavano, non si ereditavano. La nuova classe dirigente era determinata dalla formula “quoziente d’intelligenza (qi) + sforzo = merito”. La democrazia avrebbe ceduto il passo al governo dei più intelligenti, “non un’aristocrazia della nascita, non una plutocrazia della ricchezza, ma una vera meritocrazia del talento”. Era la prima volta che la parola “meritocrazia” si leggeva stampata su una pagina, e il libro voleva mostrare come sarebbe stata una società costruita su questo principio.

L’idea di Young era decisamente distopica. Se la ricchezza riflette sempre di più l’intrinseca distribuzione del talento naturale, e se i ricchi sempre più spesso si sposano tra loro, la società finisce per dividersi in due grandi classi, in cui ognuno crede di avere quello che si merita. Young immaginava un paese in cui “le persone illustri sanno che il successo è una giusta ricompensa per le loro capacità e i loro sforzi”, e dove chi occupa i gradini più bassi sa di non aver sfruttato tutte le opportunità che gli sono state date. “Sono stati messi più volte alla prova. Se sono stati ripetutamente bollati come ‘somari’, non possono più avere pretese. L’immagine che hanno di se stessi si avvicina a un riflesso fedele e poco attraente”, scriveva Young. Uno dei primi intoppi del sistema è che “quasi tutti i genitori proveranno a favorire in modo sleale i figli”. E in una situazione di disparità dei redditi, è proprio una delle cose che i soldi permettono di fare. Se le condizioni economiche dei genitori contribuiscono a determinare i compensi dei figli, non siamo più in una società basata sulla formula “qi + sforzo = merito”.

Come sappiamo, i timori di Young erano fondati. Tra le famiglie statunitensi, il 20 per cento più ricco ha visto aumentare i suoi redditi lordi di quattromila miliardi di dollari tra il 1979 e il 2013, mille miliardi di dollari in più rispetto a quanto registrato dal resto delle famiglie. Quando gli Stati Uniti e il Regno Unito introdussero misure per favorire l’accesso all’istruzione superiore, si pensò che avrebbero portato più uguaglianza. Ma un paio di generazioni dopo, spiegano gli esperti, l’istruzione superiore è diventata un fattore di stratificazione sociale. Gli economisti hanno scoperto che molte università frequentate dalle élite (tra cui Brown, Dartmouth, Penn, Princeton e Yale) accolgono più studenti dall’1 per cento della società appartenente alla fascia di reddito più alta che dal 60 per cento più in basso. In poche parole, uno dei modi migliori per conquistare un posto tra chi ha più soldi, potere e privilegi è partire da lì. “La meritocrazia statunitense”, sostiene Daniel Markovits, docente di diritto a Yale, è “diventata esattamente quello che era nata per combattere: un meccanismo di trasmissione dinastica di ricchezze e privilegi”.

Michael Young, morto nel 2002 a 86 anni, era consapevole di tutto questo. “L’istruzione ha messo il suo sigillo di approvazione su una minoranza”, scriveva, “e il suo sigillo di disapprovazione sulle tante persone che non riescono a brillare dopo essere finite nelle classi per alunni meno capaci, a sette anni o anche prima”. Quelli che dovevano essere meccanismi di mobilità erano diventati fortezze di privilegi. Young aveva visto affermarsi una schiera di meritocrati interessati solo al profitto, insopportabilmente compiaciuti di sé, molto più di chi sa di aver raggiunto un traguardo perché figlio o figlia di qualcuno. In certi casi questi nuovi arrivati credono perfino di avere la morale dalla loro parte. La corazza del “merito”, osservava Young, aveva solo reso i vincitori insensibili alla vergogna e al biasimo.

