26 febbraio 2019 11:34

Tutte le volte che stiamo attenti a qualcosa che potremmo serenamente ignorare stiamo facendo un investimento poco oculato.

Il fatto è che la capacità del nostro cervello di prestare attenzione è grande, sì, ma non infinita. Se stiamo attenti a qualcosa possiamo stare meno, o per niente, attenti a tutto il resto. Se riuscissimo ad aumentare, almeno un po’, la quantità di attenzione di cui disponiamo, sarebbe meglio. Ma non c’è una ricetta magica, e nemmeno un singolo metodo che garantisca risultati certi.

Tutti i suggerimenti sembrano orientati a migliorare lo stato di benessere generale: ridurre lo stress, per esempio. Dormire di più. Organizzare il tempo ed evitare il multitasking. Meditare. Fare un moderato esercizio fisico. Ascoltare musica. E perfino bere del tè nero. Insomma: per quanto ci possiamo sforzare, l’attenzione umana resta una risorsa limitata. E ha, come ogni altra risorsa limitata, un valore. Che è più alto di quanto comunemente si immagini.

Il primo a parlare di economia dell’attenzione è stato il premio Nobel Herbert Simon, che già nel 1971 scriveva che la ricchezza di informazione disponibile consuma l’attenzione dei destinatari.

Noi già investiamo (ci tocca farlo) la maggior parte di questa preziosa risorsa nello svolgere compiti quotidiani come studiare, lavorare, gestire, accudire, e metterci in relazione con i nostri cari e con chi ci è vicino.

Sono tutte attività che oggi peraltro ci obbligano a elaborare una quantità di informazione assai più alta che in passato: pensiamo solo alla crescita esponenziale di email di lavoro. O al turbine di messaggi su WhatsApp a cui è esposta la madre di qualsiasi bambino in età scolare.

I mezzi di comunicazione vogliono poter rivendere agli utenti pubblicitari le quantità maggiori possibili di attenzione

Dobbiamo anche investire quote della nostra attenzione per compiere mille gesti minuti ma indispensabili, e impossibili da eseguire senza starci almeno un po’ attenti: scendere per le scale, guidare la macchina, compilare un modulo.

Il residuo di attenzione sulla cui allocazione potremmo davvero decidere è quello che corrisponde o al nostro tempo libero o agli interstizi di tempo che restano tra un compito e l’altro: per esempio, gli spostamenti in treno o in metropolitana. Le attese davanti a uno sportello o in fila alla cassa del supermercato.

Fino a una manciata d’anni fa, la competizione per conquistarsi parti del nostro tempo libero e della nostra attenzione coinvolgeva i mezzi di comunicazione tradizionali: produttori di contenuti d’informazione o d’intrattenimento, gratuiti (per esempio, le televisioni private) o a pagamento (i quotidiani e i periodici, la tv di stato, il cinema), che seguivano tutti lo stesso modello economico.

In estrema sintesi, quel modello funziona così: i mezzi di comunicazione offrono al loro pubblico contenuti interessanti e in cambio ne ricevono attenzione. Questa viene poi rivenduta, monetizzandola, agli investitori pubblicitari, che faranno di tutto per deviare parti di quell’attenzione sulle proprie proposte commerciali.

Se le proporzioni tra le diverse componenti sono eque, il modello ha un senso e tutti, in teoria, ci guadagnano qualcosa: gli investitori pubblicitari si portano a casa un po’ di preziosa attenzione, i mezzi di comunicazione si procurano le risorse necessarie per produrre contenuti adatti per il loro pubblico, il pubblico paga per i contenuti un costo inferiore a quello reale, o addirittura (se la quota di pubblicità è maggiore) nessun costo.

Se c’è uno svantaggio (e c’è) è questo: i contenuti tendono a omogeneizzarsi e a massificarsi perché i mezzi di comunicazione vogliono poter rivendere agli utenti pubblicitari le quantità maggiori possibili di attenzione. E chi produce contenuti di qualità più alta, capaci di catturare quote minori di attenzione, rischia di finire fuori mercato.

Modello frantumato in rete
Il modello funziona, con qualche difficoltà in più, anche quando migra in rete. Ma poi succede che i social network lo frantumano. Non producono contenuti, ma solo infrastrutture tecnologiche atte a ospitare contenuti generati da altri, sui quali peraltro esercitano scarso controllo.

Rendono poi disponibili (sempre gratis) quei contenuti agli utenti, ma in cambio monetizzano sia la loro attenzione sia i loro dati, che non sono aggregati, ma personali. E hanno un valore molto maggiore per gli investitori pubblicitari.

Certo: la qualità dei contenuti è a dir poco discontinua visto che chiunque può generarli. Ma a catturare l’attenzione sono le grafiche accattivanti delle piattaforme e l’accessibilità permanente, la personalizzazione e l’amichevolezza, la semplicità d’uso, le immagini impattanti, il flusso di testi elementari e ad alta intensità emotiva (risse, pettegolezzi, insulti, appelli strappacuore, brandelli di vita privata…).

Se i mezzi di comunicazione tradizionali tendono a omogeneizzare, i social network, invece, polarizzano

E ancora: il senso di appartenenza e il senso di urgenza e la rassicurazione (bravo, stai facendo la cosa giusta!). E il fatto di poter guadagnare punti, stelline, faccine, cuoricini, livelli di merito, e soprattutto “mi piace” … gratificazioni elementari ma efficaci, e a costo zero per la piattaforma.

È un universo ideale per catturare a lungo l’attenzione di enormi quantità di utenti, e anche per sequestrare l’attenzione interstiziale, difficilissima da intercettare se non grazie a contenuti elementari veicolati da un oggetto maneggevole come un telefono.

Uso opaco dei dati
Anche questo sistema presenta degli svantaggi, e ormai li conosciamo: se i mezzi di comunicazione tradizionali tendono a omogeneizzare, i social network, invece, polarizzano. E poi c’è l’opacità riguardante l’uso dei dati degli utenti. La difficoltà di controllare la diffusione di notizie false. Il fatto che non ci sia differenza visibile tra fonti autorevoli e fonti del tutto inaffidabili. Insomma: si tratta di una dieta mediatica che può apparire molto appetitosa, ma che è contaminata da autentica spazzatura.

È a questo che dovremmo stare attenti, nel momento in cui finalmente – finalmente! – riuscissimo a convincerci e a ricordarci che l’attenzione di cui disponiamo è scarsa e che ha un valore.

Un lungo, interessante articolo su Slate arriva alla conclusione che dovremmo farci pagare per il fatto di prestare ai social network tanta parte del nostro tempo e della nostra attenzione.

L’altra proposta, che mi sembra più praticabile da subito, è di decidere noi stessi di investire la nostra attenzione in modo più lungimirante. Ricordandoci che ce ne resta sempre meno. Concedendola solo dopo esserci sincerati di ricevere, in cambio, informazione che ha un valore per noi, o perché ci fa sentire meglio, o perché ci fa capire meglio.

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