02 novembre 2016 10:58

Non so se avete già visto Io, Daniel Blake, il nuovo film di Ken Loach che a Cannes ha vinto la Palma d’oro. L’inizio è folgorante: schermo nero, e nient’altro che due voci impegnate in un dialogo insensato. La voce maschile appartiene a Daniel Blake, anziano carpentiere che sta chiedendo di usufruire dell’indennità di malattia a causa di un recente infarto.

La voce femminile appartiene a un’addetta del servizio sanitario, che sottopone il povero Blake a una raffica di domande intrusive e del tutto incongruenti con la sua condizione. Cose come “riesce ad alzare entrambe le braccia? Riesce a camminare per cinquanta metri? Va in bagno con regolarità?”. Domanda dopo domanda, la frustrazione di Blake cresce. E, con questa, cresce la sua aggressività: sì, ha avuto un infarto, ha presentato la documentazione clinica e per il momento non può tornare a lavorare, ma tutto il resto di lui, testa compresa, funziona benissimo.

Così, prima ancora che il film cominci, lo spettatore consegna tutta la propria empatia al carpentiere Daniel Blake, intrappolato in un inesorabile ingranaggio burocratico che lo considera non una persona ma una pratica da sbrigare. Blake non ha alcuna difesa: neppure la possibilità di protestare, o di spiegarsi. O, almeno, di essere ascoltato.

Goffredo Fofi, che recensisce il film su Internazionale, segnala che la storia di Blake riguarda anche “la pesantezza della burocrazia e dei suoi funzionari”. A questa si aggiunge “una persecuzione in più, la modernizzazione tecnologica, la digitalizzazione delle domande e dei documenti, le diavolerie dei computer”. Blake non può che soccombere.

Ho messo a punto una strategia: mai chiamare un qualsiasi call center se non ho almeno un’ora a disposizione

Daniel Blake siamo tutti noi.

Siamo Daniel Blake quando ci scontriamo con un modulo illeggibile perché scritto in corpo minuscolo. Incomprensibile perché redatto in burocratese stretto. Incompilabile perché i campi non hanno spazio sufficiente.

Siamo Daniel Blake quando passiamo decine di minuti ascoltando stucchevoli musichette dopo essere stati avvertiti che “la telefonata è a pagamento e verrà addebitata secondo le tariffe applicate dal suo gestore”.

Siamo Daniel Blake quando cerchiamo di districarci tra “prema uno, prema due, prema tre, prema quattro”, e scopriamo che la magica opzione “per parlare con un operatore prema cinque” non è prevista. Siamo Daniel Blake quando “tutti i nostri operatori sono occupati. La preghiamo di attendere”. E parte un quarto d’ora di informazione pubblicitaria.

E, naturalmente, siamo Daniel Blake tutte le volte che finalmente riusciamo a parlarci, con un operatore, senza però ottenere una risposta comprensibile, sensata e utile. E le volte che, tentando la perversa roulette del call center, ripetiamo la trafila, riaccettiamo di pagare la telefonata, riascoltiamo la musichetta, e finalmente, da un diverso operatore, riceviamo una risposta del tutto differente, ma altrettanto incomprensibile, insensata o inutile.

Mi è successo qualche giorno fa (controllo sul registro-chiamate del telefonino) tra le 13.20 e le 14.53: un’ora e mezza e dodici telefonate a cinque diversi numeri per non riuscire a capire quale entità avrei dovuto avvertire del mancato funzionamento di un contatore, e come farlo.

La settimana precedente: stessa trafila, in diverse puntate di una quindicina di minuti l’una, per via di una connessione internet. Insomma, ho passato al telefono il tempo sufficiente a leggermi un bel romanzone.

Raccontando in giro questi fatterelli, ricevo la stessa accorata solidarietà che può aspettarsi di ottenere chi si dichiara stroncato da una feroce cervicale. O chi racconta di avere appena perso un amatissimo animale da compagnia. Seguono, di norma, racconti di analoghe telefonate-horror e di epiche arrabbiature. Un amico mi ha perfino suggerito di prendere a martellate il contatore:”Fallo, e qualcosa succederà”.

Ho messo a punto una strategia: mai chiamare un qualsiasi call center se non ho almeno un’ora a disposizione, e se, mentre ascolto l’interminabile musichetta, non ho qualcosa da fare (per esempio controllare le email, a meno che la telefonata al call center non riguardi la connessione internet).

E poi, squadernare tutta la documentazione necessaria: bollette, fatture, contratti, tessere, codice fiscale, codice-cliente. Respirare. Tenere sotto controllo lo spaesamento, la frustrazione, l’ansia e l’aggressività.

Sono convinta che se fosse possibile misurare e sommare tutta l’ansia e l’aggressività derivanti dall’impatto con le pratiche burocratiche e i call center delle istituzioni pubbliche e delle imprese private, ci renderemmo conto di aver scovato un importante fattore di infelicità individuale, di instabilità sociale e di logoramento e abuso del capitale umano.

Psychology Today elenca dieci passaggi per ottenere il meglio dagli operatori dei call center: evidentemente il problema non è solo italiano. Tra i suggerimenti: preparatevi prima, siate gentili, controllate le vostre emozioni, personalizzate lo scambio chiamando per nome la persona con cui parlate per ispirarle empatia, ripetete più volte la vostra richiesta usando le medesime parole.

Comincio a temere che il sistema sia inemendabile. L’unica, paradossale speranza è che l’intelligenza artificiale riesca, tra un po’ di anni, a restituirgli senso ed empatia

Insomma: chiamare un call center sembra un’impresa a metà tra il sostenere un esame e il prepararsi per un colloquio di lavoro. Psychology Today aggiunge che, se nemmeno la preparazione basta, occorre passare alle maniere forti: chiedere di parlare con il supervisore, scrivere un messaggio di fuoco su Twitter.
Ma è una guerra tra disperati: non bisogna dimenticare che, dall’altro capo della linea oppure oltre il vetro dello sportello, c’è spesso una persona mal pagata, demotivata, non sufficientemente addestrata, sfruttata, esausta e soggetta a burnout, la cristallizzazione patologica dello stress che può essere misurata dalla scala di Maslach.

E non bisogna nemmeno dimenticare che istituire procedure è indispensabile per gestire qualsiasi sequenza di operazioni. Che noi stessi ogni giorno attuiamo complesse procedure. E che esistono procedure utili, benefiche e tali da salvarci, letteralmente, la vita.

I guai capitano quando le procedure sono sfuocate o fuorviate rispetto all’obiettivo di rispondere ai bisogni dei cittadini o di risolvere un problema. Quando sono gestite da persone stanche, demotivate o impreparate. Quando si trasformano esse stesse in un obiettivo che si autogiustifica.

Se è questo quel che succede, la colpa non è dei singoli individui, utenti e operatori, che domandano o rispondono, ma di un sistema che, cercando l’efficienza a prescindere dal fattore umano, ha conquistato invece l’insensatezza. Ormai comincio a temere che il sistema sia inemendabile. L’unica, paradossale speranza è che l’intelligenza artificiale riesca, tra un po’ di anni, a restituirgli senso ed empatia.

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