20 luglio 2018 13:18

Questo articolo è uscito il 24 febbraio 2012 nel numero 937 di Internazionale, a pagina 43. L’originale era uscito su The Virginia Quarterly Review con il titolo India’s vanishing vultures.

All’inizio nessuno si era accorto della loro assenza. Gli avvoltoi – goffi e massicci, il collo nudo curvo sulla carne putrefatta ai bordi delle strade, sulle rive del Gange, ai piedi delle mura e dei pinnacoli di ogni tempio e di ogni torre – un tempo erano così onnipresenti che in India nessuno li notava, erano invisibili. E qualcosa, dentro di noi, non voleva vederli. Gli avvoltoi sono universalmente privi di fascino, con la loro testa grigia senza piume, la fronte pronunciata che disegna un cipiglio perenne, l’enorme becco senza punta in grado di scheggiare le ossa. Vomitano quando si sentono minacciati e puzzano di morte. Nell’Asia del sud possono raggiungere i due metri e mezzo di apertura alare e mentre volteggiano, attratti dal lezzo di una carogna putrefatta, proiettano un’ombra immensa.

In tutto il mondo questi voraci saprofagi suscitano disgusto e sono associati alla morte. E noi, istintivamente, voltiamo lo sguardo. Ma in tutta la storia dell’uomo, gli avvoltoi hanno sempre servito l’India fedelmente. Ripulivano le campagne sgombrando i campi dalle vacche e dalle capre morte. Si libravano sulle città alla ricerca di cadaveri sulle strade e si cibavano dei rifiuti disseminati da una popolazione in continuo aumento. In un subcontinente dove costumi e tradizioni culturali e religiose limitano il contatto fisico con i morti, umani o animali che siano – i musulmani non mangiano bestie che non siano state uccise secondo il metodo halal, gli indù non possono consumare carne di manzo –, gli avvoltoi erano un sistema di smaltimento naturale ed efficiente. A Mumbai i parsi (un gruppo religioso che non ammette la cremazione e la sepoltura) mettono i loro morti sulle torri del silenzio perché gli avvoltoi li consumino secondo un rito conosciuto come “sepoltura celeste”. A New Delhi sciamavano sulle discariche della città. Ma oggi gli avvoltoi in India sono quasi scomparsi.

Vibhu Prakash, il principale studioso della Società di storia naturale di Bombay (Bnhs), ha notato i primi segnali della loro scomparsa già una quindicina di anni fa. Nel 1984 aveva studiato la popolazione ornitologica del parco nazionale di Keoladeo, vicino a New Delhi, registrando 353 coppie di avvoltoi con nido. Quando tornò, nel 1996, erano meno della metà. “C’erano molti nidi vuoti e avvoltoi morti ovunque: sotto i cespugli, appesi agli alberi, nei nidi”, racconta Prakash. Nel 1999 non rimaneva più nemmeno una coppia. La Bnhs lanciò l’allarme e i biologi di tutto il paese confermarono che le tre specie più diffuse nell’Asia del sud – l’avvoltoio dal becco sottile (gyps tenuirostris), il grifone del Bengala o grifone dorsobianco orientale (gyps bengalensis) e l’avvoltoio indiano o beccolungo (gyps indicus) – stavano morendo in tutta la regione.

Il grifone del Bengala un tempo era il rapace più diffuso nell’intero subcontinente indiano. “Erano così tanti che non riuscivamo a contarli uno a uno”, spiega Prakash. “Ne vedevamo volare a centinaia e li contavamo a decine o a gruppi di cinquanta”. Secondo i calcoli degli scienziati, negli anni ottanta trenta milioni di grifoni del Bengala volavano sull’Asia del sud sospinti dalle correnti ascensionali. Ora ce ne sono undicimila.

Nel 2000 l’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn) dichiarò che tutte e tre le specie erano a grave rischio di estinzione, e la comunità scientifica indiana si rivolse ai colleghi di altri paesi per individuare le cause della catastrofe. Inizialmente si pensò a una malattia infettiva o alla bioaccumulazione di pesticidi, simile agli effetti devastanti del ddt sugli uccelli predatori di mezzo secolo prima in Europa e in Nordamerica. Giravano voci che accusavano gli statunitensi – “così tecnologicamente avanzati”, come amano scherzare gli indiani – di aver prodotto qualche nuova sostanza chimica che stava uccidendo gli avvoltoi. Dopo il disastro provocato dalla Union Carbide a Bhopal, è difficile accusare gli indiani di essere prevenuti. Ma è stato proprio un americano, Lindsay Oaks, microbiologo della Washington State University, a riuscire a isolare la causa del disastro nell’aprile 2003.