Una corrente del populismo
Gli statunitensi, a differenza dei britannici, non parlano molto della coscienza della classe operaia. C’è chi sostiene che tutti gli statunitensi si considerino parte della classe media. In realtà non è più così. In un’indagine condotta nel 2014 dal National opinion research center, erano di più le persone che si consideravano appartenenti alla classe operaia. Una corrente del populismo che ha portato al potere Donald Trump è stata espressione del risentimento verso una classe definita dalla sua istruzione e dai suoi valori, cioè verso i cittadini cosmopoliti e pluridiplomati che dominano il mondo dell’informazione, della cultura e delle professioni specialistiche. Come ha sottolineato Nat Silver poco dopo le elezioni del 2016, Hillary Clinton ha conquistato le cinquanta contee più istruite, Trump le cinquanta meno istruite. I populisti pensano che le élite di sinistra disprezzino i cittadini comuni, ignorino le loro preoccupazioni e usino il potere a loro vantaggio. Forse non usano l’espressione “classe sociale superiore”, ma gli indicatori che usano per definire quelle élite – soldi, istruzione, relazioni, potere – avrebbero permesso di identificare la media e alta borghesia del novecento.

Molti elettori bianchi della classe operaia provano un senso di inferiorità, che deriva dall’assenza d’istruzione formale, e questo può influire sulle loro posizioni politiche. Negli anni settanta i sociologi Richard Sennett e Jonathan Cobb analizzarono questi atteggiamenti in un saggio dal titolo memorabile, The hidden injuries of class (Le ferite di classe nascoste). Questo senso di vulnerabilità non impedisce di sentirsi superiori in altri modi. Al contrario: gli uomini della classe operaia spesso considerano gli uomini della media e alta borghesia deboli o indegni. Eppure una parte significativa di quella che chiamiamo classe operaia bianca statunitense si è convinta di non meritare le opportunità che le sono state negate.

Anche se accusano le minoranze di essere ingiustamente favorite nella ricerca del lavoro o nella distribuzione dei sussidi, queste persone non trovano ingiusto il fatto di non poter fare i lavori per i quali non pensano di essere qualificate, o che siano pagati di meno i lavori per cui sono qualificate. Secondo loro, le minoranze vivono di aiuti e, secondo alcuni uomini, anche le donne sono ingiustamente avvantaggiate. Ma nessuno crede che la soluzione sia chiedere più aiuti per sé. Piuttosto considerano il modo in cui sono trattate le minoranze un’eccezione alla regola generale: per loro gli Stati Uniti sono in gran parte (e dovrebbero esserlo del tutto) una società in cui le opportunità vanno a chi se le è guadagnate.

Se un nuovo sistema dinastico sta prendendo forma, potremmo dedurne, come molti fanno, che la meritocrazia ha fallito, perché non è stata abbastanza meritocratica. Se il talento è valutato in modo efficace solo nelle fasce di reddito alte, forse è perché non siamo stati capaci di realizzare l’ideale meritocratico. Non sarà possibile far avere a tutti dei bravi genitori, ma potremmo promuovere in modo più deciso il merito, garantendo che ogni bambino abbia gli stessi vantaggi nel campo dell’istruzione e impari le stesse abilità sociali che le famiglie di successo oggi custodiscono per i figli. Perché non potrebbe essere questa la risposta giusta?

Perché, spiegava Young, il problema non è solo il modo in cui sono distribuiti i premi sociali. Il problema sta nei premi stessi. Un sistema di classe filtrato dalla meritocrazia resta un sistema di classe: implica una gerarchia di rispetto sociale, riconoscendo dignità a chi sta in cima ma negando il rispetto (degli altri e di sé) a chi non ha ereditato il talento e le capacità necessari, combinati con una buona istruzione, per accedere alle professioni più retribuite. Per questo gli autori del suo immaginario Manifesto di Chelsea (che nell’Avvento della meritocrazia dovrebbe essere l’ultimo atto di resistenza contro il nuovo ordine) chiedono una società che “agisca sulla base di una pluralità di valori”, tra cui la gentilezza, il coraggio e la sensibilità, in modo che tutti abbiano l’opportunità di “sviluppare le proprie capacità per condurre una vita ricca”. Sostenere l’equazione “qi + sforzo = merito” vuol dire promuovere una più ampia disuguaglianza.

