05 marzo 2018 13:45

A pensarci, può risultare curioso che il termine identità rimandi sia a una somiglianza o equivalenza assoluta (l’identità di due oggetti, di due concetti, di due alternative, di due gemelli, appunto, identici) sia all’unicità assoluta di ogni singola individualità rispetto a ogni altra.

A pensarci meglio, il fatto può risultare meno strano di quanto appaia: nel primo caso stiamo parlando di due entità che, nel momento in cui sono osservate, risultano uguali. Nel secondo caso, parliamo di una singola entità che nel tempo, e anche se cambia, invecchia o si evolve, conserva tratti fondamentali che la distinguono da ogni altra e ce la fanno riconoscere (o la aiutano a riconoscersi) come “uguale a se stessa”: proprio lei, quell’entità lì, inconfondibile.

In questa accezione, possiedono una propria identità i singoli individui, gemelli compresi (e ciascuno ha i suoi propri documenti d’identità), le imprese (e allora parliamo di corporate identity) e anche gli stati. Ma, per esempio, guardatevi anche questo bel progetto sull’identità sessuale e di genere.

Cultura, capacità e appartenenze
La descrizione che, subito dopo essere stato eletto, dà di se stesso Sadiq Khan, il sindaco di Londra, è una specie di trattato condensato in poche righe su che cosa sia il senso d’identità individuale e quali ne siano i fondamenti.

Khan, che suscita molta curiosità anche al livello internazionale per il suo profilo davvero atipico nel Regno Unito che si disponeva a votare la Brexit, si definisce così, con poche variazioni, in tutte le interviste che sono andata a rileggermi: “Sono musulmano di origini pachistane” (fede e radici), “britannico” (appartenenza), “europeo” (cultura di riferimento), “laburista” (ideali e convinzioni), “avvocato” (competenze e capacità), “padre” (affetti e relazioni). Qualche volta aggiunge: “e tifoso del Liverpool” (passioni).

Rodolfo, nella Bohème, subito dopo aver detto a Mimì di volerle scaldare la gelida manina, per definire se stesso se la cava assai più in fretta e canta: “Chi son? Sono un poeta. / Che cosa faccio? Scrivo. / E come vivo? Vivo” (se avete quattro minuti e mezzo di tempo ascoltatevi Mario del Monaco, che merita).

Il voto, dicono i ricercatori della Duke university, non dice tanto cosa vogliamo quanto chi siamo

Anni fa un mio collega mi raccontava di aver avuto (che fortuna!) Franco Fortini come insegnante. E che all’inizio d’anno Fortini era entrato nell’aula, si era diretto alla lavagna e aveva scritto: “Franco Fortini. Ateo, ebreo, comunista”. Solo dopo si era girato verso gli studenti: “Buongiorno. Sono il vostro insegnante d’italiano”. Un’intera classe, nella Milano di fine anni sessanta, conquistata in un lampo.

Chiederci, ogni tanto, su quali elementi fondiamo il nostro senso d’identità potrebbe essere un buon esercizio di manutenzione intellettuale ed emotiva. Molti di noi l’hanno appena fatto, forse senza esserne del tutto consapevoli, andando a votare.

Il paradosso elettorale
Fino a oggi, si è in prevalenza pensato che la scelta di votare riflettesse un giudizio razionale, a partire da un confronto tra ciò che ciascun elettore desidera e ciò che ciascun candidato, o partito, promette. Ma sembra che non sia proprio così, e non solo per via del paradosso elettorale, identificato nel 1957 dall’economista Anthony Downs (le persone vanno a votare anche se sanno che il loro singolo voto, da solo, non cambia le cose. Dunque compiono un atto che, in termini di costi-benefici, è diseconomico).

Che per molte persone anche l’atto di votare sia in primo luogo un’espressione d’identità è quanto invece afferma una recente ricerca che integra psicologia e neuroscienze, condotta dalla Duke university: il voto, dicono i ricercatori, non dice tanto che cosa vogliamo quanto chi siamo.

Bene: queste elezioni ci offrono un’occasione per osservarci in uno specchio individuale e collettivo. Ho scritto questo articolo a urne ancora aperte, sperando che osservandoci in quello specchio potremo, se non proprio piacerci, almeno riconoscerci.

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