Le tre specie di avvoltoi stavano morendo perché si nutrivano di carcasse di animali trattati con il diclofenac, un analgesico leggero simile all’aspirina o all’ibuprofene. Dopo averlo assunto per decenni, nei primi anni novanta gli indiani avevano cominciato a usarlo per alleviare le sofferenze di animali con gli zoccoli spaccati o le mammelle gonfie. Per ragioni sconosciute, gli avvoltoi che si nutrono di animali trattati con diclofenac sviluppano la gotta viscerale, un’insufficienza renale incurabile che provoca una cristallizzazione diffusa nei loro organi interni. La morte arriva nel giro di poche settimane.

Anche dopo la scoperta, ci sono voluti due anni perché il governo indiano proibisse la vendita di diclofenac a scopi veterinari. Ma gran parte dei negozi per animali lo vende ancora sotto banco. Così nella regione gli avvoltoi sono diminuiti del 97 per cento – il più catastrofico crollo di popolazione aviaria da quando le armi da fuoco spazzarono via il piccione migratore. Solo quindici anni fa c’erano almeno cinquanta milioni di avvoltoi nel subcontinente indiano. Oggi, secondo la britannica Royal society per la protezione degli uccelli, in natura sopravvivono meno di 60mila individui delle tre specie, e un recente censimento promosso dal governo indiano, il primo dopo tre anni, ha dato risultati ancora più sconfortanti.

Alcuni parsi sono disposti a consentire sepolture o cremazioni, pur di trovare un rimedio all’assenza degli avvoltoi

Ora che non è più un mistero l’India deve trovare il modo di proteggere il suo più importante saprofago o i rischi per la salute degli esseri umani saranno incalcolabili. Gli avvoltoi un tempo sgombravano il paesaggio da malattie come tubercolosi, brucellosi, afta epizootica. I forti acidi gastrici e l’alta temperatura corporea consentono loro di ingerire senza problemi persino una carcassa infettata dall’antrace. Il timore è che con la scomparsa degli avvoltoi queste malattie si diffonderanno non solo tra gli animali ma anche tra gli uomini.

L’arca di Manu
Viaggio in treno per cinque ore a nord di New Delhi per raggiungere il Centro di riproduzione e preservazione degli avvoltoi di Pinjore. Qui Vibhu Prakash guida una squadra che sta tentando di far riprodurre 238 avvoltoi in cattività. Una jeep mi trasporta per gli ultimi chilometri sull’ampio letto di un fiume asciutto fino all’oasi protetta di Bir Shikargah. Le macache mulatte dal sedere rosso formano una vera e propria falange lungo la strada: aspettano di essere nutrite dagli indù che le venerano come incarnazione locale del loro dio-scimmia, Hanuman. Senza preavviso, l’autista sterza bruscamente e la macchina lascia la strada per imboccare un viottolo non più largo della nostra jeep. Il cancello di ingresso è poco più avanti.

Su una superficie di un paio d’ettari concessa dal governo, Prakash, sua moglie Nikita e uno staff di dieci collaboratori gestiscono uno dei centri del programma di allevamento della Bnhs, dove buona parte degli animali da riproduzione vive in tre grandi voliere di cemento. È una versione dell’arca a misura di avvoltoio. Nella versione indù del diluvio universale, fu l’eroico re Manu, figlio del Sole, a ricevere l’incarico di salvare gli animali del mondo in una grande nave. Manu, come il Noè del mondo occidentale, divenne il custode di una miniera genetica.

Aperto nel 2004, il centro di Pinjore doveva essere la prima delle quattro strutture previste dal piano per il salvataggio dell’avvoltoio messo a punto dal governo indiano. Ne sono state aperte solo altre due, e solo Pinjore si avvicina all’obiettivo fissato dal piano, quello di allevare 25 coppie di ciascuna delle tre specie di gyps. Secondo Prakash, oggi tutto dipende da questo centro.

