Dieci giorni senza vedere la faccia del presidente potevano anche essere una gradita boccata d’ossigeno per tanti russi. E, in circostanze normali, non avrebbero dovuto costituire motivo di particolari preoccupazioni politiche, né in patria né all’estero. Un’influenza, forse, o il riacutizzarsi di vecchi acciacchi. Ma l’assenza di Vladimir Putin dalla scena pubblica – che si è prolungata dal 5 marzo, giorno dell’incontro con Matteo Renzi a Mosca, fino al 15 marzo – è arrivata in un momento piuttosto critico. Ed è stata gestita dalle istituzioni in modo tutt’altro che trasparente.
È vero, Putin era già stato costretto a cancellare diversi appuntamenti internazionali e a scomparire dai radar per qualche giorno verso la fine del 2012. Ma allora le spiegazioni del primo ministro Dmitrij Medvedev – un mal di schiena rimediato in qualche avventura siberiana – sembrarono più credibili, anche perché il Cremlino non era sotto i riflettori di mezzo mondo.
Oggi è tutto diverso. Le tensioni ucraine, la più o meno esplicita ammissione che l’annessione della Crimea era stata pianificata per tempo da Mosca, poi l’assassinio di Boris Nemtsov e gli arresti di alcuni uomini vicini al presidente ceceno Ramzan Kadyrov, il più putiniano dei putiniani: già prima del 5 marzo tutti questi elementi avevano contribuito ad alimentare dubbi su cosa stesse succedendo nelle stanze segrete del Cremlino.
Chi è stato davvero a volere Nemtsov morto? Qual è stato il ruolo di Kadyrov? Perché il presidente ha deciso di concedergli una prestigiosa onorificenza pubblica proprio dopo le sue parole d’appoggio al sospettato principale dell’omicidio, definito un “vero patriota russo”? Come interpretare il post di Instagram in cui il leader ceceno afferma di voler rimanere sempre al fianco di Putin, indipendentemente dal fatto che sia presidente o meno? E soprattutto, esiste davvero una spaccatura nel sistema di potere russo?
Complici questi non trascurabili dettagli, e considerate le dichiarazioni tutt’altro che chiarificatrici del suo portavoce Dmitrj Peskov, la prolungata assenza di Putin ha alimentato ogni genere di congettura: il presidente ha avuto un infarto. No, è scappato a Londra con i suoi fedelissimi, forse rovesciato dagli uomini legati ai servizi segreti, i cosiddetti siloviki. Anzi no, è andato in Svizzera, dove la sua compagna, la ginnasta Alina Kabaeva, ha appena dato alla luce una bambina. Tutto smentito, ma non sostituito per tempo da una spiegazione credibile, che sarebbe stata utile e necessaria.
Anche se l’intera vicenda si è conclusa senza troppi intoppi, con Putin riapparso in pubblico al palazzo di Costantino a Strelna in compagnia del presidente del Kirghizistan, Almazbek Atanbaev, un paio di problemi rimangono. Innanzitutto c’è il fatto che l’opinione pubblica russa, vaccinata dalle esperienze sovietiche e dalla propaganda degli ultimi anni, è ormai scettica rispetto a ogni spiegazione logica e razionale degli eventi a cui assiste. Se anche Putin avesse davvero avuto una semplice influenza, forse nessuno ci avrebbe creduto: non gli oppositori, che avrebbero pensato a qualche macchinazione del potere, e probabilmente nemmeno quel 90 per cento di russi il cui unico mezzo d’informazione è la tv, ovviamente controllata dal Cremlino.
Ma soprattutto, la gestione di questa piccola seccatura conferma che i meccanismi del potere in Russia sono ancora per molti versi imperscrutabili. E il dato è certamente preoccupante: sia in vista dell’inevitabile avvicendamento al potere che prima o poi dovrà aver luogo, sia perché solleva dubbi sull’affidabilità di Mosca come partner nelle varie crisi internazionali che la vedono coinvolta, dall’Ucraina alla Siria.
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