15 dicembre 2018 16:18

C’è un cimitero a meno di tre chilometri da Ventimiglia, comune al confine con la Francia dove da tre anni sono incagliati centinaia di ragazzi che non riescono a passare la frontiera. Si chiama cimitero del Trabuquet (trabucco, la macchina d’assedio medievale) e si trova a Mentone. Vi sono seppelliti 1.137 combattenti della grande guerra. Tra il 2008 e il 2009 l’associazione Mémoire du tirailleur sénégalais li aveva identificati, classificando le informazioni e confrontandole con quelle del ministero della difesa francese. Il 1 novembre 2012 è stato inaugurato un memoriale per ricordarli.

Erano giovani e nel corso del primo conflitto mondiale si trovavano in Costa Azzurra, nell’angolo più estremo della Francia sudoccidentale. Erano ricoverati negli ospedali della zona per le ferite e le malattie contratte durante la guerra. Erano tutti africani.

Come c’erano finiti? Rispondere a questa domanda permette di far emergere una storia a lungo dimenticata o ignorata, che racconta qualcosa anche del mondo di oggi.

La force noire
All’inizio del novecento la Francia aveva già una lunga tradizione di reclutamento nelle colonie, e il primo battaglione di tirailleur (tiratori scelti) fu formato nel 1857 lungo le coste del Senegal, tra le prime zone cadute sotto il dominio coloniale. Ma presto erano finiti tra loro soldati provenienti da tutta l’Africa occidentale francese (Aof), un territorio di quasi cinque milioni di chilometri quadrati. Oltre ai 31mila uomini già schierati allo scoppio della guerra, tra il 1914 e il 1918 Parigi ne arruolò altri 161mila. Era un disegno teorizzato da tempo, che portò circa 30mila persone a morire per i colonizzatori.

Fin dal 1910 il tenente colonnello Charles Mangin, che sarebbe poi diventato generale, aveva proposto di creare una force noire, un’armata africana per compensare il deficit demografico dei francesi rispetto al nemico tedesco, e affrontare così la “crisi di effettivi” arruolabili. Citando la camera dei deputati francese, Mangin scrisse che era “dovere di un governo” predisporre l’utilizzo di tutte le forze possibili. “Questo dovere”, argomentava, “è particolarmente imperioso per il governo della repubblica, interessato a mantenere la Francia al primo rango delle potenze militari europee”.

Il generale Mangin si guadagnò presto il soprannome di “macellaio dei neri”

Se da un lato, attraverso la grande guerra, i governi in Europa cercavano di creare un senso di appartenenza nei loro cittadini o nei loro sudditi, dall’altro queste parole mostrano come in fin dei conti le persone altro non furono che strumenti per affermarsi sulle altre nazioni. Gli interessi economici e le mire espansionistiche, in patria e nei “territori d’oltremare”, andavano tutelati a ogni costo. A discapito, in primo luogo, degli abitanti delle colonie.

Il generale Mangin si guadagnò presto il soprannome di “macellaio dei neri”, portando la Francia a sfruttare in maniera massiccia i colonizzati come “carne da cannone”. E non c’è da stupirsene, dal momento che il disprezzo per gli abitanti delle colonie era diffuso.

Il clima dell’epoca era saturo d’odio, generato anche dalle “avventure” coloniali. La spartizione delle terre d’oltremare – avvenuta tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – aveva contribuito a creare le condizioni per il divampare del primo conflitto mondiale, rilanciando l’ideologia nazionalista nella sua tendenza più aggressiva favorevole alla guerra di conquista. E l’area colpita più duramente dal feroce appetito europeo, insieme a quella del Pacifico, fu l’Africa.

Una nuova tratta
La Francia e l’alleato Regno Unito – le due potenze che con la Russia formarono la triplice intesa – nel 1914 tenevano saldamente in mano i due imperi più vasti del mondo e controllavano più di metà dell’Africa, appunto. Oltre al Belgio – un paese minuscolo con in mano una colonia gigantesca, il Congo – e alla presenza di portoghesi, spagnoli e italiani, l’altro paese che aveva occupato porzioni rilevanti del continente era la Germania.

Tra l’agosto e il settembre del 1914, con due spedizioni congiunte, l’impero francese e quello britannico attaccarono l’Africa coloniale tedesca in Togo e in Camerun, e poi militarizzarono in maniera crescente le colonie per espandere le proprie conquiste e per avere sempre nuovi uomini ai posti di combattimento. Secondo John Reader – scrittore e fotografo, profondo conoscitore del continente – nel conflitto furono coinvolti più di due milioni e mezzo di africani, vale a dire quasi il 2 per cento della popolazione: “Neppure la tratta degli schiavi era giunta a tanto”, ha scritto Reader in Africa. Biografia di un continente.

Una lapide nel cimitero del Trabuquet a Mentone, 2018. La mezzaluna è usata per indicare i tirailleurs, i soldati reclutati nell’Africa occidentale francese. (Alessandro Camillo)

Quell’area del pianeta occupata e depredata si rivelò così un bacino apparentemente inesauribile di truppe, volontarie o arruolate con le minacce e la violenza, in spedizioni che ricordano, in effetti, la tratta degli schiavi. La conversione di intere regioni alle necessità belliche indebolì l’economia locale. Per sfuggire al reclutamento forzato, ovunque si registrarono tentativi di fuga, ribellioni e passaggi di frontiera nei paesi confinanti.

In Europa i battaglioni di tirailleur senegalesi furono mandati al massacro. Così come le truppe indiane arruolate dai britannici, i quali però rifiutarono di far combattere gli africani contro o con i bianchi, nonostante gli appelli di alcuni esponenti di spicco della gerarchia militare a costituire una million black army e a non lasciare “nel continente nero una massa di materiale nero da combattimento che potrebbe essere usata per sopraffare, la prossima estate, il nemico sul fronte che conta – quello occidentale”, scrisse nel 1916 il maggiore Darnley Stuart-Stephens sulla English Review.

Durante l’offensiva di Nivelle, i morti tra gli uomini provenienti dall’Aof – soldati agli ordini del generale Mangin – furono molti di più rispetto a quelli tra i commilitoni poilu (bianchi) arrivati dalla Francia metropolitana.

Tra le tante immagini che restano impresse del conflitto c’è quella dei ragazzi africani attaccati e massacrati sul Chemin des Dames, nel gelido nord della Francia, dai soldati tedeschi.

Al cimitero del Trabuquet di Mentone una statua dello scultore Joel Vergne rappresenta quelli che della grande guerra sono i veri militi ignoti, come ha scritto Pankaj Mishra sul Guardian, in un articolo tradotto da Internazionale. Come lui anche lo storico Santanu Das stima in più di quattro milioni i “non bianchi” mobilitati nel conflitto, oltre la metà dei quali africani. Ragazzi obbligati a combattere una guerra non loro, che sono stati poi dimenticati.

Il giovane tirailleur che guarda oltre il mar Mediterraneo, dov’è la sua terra natale, rappresenta questo oblio. A indignarci non dovrebbe essere tanto il fatto che alcuni dei migranti incagliati al confine tra l’Italia e la Francia potrebbero essere i suoi pronipoti. Di fronte alle frontiere chiuse di oggi e al disprezzo nei confronti degli stranieri, a indignarci dovrebbe essere il fatto che tanti sono rimasti sordi e indifferenti agli insegnamenti della storia.

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