Appena il mio autista varca il cancello, arrivano le capre morte. Due volte alla settimana Prakash riceve alcune capre non trattate con diclofenac da dare in pasto agli avvoltoi. I collaboratori scaricano otto carcasse dal retro della jeep. Si annodano alla vita il grembiule di plastica e agganciano alle orecchie la mascherina sanitaria, ma le mani sono nude e ai piedi hanno un paio di sandali. Fanno a pezzi le capre a colpi di machete. Questa carne è la spesa principale sostenuta dal centro. Ogni mese occorrono migliaia di dollari per nutrire gli uccelli, più che per pagare tutto lo staff. La mancanza di finanziamenti è un problema costante e minaccia la riuscita del progetto. È molto più facile convincere i donatori ad aprire il portafoglio per tigri ed elefanti che per rapaci che si nutrono di carogne.

Gli assistenti infilano le carcasse in alti secchi azzurri e scompaiono a coppie verso le voliere nei boschi circostanti. Per non disturbare gli avvoltoi, aprono un portello sul lato lungo della costruzione e ci infilano dentro le carcasse. È il periodo della riproduzione e anche se alcuni uccelli si sono abituati a queste piccole intrusioni, gli altri potrebbero innervosirsi, con il rischio che distruggano le uova o abbandonino la covata. Depongono un unico uovo all’anno, ma non sempre, e questo è un rischio che il centro non può permettersi di correre. Dato che le voliere sono interdette ai visitatori, mi dirigo con Nikita, la moglie di Prakash, una donna minuta dall’aspetto giovanile, a osservare gli avvoltoi dorsobianco dalla tv a circuito chiuso.

Allevare gli avvoltoi in cattività è un esperimento azzardato, e la biologia va contro ogni probabilità di successo. Fra i 32 avvoltoi che osservo nell’uccelliera dei dorsobianco ci sono solo 12 coppie. Costruiscono il nido per sei settimane prima che la madre deponga l’uovo. Insieme, i genitori lo tengono al caldo per due mesi e, se l’uovo si schiude, alimentano il piccolo nel nido per altri quattro mesi prima del volo inaugurale. Ci vogliono cinque anni perché i giovani avvoltoi arrivino alla maturità sessuale. Il processo è lento e i risultati sono minimi: negli ultimi tre anni a Pinjore ne sono stati allevati con successo solo 17, un numero insufficiente per fermare il declino della specie.

Dieci minuti dopo la consegna delle capre, il primo avvoltoio si avvicina a una delle carcasse. Un minuto dopo sono dieci, e un minuto dopo ancora la capra è completamente nascosta da un consesso di avvoltoi: dorso voltato, ali spiegate, teste che si muovono su e giù, penne che brillano al sole. È uno spettacolo brutale e primitivo. Nikita mi spiega che sono aggressivi con la carne, ma non l’uno con l’altro. Nel giro di altri dieci minuti l’eccitazione si è già placata. Le ossa nude sporgono dalla carne semidivorata, e un uccello con una sola ala si arrampica sopra la carcassa. Sazi, quasi tutti gli avvoltoi si allontanano dalle carcasse. Uno se ne sta placidamente appollaiato con le ali e la coda che ricadono fino alla punta degli artigli come la lunga veste di una dama. Il soffice anello di piume che circonda il collo nudo e sottile gli dona un aspetto rinascimentale. “È così bianco, come la neve”, osserva Nikita sorridendo dolcemente.

Un tempio vicino al sito per la cremazione dei defunti a Varanasi, 2005. (Henk Braam, Hollandse-Hootge/Contrasto)

Trovo contagioso l’evidente amore di Nikita per questi uccelli. Sento la stessa intima meraviglia che provo quando osservo qualunque creatura da vicino, ma c’è qualcos’altro, una specie di nostalgia preventiva, il dolore per qualcosa che presto non ci sarà più. “Venga, le faccio vedere”, mi dice Vibhu Prakash.

Tornando all’aperto, mi accorgo che il cielo si è rannuvolato. Il pasto ha eccitato gli avvoltoi, e la foresta risuona dei loro versi striduli. Lo stridore svanisce quando Vibhu mi conduce lungo un sentiero fino a un recinto coperto. L’uccello C99 è stato trovato in un campo a 80 chilometri di distanza ed è stato portato qui da una famiglia del villaggio. Lo sbircio tra le assi di bambù. “Era così debole”, racconta Vibhu bisbigliando, “che potevi avvicinarti e prenderlo in braccio”. Ma quando gli hanno dato della carne, cruda e rossa, l’avvoltoio si è messo a mangiare e ben presto ha recuperato le forze. Forse aveva mangiato pesticidi o altre sostanze chimiche, ma almeno non il diclofenac, altrimenti sarebbe morto. “È ancora troppo abituato agli uomini”, mormora. “Gli altri vomiterebbero per reazione alla nostra presenza”.

