23 novembre 2020 14:34

Ho deciso di prendermi un’ulteriore settimana di vacanza dai temi riguardanti la pandemia. E lo faccio ponendomi, e ponendovi, una domanda in apparenza peregrina: che cosa vuol dire “essere autentici”?

Cercando risposte, alla fin fine torneremo a parlare anche di pandemia. Ma, magari, avendo raccolto un paio di idee in più lungo il percorso.

Dunque. Viviamo per la maggior parte del tempo in ambienti artificiali. Frequentiamo mondi virtuali. Ci sforziamo di corrispondere a una quantità di attese riguardanti la forma fisica, il successo e il gradimento sociale. Proviamo ad accordarci a una mole ugualmente grande di strampalati imperativi, espliciti o impliciti – da “dimostra meno anni di quelli che hai” a “guadagnati più like su Facebook”. Siamo bersagliati dalle notizie false e facciamo fatica a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.

Gerarchie ripensate
E magari ogni tanto ci capita di pensare che niente di tutto ciò ha davvero a che fare con noi. Con quello che siamo. Magari ci capita di pensarci più spesso, in questo periodo strano in cui molti dei nostri comportamenti abituali, e anche molti dei nostri automatismi più consolidati, hanno dovuto subire drastici cambiamenti. E in cui le gerarchie di priorità che abbiamo date per scontate, e alle quali ci siamo adeguati senza troppo pensarci, non appaiono più così granitiche e inconfutabili.

Sembra che, per gli psicologi e per diversi filosofi del novecento, l’essere “autentici” abbia a che fare con il mantenere uno stretto contatto con i propri valori, con le proprie esperienze, con la propria storia personale, con i propri desideri. E nel comportarsi di conseguenza, a prescindere da quanto forte sia la pressione sociale a conformarsi. In sostanza, e per dirla in modo molto, molto sbrigativo, tra autentico e inautentico correrebbe lo stesso discrimine che c’è tra profondo e superficiale, tra interiore ed esteriore, originale/creativo e artefatto/stereotipato. E tra sincero e insincero.

Le persone più autentiche sono di norma genitori più autorevoli e meno autoritari

Eppure l’autenticità continua ad apparire come un concetto elusivo. Per provare a delineare un po’ meglio la questione, Michael H. Kernis e Brian M. Goldman, due ricercatori dell’università della Georgia, pubblicano nel 2006 una ricerca ampia e citatissima, intitolata _A multicomponent conceptualization of autenthicity__, theory and research._

Partono da Socrate e Aristotele per arrivare a Nietzsche e a Kierkegaard, a Heidegger e a Sartre, e devo dire che raramente in un lavoro di tema psicologico ho visto citati tanti filosofi. E poi suggeriscono che ciò che chiamiamo autenticità non sia un costrutto unitario, ma il risultato dell’interazione di quattro componenti: consapevolezza di sé, elaborazione obiettiva (unbiased processing), comportamento, orientamento relazionale.

Tutto ciò, in estrema sintesi, significa conoscere se stessi, anche nei lati meno luminosi (è la precondizione per riuscire a lavorarci sopra). E poi: saper ragionare su se stessi in modo obiettivo, senza farsi illusioni e senza attivare meccanismi di autodifesa che distorcono la realtà. E ancora: scegliere di comportarsi in modo onesto e naturale, in accordo con i propri sentimenti e le proprie inclinazioni (attenzione: autenticità non significa cercare il proprio vero sé in modo compulsivo) e senza sentirsi obbligati a compiacere gli altri per ottenere ricompense di qualsiasi tipo. Infine, essere aperti, sinceri, affidabili nelle relazioni e capaci di intimità nelle relazioni più strette.

Imparare a raccontarcela giusta
Dopo aver verificato l’efficacia di questo modello, Kernis e Goldman vanno a indagare i vantaggi dell’”essere autentici”. E verificano che c’è una buona correlazione positiva con una maggior resistenza allo stress, con una migliore capacità di pianificare e affrontare problemi, con una minore competitività, con una maggiore indipendenza e una più consistente autostima. In generale, con un maggior benessere psicologico, e con una maggior sensazione soggettiva di benessere.

Due dettagli interessanti: le persone più autentiche tendono anche a interpretare in modo più benevolo o a minimizzare comportamenti del partner che potrebbero essere letti anche in chiave negativa. E sono di norma genitori più autorevoli e meno autoritari.

La motivazione intrinseca è attivata dalla sensazione che ciò che facciamo va bene, è giusto e ha un senso per noi

L’idea di “vivere una vita autentica” sta davvero diventando popolare, se anche il Sole24 Ore, che di solito si occupa di questioni assai diverse, dedica un lungo articolo, che merita di essere letto, a “uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano: la comprensione profonda del proprio ‘io’ e del suo posto nel mondo”. E sottolinea “che il valore di sé è, prima di tutto, valore nei confronti della nostra stessa coscienza”. Insomma: dovremmo imparare a raccontarcela giusta, a proposito di noi stessi e del nostro stare nel mondo.

Per chi volesse misurarsi direttamente con la questione dell’essere autentici, Huffington Post propone, a partire da un’altra ricerca prodotta da tre università (Harvard, Columbia, Northwestern), un elenco di dieci abitudini inconfondibili delle persone autentiche. Può valere la pena di dare un’occhiata.

Il punto più interessante, credo, è il numero 8, e riguarda la qualità della motivazione. Cioè dell’energia che ci anima in quello che facciamo.

Ci sono due tipi di motivazione: quella esterna, o estrinseca, è attivata dal desiderio di ottenere premi (soldi, riconoscimenti) o di evitare punizioni. Quella interna, o intrinseca, è attivata dalla sensazione che ciò che facciamo va bene, è giusto e ha un senso per noi. La motivazione intrinseca, molto più potente, sembra appartenere alle persone autentiche.

Esercizio radicale
Sull’essere autentici, tuttavia, restano moltissime questioni aperte. Scientific American ne elenca alcune. Per esempio: siamo più autentici quando nel comportamento seguiamo le nostre emozioni, o quando ci accordiamo ai nostri valori? Ed è possibile che ci consideriamo più “autentici” semplicemente quando ci sentiamo più calmi, liberi, amorevoli ed entusiasti?

In sostanza, le persone sarebbero troppo complicate, sfaccettate e spesso conflittuali per poter valutare l’autenticità di qualcuno alla luce di un suo (forse inafferrabile) “vero sé”. D’altra parte, perseguire una condizione in cui ci sentiamo calmi, amorevoli, liberi ed entusiasti non sembra poi così male.

A chi volesse sciogliere velocemente ogni dubbio, Psychology Today propone un esercizio radicale di autenticità e consapevolezza (e anche un buon rito scaramantico): “Scrivi il tuo necrologio. Che cosa ci metti dentro?”.

L’articolo è recentissimo, e si può pensare che la bizzarria della proposta rifletta anche lo spirito del tempo, e l’esperienza che tutti stiamo vivendo.

Di fatto, la pandemia ci mette a stretto confronto con la nostra fragilità e con la nostra finitezza. Potremmo trovare un esito fertile e produttivo, però, nella misura in cui tutto questo ci invita anche a ragionare su qual è la nostra parte più vera, a capire dove sta, e che cosa vorrebbe.

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