Me ne rendo conto: in tempi di impieghi scarsi, precari e mal pagati, celebrare il lavoro ben fatto può sembrare insensato e inopportuno. O irritante e sospetto. Come minimo, antiquato, stucchevole e buonista.

Ma pensateci un momento.

Parlare di lavoro ben fatto, e valorizzarlo proprio ora, può essere uno di quei gesti controintuitivi che generano cambiamenti sostanziali nella percezione, e di conseguenza nei comportamenti.

L’idea di lavoro ben fatto implica che ogni lavoro sia importante e possa avere una dignità, una qualità e un valore. Che il valore vada retribuito. Che il buon risultato qualitativo vada apprezzato e che la dignità vada riconosciuta.

Esiste un Manifesto del lavoro ben fatto. L’ha redatto il sociologo napoletano Vincenzo Moretti. Leggerlo, per una milanese cresciuta negli anni cinquanta accanto a un nonno falegname ebanista che aveva l’ossessione del mestée fa ben, e che poteva passare intere giornate a lucidare un comò, è quasi commovente.

Il manifesto dice: “Qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha un senso”. E aggiunge: “Dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore”.

Il piacere e la ricompensa
È un modo poetico per ricordare che alla base di ogni lavoro fatto bene ci sono competenza, attenzione e dedizione. Tutta roba che ha a che fare con la motivazione, l’energia che ci anima nel fare le cose, nell’affrontare le sfide e nel superare gli ostacoli. E più specificamente con la “motivazione interna, o intrinseca.

In estrema sintesi, la motivazione interna riguarda il fare qualcosa per il piacere di saperlo fare, per il gusto di farlo e con l’orgoglio di averlo fatto al meglio, e non solo per ricevere un premio o una ricompensa. La motivazione interna è connessa con un maggior livello di creatività, di autostima e di gratificazione.

Bisognerebbe imparare a coltivare la motivazione interna: se manca quella, qualsiasi lavoro, anche il più prestigioso o il meglio retribuito (e anche quel lavoro specialissimo che è studiare) si trasforma in una costrizione.

Comunicare e promuovere buone pratiche è difficile. Più in generale è difficile dare buone notizie

Il manifesto del lavoro ben fatto aggiunge: “Ciò che va quasi bene non va bene”. Dice che “fare bene le cose è bello, è giusto e conviene”. E dice molto altro: leggetelo, se vi va.

Al termine del manifesto c’è una parola-chiave che trovo piuttosto interessante perché riguarda il comunicare. E ormai lo sappiamo tutti, che le cose sono percepite anche secondo il modo in cui sono comunicate, e che i fatti sono definiti ed etichettati anche dalle loro narrazioni.

La parola-chiave è “epica”.

Comunicare e promuovere buone pratiche è difficile. Più in generale è difficile dare buone notizie, che appaiono meno urgenti ed emozionanti, più insipide e retoriche delle cattive. Ciò che è tragico si impone immediatamente all’attenzione, e con forza assai maggiore di ciò che può apparire confortante. È come se, nel momento in cui diventiamo pubblico, fossimo ghiotti solo di quello che è aspro e amaro.

Ma forse imparare a costruire un’epica positiva attorno alle notizie positive, alle buone pratiche e sì, al lavoro ben fatto, potrebbe migliorare la situazione contrastando, tra l’altro, la sfinente propensione italiana al disfattismo. Il fatto che una testata nazionale a grande diffusione, che non è certo una onlus, abbia deciso di dedicare un inserto settimanale alle buone notizie potrebbe segnare una prima inversione di tendenza.

Un altro gesto che può contribuire a cambiare le cose è imparare a riconoscere pubblicamente un lavoro ben fatto. Comincio rendendo omaggio alla (mi dicono) anzianissima signora che, nel giardino segreto che è la remota isola di Linosa (cinque chilometri quadrati per 400 abitanti nel bel mezzo del Mediterraneo), spazza, semina e colora la scala d’accesso alla propria casa nel modo che potete vedere in questo articolo.

Forse i gradini colorati e fioriti sono più lievi da salire. Di fatto regalano leggerezza a chiunque ci passi davanti. Ben fatto, sconosciuta signora. E grazie.

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