Il rispetto di sé
Questa visione del mondo alternativa, in cui ognuno di noi parte dalle proprie capacità e persegue traguardi diversi, con il rispetto di sé che ciascun traguardo implica, Young l’aveva imparata a Dartington Hall. Il suo grande impegno a favore dell’uguaglianza sociale può sembrare donchisciottesco, come certi progetti scolastici utopistici, eppure nasce da una riflessione filosofica profonda. Il compito centrale dell’etica è chiedere cosa voglia dire vivere bene. Una risposta plausibile è che vivere bene significa affrontare la sfida posta da tre cose: le nostre capacità, le circostanze in cui nasciamo e i progetti che consideriamo importanti. Dal momento che ognuno di noi nasce in circostanze e con capacità diverse, e poiché scegliamo progetti diversi, affrontiamo tutti sfide diverse. Non esiste una misura di valutazione comparativa che permetta di stabilire se la mia vita è migliore della tua. Young aveva ragione quando criticava l’idea secondo cui le “persone possono essere inserite in una graduatoria fondata sul valore”. Quello che conta, alla fine, non è come ci classifichiamo rispetto agli altri. Non dobbiamo trovare qualcosa che facciamo meglio di chiunque altro. Quello che conta, per chi abbraccia la filosofia di Dartington Hall, è semplicemente che facciamo del nostro meglio.

Young aveva capito che l’ideale della meritocrazia confonde due problemi distinti. Il primo riguarda l’efficienza, il secondo il valore umano. Se vogliamo che le persone svolgano lavori complessi che richiedono talento, istruzione, impegno, formazione e pratica, dobbiamo individuare i candidati con la giusta combinazione di capacità e disponibilità e dargli degli incentivi perché si formino e facciano pratica.

Visto che le opportunità di istruzione e di lavoro saranno limitate, dovremo trovare un modo per distribuirle, dei princìpi di selezione per assegnare le persone ai posti di lavoro. E dovremo trovare anche gli incentivi giusti per garantire che il lavoro necessario sia svolto. Se questi princìpi di selezione saranno pensati bene, potremo dire che chi risponde ai requisiti per entrare in una certa scuola o ottenere un certo lavoro “merita” di occupare quel posto. Si tratta, per usare l’utile gergo dei filosofi, di una questione di “merito istituzionale”. Le persone meritano quei posti proprio come chi compra un biglietto vincente della lotteria merita la vincita: posti e vincita sono ottenuti applicando un preciso insieme di regole.

Il merito istituzionale, però, non ha niente a che vedere con il valore intrinseco delle persone ammesse in un’università o assunte per un lavoro, proprio come chi vince alla lotteria non ha più meriti di chi perde. Anche ai massimi livelli di successo entrano in gioco molte circostanze casuali. Se Einstein fosse nato un secolo prima, forse non avrebbe dato nessun contribuito fondamentale al suo campo di ricerca. Lo stesso può dirsi di Mozart, se fosse nato alla fine dell’ottocento e avesse fatto musica dodecafonica. Nessuno dei due avrebbe potuto sviluppare le sue inclinazioni se fosse cresciuto tra i nukak in Amazzonia.

Dobbiamo dedicarci a una cosa nuova: eliminare il disprezzo verso chi è svantaggiato dall’etica di una competizione basata sull’impegno

Naturalmente anche la capacità di lavorare duramente è il frutto dell’educazione e di qualità innate. Quindi né il talento né l’impegno sono qualcosa che uno si guadagna. Chi, per riprendere la prosaica espressione dell’Avvento della meritocrazia, è stato ripetutamente “bollato come ‘somaro’” ha comunque delle capacità e può affrontare la sfida di condurre una vita piena di significato. La vita di chi non ha successo non ha meno valore della vita degli altri, ma non perché ha lo stesso valore o un valore maggiore. Semplicemente, non esiste nessun modo ragionevole di paragonare il valore delle vite umane.

Se mettiamo da parte la controversa nozione di “merito”, il quadro appare più semplice. Il denaro e il prestigio sociale sono premi che possono incoraggiare le persone a fare le cose che richiedono un impegno. In una società ben congegnata le capacità sono sviluppate, stimolate e messe in campo in modo efficiente. La spartizione di ricchezza e prestigio è inevitabilmente iniqua, perché solo così questi premi sociali possono svolgere il loro ruolo e incentivare determinati comportamenti umani. Tuttavia è sbagliato negare non solo il merito ma anche la dignità di chi, nella lotteria genetica e nelle circostanze storiche della sua situazione, ha avuto meno fortuna.

