15 giugno 2015 12:36

Qualche tempo fa un amico mi ha spedito un articolo sulla ormai attestata inefficacia del brainstorming. Ammetto di avergli risposto, con una certa antipatica supponenza, di aver affrontato il tema nel 2011 (ahah, io l’avevo già detto!), e di avere, negli anni successivi, aggiornato il testo aggiungendo, nei commenti, i nuovi risultati di ricerca che mi capitava di intercettare.

Il fatto che sul numero 1105 di Internazionale si torni ancora sull’argomento (qui il testo originale, in inglese) mi fa però capire che, oltre a essere supponente, sono anche stata troppo sbrigativa. In realtà, ci sarebbe una bella domanda a cui vale la pena di rispondere: come mai il brainstorming continua a essere praticato anche se la sua inefficacia è ampiamente dimostrata?

Intanto riassumo i termini della questione: il brainstorming è una tecnica per la produzione di idee inventata negli anni quaranta dal pubblicitario Alex Osborn. Rompe la rituale gerarchia delle riunioni aziendali incoraggiando l’interazione spontanea. L’obiettivo è produrre molte idee, senza giudizio o censure: i partecipanti possono sentirsi liberi di concepire le soluzioni più assurde ed esagerate.

Gli assunti di base del brainstorming sono questi: i gruppi producono più idee dei singoli. La critica è paralizzante. Ma si tratta di assunti contraddetti da moltissime ricerche: le persone sono più produttive se lavorano da sole. Facendo lavorare contemporaneamente gruppi e singoli individui sul medesimo tema, è facile verificare che i singoli producono più idee, e idee migliori.

D’altra parte, dopo il notissimo esperimento di Asch (guardate il video) tutti conosciamo i pericoli del conformismo di gruppo: e quindi non è detto che i gruppi, anche i più “spontanei”, siano davvero l’habitat migliore per lo sviluppo delle idee davvero originali.

Inoltre, le critiche altrui servono, eccome: aiutano a buttar via rapidamente le idee inefficaci. Ne parla il New York Times il quale, tra l’altro, ricorda che le persone introverse, che spesso sono particolarmente creative, difficilmente si trovano a loro agio in una situazione di brainstorming.

Il New Yorker nel 2012 pubblica un ampio articolo intitolato Il mito del brainstorming. Ricorda che le prime evidenze contrarie emergono già nel 1958. Segnala che, invece, il confronto tra individui esperti, l’interscambio di idee e competenze e la vicinanza fisica sono potenti acceleratori per la creatività. È il caso del Building 20 del Mit, uno scomodo edificio affollato di scienziati di discipline diverse, dai linguisti agli ingegneri nucleari, diventato una leggenda in termini di innovazione prodotta.

E rieccoci al punto: come mai si insiste con il brainstorming? Credo che ci siano quattro tipi di motivi. Solo il primo è frivolo e discutibile, mentre gli altri meritano attenzione e possono offrire buoni spunti a chi deve coordinare gruppi di lavoro, magari esaltando la componente “brain” e riducendo la componente “storm”.

1) Il brainstorming è sì poco efficiente. Ma è molto seducente. Suvvia, la prospettiva di partecipare a una “tempesta di cervelli” (o a un assalto) è accattivante. Le riunioni sono piacevoli: si chiacchiera, a volte si va in un bel posto, spesso c’è qualcosa di sfizioso da mangiare.

E poi il brainstorming è un buon pretesto sia per evitare la fatica di affrontare un problema in modo strutturato, sia per deresponsabilizzarsi a livello individuale, sia per autoassolversi nel caso non si arrivi a una soluzione (caspita, abbiamo perfino fatto un brainstorming!). Però…

2) …però è vero che per risolvere i problemi bisogna affrontarli. Questo significa interrompere la routine quotidiana, isolare i problemi, porsi l’obiettivo di risolverli e investire tempo per lavorarci su: “follia è continuare a fare le stesse cose aspettandosi risultati differenti”, no?

Dunque, forse a valere non è tanto la parte coreografica e destrutturata del brainstorming, quanto quella progettuale (e minimizzata da Osborn): il fatto che un gruppo di persone si faccia effettivamente carico di un problema e, invece di procrastinare, stabilisca un tempo deputato a risolverlo e sviluppi delle attese sulla sua possibile soluzione.

3) E poi oggi lavorare in gruppo è un imperativo. È ancora la Harvard Business Review, dopo aver elencato le ragioni per cui il brainstorming non funziona, a ricordare che comunque, in tempi di iperspecializzazione, mettere a confronto competenza diverse è indispensabile: bisogna però selezionare i partecipanti, coordinarne gli sforzi e (aggiungo) lavorare con gruppi non troppo numerosi, chiarire bene prima la natura del problema e far sì che tutti arrivino preparati sull’argomento e offrano contributi esperti. Insomma: stiamo parlando di una versione del brainstorming selettiva, strutturata, più critica e assai meno tempestosa.

4) Infine: il brainstorming virtuale offre buone opportunità. Sempre HBR segnala che sessioni di brainstorming in rete possono offrire diversi vantaggi: anche i più introversi non si sentono bloccati. Anche gruppi numerosi possono funzionare senza precipitare nel caos. L’anonimato risulta protettivo, e permette di giudicare le idee con obiettività maggiore.

Aggiungo che lo scambio di opinioni scritte lascia ai partecipanti il tempo necessario per pensare, valutare, documentarsi e offrire contributi utili, e permette a chi coordina di organizzare e filtrare i contributi. Tutto ciò somiglia, più che al brainstorming come lo concepisce Osborn, al metodo Delphi: ho partecipato in rete a un paio di lavori con questa impostazione, che ho trovato interessante e produttiva.

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