Senza tigri ed elefanti, l’equilibrio ecologico può ancora reggere. Ma nessuno può sostituire gli avvoltoi. Sono spazzini molto efficienti

Si volta e torna in ufficio. Vibhu è vicino ai cinquant’anni, ha la faccia tonda e modi dolci, ma la sua voce si alza quando parla degli avvoltoi, quegli uccelli che non aveva mai studiato a fondo finché non hanno cominciato a sparire. “Senza tigri ed elefanti, l’equilibrio ecologico può ancora reggere: il loro ruolo ormai lo svolgono soprattutto gli uomini. Ma nessuno può sostituire gli avvoltoi. Sono spazzini molto efficienti. Nessuno sarà mai in grado di riempire quella nicchia”.

Qualcuno ha criticato il lavoro di Prakash con la Bnhs, sostenendo che è sbagliato allevare avvoltoi in cattività e che la Bnhs deve avere qualche interesse non meglio precisato. Prakash sa bene che l’allevamento in cattività è un processo lungo e che può rivelarsi inefficace, ma non vede soluzioni migliori. “Sarebbe bello poterne fare a meno”, commenta. “Allevare questi animali è dura”. E anche se la riproduzione dovesse funzionare, se la Bnhs riuscisse a raccogliere i fondi e a trovare biologi disposti a fare questo lavoro poco riconosciuto, perfino se gli avvoltoi accettassero i loro nuovi spazi, cosa succederebbe? Non c’è speranza di rimetterli in libertà con successo, a meno che il diclofenac non sia completamente eliminato dall’ambiente. Ogni anno ci saranno più avvoltoi da curare e l’arca dovrà espandersi, eppure le acque del diluvio continuano a salire ogni volta che un agricoltore fa un’iniezione di diclofenac a una mucca malata.

Rameshewar abita a un centinaio di metri da una superficie di due ettari coperta di carcasse. Vive con la famiglia ai bordi della discarica di Jorbeer, alla periferia di Bikaner, una città di mezzo milione di abitanti nel deserto di Thar, nel Rajasthan occidentale. Un tempo qui alloggiava un grande corpo di cammellieri. I militari ormai sono passati a mezzi di trasporto più moderni, ma ci sono ancora decine di cammelli che brucano nei terreni circostanti. Dopo la partenza dei cammellieri, apparve la discarica di carcasse: per la città era un posto comodo dove abbandonare vacche morte, bufali, capre e cammelli.

“Vivo qui da quattro anni con mia moglie e quattro figli”, racconta Rameshewar. “Queste sono le mie quattro capre, che teniamo per il latte. Ogni giorno arrivano dei trattori che scaricano carcasse”. Due volte al giorno, quando arrivano le carcasse, Rameshewar e sua moglie Pandevi le spellano con un coltello e poi le lasciano agli animali e agli elementi. Insieme ammucchiano le pelli trattate con una sostanza essiccante sotto alcune tettoie accanto alla loro abitazione, una baracca con il tetto di paglia inclinato da un lato e una piattaforma esterna di terra battuta con un camino scavato che funge da cucina. Fuori, al sole, tra la polvere del deserto, spuntano zoccoli di capra, code, una scarpa e i sacchetti di plastica che fanno ormai parte del paesaggio indiano.

La comparsa dei cani
Rameshewar è magro e scavato, mentre sua moglie Pandevi è piena e rotonda. Sorride sempre, la pelle scura che contrasta con il vestito arancione sgargiante. La sua unica preoccupazione, a quanto pare, è la presenza sempre più minacciosa dei cani selvatici. “Ce ne sono tanti in giro, a due o tre chilometri da Jorbeer”, racconta con voce stridula. “Di notte, se devo uscire per un bisogno, prendo un bastone”, continua.

Secondo uno studio, il 70 per cento dei decessi mondiali causati dalla rabbia è concentrato in India, dove si registrano oltre 17 milioni di morsi di cane all’anno. Nel decennio della grande moria di avvoltoi, dal 1992 al 2003, una stima indicava che la popolazione di cani era aumentata di un terzo, fino a raggiungere i trenta milioni. L’aumento della popolazione canina coincide perfettamente con la scomparsa degli avvoltoi indiani.