Certo, le persone vorranno inevitabilmente condividere soldi e prestigio con quelli che amano, cercando di ottenere dei premi economici e sociali per i figli. Ma per procurare dei vantaggi ai nostri figli, non dovremmo negare una vita decente ai figli degli altri. Ogni bambino dovrebbe avere accesso a una buona istruzione, adeguata alle sue capacità e alle sue scelte. Ogni bambino dovrebbe riuscire ad avere rispetto di sé. Sappiamo benissimo come continuare a democratizzare le opportunità di progresso, anche se è poco probabile che succeda nell’attuale contesto politico britannico e statunitense. Eppure queste misure erano previste nella distopia meritocratica di Young, dove il peso dell’eredità era destinato a sparire. Il suo messaggio più profondo era che dobbiamo anche dedicarci a una cosa nuova: eliminare il disprezzo verso chi è svantaggiato dall’etica di una competizione basata sull’impegno.

“È ragionevole assegnare gli incarichi di lavoro alle persone in base al merito”, scriveva Young. “È invece irragionevole quando le persone a cui si riconosce un certo merito si consolidano in una nuova classe sociale che non lascia spazio ad altri”. Lo scopo non è eliminare le gerarchie e spianare la società. Viviamo in un mondo pieno di gerarchie incommensurabili, e la circolazione della stima sociale avvantaggerà sempre il miglior romanziere, il matematico più importante, l’uomo d’affari più in gamba, il corridore più veloce, l’imprenditore sociale più efficace. Non possiamo controllare del tutto la distribuzione del capitale economico, sociale e umano, né eliminare i complessi schemi formati dal sovrapporsi di queste reti. Ma le identità di classe non devono per forza interiorizzare le ferite di classe. Rivedere i modi in cui concepiamo il valore umano, ponendolo al servizio dell’uguaglianza morale, resta un’impresa collettiva urgente.

Può sembrare utopistico, e lo è senz’altro, se si considera quest’idea nel suo insieme. Ma nessuno era più pragmatico di Young, creatore d’istituzioni per eccellenza. Certo, le inquietudini della sua coscienza erano una reazione sia al suo vissuto sia al sistema in cui viveva. Ricoverato in ospedale per un tumore in fase terminale, si preoccupò di sapere se gli immigrati africani che per conto di una ditta subappaltatrice distribuivano i pasti nell’istituto ricevevano il salario minimo. Ma la sua compassione era indissociabile da un vigoroso spirito pratico. Non si limitava a sognare di ridurre i privilegi ereditari. Realizzò delle misure concrete per limitarli, nella speranza che tutti i cittadini avessero la possibilità di sviluppare le loro “particolari capacità di condurre una vita ricca”. Era quello che lui stesso aveva fatto. Nel futuro immaginario dell’Avvento della meritocrazia, esisteva ancora una camera dei lord, ma era occupata unicamente da persone che si erano distinte per il loro contributo alla società (oggi la camera alta del parlamento britannico è composta in parte da persone con un titolo nobiliare ereditario o una carica ecclesiastica). Se c’è una persona che avrebbe meritato un posto in quell’immaginaria assemblea, è proprio Michael Young.

La camera dei lord
Quell’assemblea era agli antipodi della camera dei lord che Young aveva conosciuto da giovane, ed è probabilmente uno dei motivi per cui negli anni quaranta il suo mentore, Leonard Elmhirst, rifiutò il titolo nobiliare. Come disse alle persone che frequentava, “accettare sarebbe stata una scelta difficile da spiegare, per me, e da capire, per i miei amici”. È quindi sorprendente che Young, quando gli fu proposto il titolo nel 1978, lo accettò. Naturalmente scelse per sé quello di barone Young di Dartington, per rendere omaggio all’istituzione che aveva servito come amministratore da quando aveva 27 anni.

Young sfruttò quell’opportunità per parlare dei temi che gli stavano a cuore nella camera alta del parlamento britannico. Per ironia della sorte, una delle principali ragioni per cui accettò il titolo (“con la dovuta cautela”, spiegava ai suoi amici) era che faceva fatica a pagarsi gli spostamenti tra Londra e la sua casa di campagna. I lord non solo ricevevano una diaria quando erano presenti alla camera, avevano anche diritto a una tessera per viaggiare gratuitamente in treno. Michael Young entrò nell’aristocrazia perché aveva bisogno di soldi.

(Traduzione di Francesca Spinelli)

Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2018 nel numero 1286 di Internazionale.

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