Una sposa a Varanasi. (Henk Braam, Hollandse-Hootge/Contrasto)

Un funzionario forestale mi dice che a Jorbeer non ci sono più di 150 cani randagi; Rameshewar calcola che siano duemila. La cifra reale, probabilmente, è a metà strada. Cerco di fare un rapido calcolo, ma nel calore di mezzogiorno i cani sono sparsi in giro a cercare l’ombra dei cespugli e degli alberi di acacia, dieci qui, tre là, venti che cercano di guadagnare posizioni intorno all’ultima carcassa, scacciando gli uccelli che si avvicinano troppo.

Una femmina, con le mammelle che pendono basse, mostra i canini a un paio di altre cagne, difendendo i suoi tre cuccioli che sgambettano tra le carogne. Mentre passo, i cani alzano gli occhi e ringhiano a una trentina di metri di distanza. La maggior parte sembra stranamente in buona salute, con grossi muscoli, diversi dagli scheletrici randagi impauriti che si vedono di solito sulle strade dell’India. Solo alcuni sembrano molto malati. Altri sono completamente senza pelo, con la pelle penzolante, le costole sporgenti. Sono i cani che hanno contratto la dermatite, che si diffonde rapidamente nella popolazione e uccide fino al 40 per cento del branco. Questa infezione mortale comincia ad apparire anche nelle gazzelle che attraversano Jorbeer, probabilmente contratta dai cani. Malgrado questo alto tasso di mortalità, il numero dei cani continua a crescere. Se un tempo c’erano dieci cani ogni cento avvoltoi, oggi il rapporto è capovolto.

Due giorni dopo torno alla discarica con Jitu Solanki, un biologo locale che si guadagna da vivere gestendo una pensioncina e organizzando safari nel deserto. Viene spesso alla discarica per osservare gli uccelli e me li indica uno dopo l’altro. Ci sono grandi nibbi neri, corvi gracchianti e alcuni avvoltoi cinerei. Solanki non ha paura dei cani randagi, ma scendendo dalla sua piccola auto cerca di proteggermi. Sta ancora identificando i vari tipi di uccelli quando i cani improvvisamente si agitano e si mettono ad abbaiare, riunendosi insieme nell’attesa di qualcosa che non riusciamo a intuire. Lui si ferma a metà frase e li osserva. “Sei preoccupato per i cani?”, gli chiedo. Mi guarda con aria grave e risponde seccamente: “Sì”. La sua stima, e mi sembra quella più convincente, è che siano un migliaio. “I cani sono un grosso problema. Sono davvero troppi, ma qui i cani non li uccidono. Per gli indù, lo sai, c’è sempre qualcosa di divino. Abbiamo Bhairava, una reincarnazione di Shiva, e il suo veicolo è un cane, perciò la gente crede che ammazzare un cane sia un’offesa a Bhairava”.

Lontano dalla discarica di Jorbeer, in un quartiere residenziale di Mumbai, i parsi continuano a esporre i corpi per gli avvoltoi che non arrivano più. Un tempo era un sistema perfetto per smaltire i cadaveri. Fin dai tempi del profeta Zarathustra, i zoroastriani usano le dhokmas, le torri del silenzio, per le sepolture. Mentre la grande maggioranza degli esseri umani preferisce seppellire o cremare i morti, i parsi credono che la terra, il fuoco e l’acqua siano elementi sacri che non possono essere contaminati da un cadavere. Nella loro terra d’origine, la Persia, deponevano i morti su promontori di pietra esposti al sole e gli avvoltoi scendevano a banchettare. Nell’ottavo secolo, quando emigrarono in India per sfuggire alle persecuzioni, portarono avanti la tradizione su 62 ettari di foresta nota come dongerwaadi, nel cuore di Malabar Hill, poi divenuto il quartiere residenziale più elegante di Mumbai. Costruirono una serie di torrioni sui quali i corpi vengono deposti ancora oggi. Anche i parsi, come gli avvoltoi, stanno diminuendo. Si calcola che siano solo centomila in tutto il mondo, più della metà concentrati a Mumbai. Per i più ortodossi, la conversione e i matrimoni misti sono proibiti.

Il problema dei parsi
Dhan Baria non è una tradizionalista. È una donna minuta di poco più di settant’anni, e ha una missione da compiere. Con passo veloce mi guida, contro ogni regola, nella zona delle torri del dongerwaadi, una vera oasi di pace nella metropoli che lo circonda. Percorriamo lo stesso sentiero seguito dalle famiglie parsi quando accompagnano i loro cari per l’ultima volta, prima che i nasarsarlas, i becchini, portino i corpi sulle torri. Mi indica i terreni che si potrebbero usare come cimitero. È una parsi devota e si rammarica per la scomparsa degli avvoltoi, ma pensa che si debba trovare una soluzione alternativa. È arrivata a questa conclusione dopo aver scoperto che il corpo della madre, mesi dopo la sua morte, nel 2005, si stava decomponendo lentamente, esposto nudo in cima alla torre.

“Quando andai a pregare al dongerwaadi, chiesi ai nasarsarlas se mia madre se ne era andata, e loro scoppiarono a ridere!”, racconta con un gesto di incredulità. ‘No, no’, mi dissero, ‘sua madre resterà là per anni!’. Avevo sentito dire che i corpi non si decomponevano, ma chi vuole occuparsi di certe cose?”. Decisa a scoprire la verità, ingaggiò un fotografo perché entrasse di nascosto nella torre e documentasse quello che stava succedendo. Le immagini apparvero prima in volantini distribuiti nelle cassette postali dei parsi e poi raggiunsero la Cnn. L’iniziativa fece molto scalpore. Il parsi panchayat di Mumbai, l’organismo religioso della comunità, aveva assicurato ai fedeli che anche senza gli avvoltoi sulle torri andava tutto benissimo. Le foto dimostravano il contrario.

Fedeli a Varanasi. (Henk Braam, Hollandse-Hootge/Contrasto)

Alla fine del sentiero, ci fermiamo davanti a un cancello di ferro battuto stretto tra due supporti di pietra, chiuso da un enorme chiavistello. Non si vede un avvoltoio da anni, ma sulle nostre teste volteggiano interi stormi di nibbi neri. Ogni giorno arrivano in media tre corpi, e i nibbi banchettano come gli avvoltoi prima di loro. Però pasticciano, si concentrano sulle parti molli e lasciano troppi resti. La gente si lamenta per il cattivo odore e si dice che sui balconi dei palazzi della zona siano state trovate delle dita. Il panchayat ha tentato di sostituire il servizio impeccabile fornito dagli avvoltoi per secoli con una serie di tecnologie fallimentari.

La macchina dell’ozono non è servita a mascherare l’odore. Le sostanze chimiche versate negli orifizi hanno reso tutto scivoloso perché i corpi si sciolgono penetrando nella pietra. Alla fine hanno scelto dei riflettori solari installati su un’impalcatura d’acciaio e diretti sui corpi per accelerare il processo di decomposizione (immaginate un bambino con una lente d’ingrandimento puntata su una formica). Ma la stagione delle piogge dura quattro mesi e i dispositivi solari essiccano i corpi invece di distruggerli. Per i sacerdoti più ortodossi si tratta di una cremazione mascherata.

I limiti dell’ortodossia
Anche Khojeste Mistree, studioso parsi e membro del panchayat, è di questa opinione. Torno nello stesso luogo con lui. Con una bella pancetta, il pizzetto grigio ben curato e il volto senza rughe, è un uomo non sfiorato dal dubbio. “La gente dice che le torri del silenzio sono antiquate, che dovremmo passare alla cremazione e dimenticare le nostre tradizioni”, mi spiega con puro accento di Cambridge, anche se sono passati trent’anni da quando ha studiato lì. “Io sono assolutamente contrario. Questa potente, rumorosa minoranza di riformisti non conosce la religione”. Chiarisce che lui non è un sacerdote. “Io insegno ai sacerdoti”, sottolinea. Lo trovo simpatico per essere un puritano.

Mistree ha un piano grandioso. Immagina una voliera per avvoltoi, alta venti metri e grande come due campi da calcio, che avvolga le torri e gli alberi senza tagliare un solo ramo. I critici – e ce ne sono molti sia nella comunità parsi sia in quella scientifica – sostengono che per gli avvoltoi una voliera significherebbe la morte sicura. Il diclofenac è presente in centinaia di antidolorifici. Sarebbe di fatto impossibile accertarsi che i corpi dei parsi, come la carne di capra nel centro di riproduzione a Pinjore, non contengano questa sostanza. Ma Mistree è molto determinato. Si è spinto perfino a sollevare il sospetto che i parsi stiano già tenendo degli avvoltoi in cattività da qualche parte, anche se è illegale perché sono una specie protetta. “Volere è potere”, afferma. “Davvero, siamo più interessati di chiunque altro alla sopravvivenza degli avvoltoi. Vogliamo preservare le nostre tradizioni. Siamo molto più coinvolti di quegli ecologisti da salotto”.

Mentre il panchayat si preoccupa dei corpi solo sul piano teorico, i becchini parsi devono fare i conti con problemi più concreti. Per generazioni il loro compito è stato quello di trasportare un cadavere integro e deporlo sul tetto della torre. Gli avvoltoi si mettevano al lavoro e nel giro di pochi giorni i nasarsarlas spingevano i resti nell’ossario al centro. I nasarsarlas sono i più poveri tra i parsi, e immagino che possano sentire la mancanza degli avvoltoi più di chiunque altro nel subcontinente: ogni giorno devono affrontare un nuovo mucchio di cadaveri mentre quelli vecchi non sono ancora stati smaltiti.

Come Baria, anche altri parsi sono disposti a consentire sepolture o cremazioni nel loro rito funebre, pur di trovare un modo di rimediare all’assenza degli avvoltoi. Alcuni hanno proposto di usare la gassificazione, perché le altissime temperature utilizzate con questo metodo non entrano in diretto contatto con il corpo, oppure la promession, una tecnica già piuttosto diffusa in Svezia che usa l’azoto liquido per surgelare i corpi prima di trasformarli in polvere finissima. Un insigne entomologo ha suggerito di provare gli insetti, ma tutte le proposte sono state accolte con tiepido entusiasmo. Per ora, continuano a puntare i loro collettori solari come meglio possono sperando che le torri non vadano in rovina.

Come parassiti
“Sono scomparsi, sono scomparsi”, esclama scuotendo la testa. Sono le prime parole pronunciate dal dottor Asad Rahmani, direttore della Bnhs, quando lo incontro a Mumbai. Mentre parlo con Rahmani mi rendo conto di essere venuta in India per cercare una catastrofe ecologica. Anche se gli avvoltoio sono le più sgradevole delle creature, la loro assenza ha lasciato un vuoto. Eppure non mi sembra un’apocalisse. La scomparsa degli avvoltoi è catastrofica, certo, ma la capacità di adattamento dell’uomo è stupefacente. O terrificante. O tutte e due le cose. Per quanto la situazione possa peggiorare, indipendentemente da quante specie vengano spazzate via dalla Terra nella marcia verso il progresso, la vita continua. Le specie che scompaiono sono dimenticate nel giro di una generazione, che imparerà a conoscere il passato solo grazie a incontri casuali con reperti di museo, sulle ginocchia della nonna o attraverso un’immagine sullo schermo di un computer. In India ci sono già bambini che stanno crescendo senza aver mai visto un avvoltoio, anche se i loro genitori hanno conosciuto cieli pieni di stormi di saprofagi per gran parte della loro vita. E se ci adattassimo troppo rapidamente?

È proprio quello che mi fa capire Rahmani. “Vorrei che non fossimo così flessibili. Siamo come i parassiti. Possiamo vivere in ogni tipo di ambiente, dall’Alaska alla Namibia. Siamo come gli scarafaggi, i ratti”, esclama. “Lei ha visto gli slum”, continua. “Possiamo vivere in condizioni spaventose e continuare a riprodurci con successo. Nessun’altra specie ha la stessa adattabilità. Per il pianeta, questa è una sfortuna. Se avessimo una ridotta tolleranza all’inquinamento, oppure a certi alimenti, forse ce ne prenderemmo più cura. C’erano tanti di quegli avvoltoi che non potevamo neppure immaginare che rischiassero di scomparire”, continua. “Oh, non ricordarmi quei giorni, è così doloroso per me. Era impossibile perfino pensare che sarebbero diventati rari. Cosa è successo? Cosa gli abbiamo fatto? Ora ci sono i cani che mangiano qualsiasi cosa, viva o morta. Sulla terra ci sono i cani, ma i cieli sono vuoti”.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è uscito il 24 febbraio 2012 nel numero 937 di Internazionale, a pagina 43. L’originale era uscito su The Virginia Quarterly Review con il titolo India’s vanishing vultures.

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