“Personalmente io sono stufa dei progressisti che dicono che non gliene importa di sapere con chi va a letto la gente. Quello che conta è chi si è fuori dal letto. (…) Noi siamo la gente che a tutti fu insegnato di disprezzare… ed ora noi scuotiamo le catene dell’autodisprezzo e marciamo contro le vostre fortezze di repressione”. Così scriveva Martha Shelley in un saggio del 1969 intitolato Gay is good, raccolto nel 1972 da Mariasilvia Spolato in un volume tornato d’attualità e da poco ristampato, I movimenti omosessuali di liberazione (Asterisco Edizioni 2019). Nella postfazione, Dacia Maraini commenta: “Le classi dirigenti sanno fino a che punto può essere eversivo il sesso. E comincia a saperlo anche colui che finora è stato represso in nome di una presunta normalità, la quale poi non è altro che conservazione del potere”.
La lunga storia dei movimenti Lgbtqia+ – acronimo per lesbiche, gay, bisessuali e transgender, queer, intersessuali, asessuali e tutte le identità di genere non eterosessuali e non binarie – può essere riassunta nell’idea che la normalità, la norma, sia solo un espediente che ha come obiettivo la conservazione del potere. Per questi movimenti non è giusto dire che “non importa con chi si va a letto”. Piuttosto, come ci ricorda Shelley, quello che si fa a letto dà forma a quello che si è fuori da lì.
I movimenti che prendono le mosse dall’esperienza perturbante della sessualità, dal rapporto con le proprie pulsioni, con i propri corpi e con le aspettative che questi comportano sono trasformativi proprio perché mettono in luce come la normalità sia un artificio e la norma uno strumento oppressivo, non un neutro dato statistico. Quindi si muovono sempre sul filo del paradosso: chiedono riconoscimento e al tempo stesso lottano per sovvertire e trasformare radicalmente la società.
Per questo il rapporto con la norma per eccellenza, la legge, è sempre un rapporto ambivalente: infatti questi movimenti da un lato mettono in luce come il sistema giuridico sia esso stesso patriarcale e sessista nelle sue fondamenta, più ancora che nelle singole leggi, e dall’altro invocano il riconoscimento di alcuni diritti attraverso, anche, quel sistema giuridico. In questo senso il riconoscimento della legge obbliga sempre a un uso improprio del linguaggio, che viene forzato oltre i limiti del suo significato letterale. La conseguenza di questo parziale sovvertimento è che permane sempre uno scarto tra la forza trasformativa delle rivendicazioni Lgbtqia+, che porta ai cambiamenti legislativi, e il suo risultato. E questo è anche il caso del disegno di legge contro l’omobilesbotransfobia, il ddl Zan, attualmente in discussione in parlamento.
Aggressioni quotidiane
La legge, che prende il nome dal suo relatore, il deputato del Partito democratico Alessandro Zan, risponde a una situazione concreta: in Italia le aggressioni nei confronti di gay, lesbiche, trans, bisessuali e persone che manifestano comportamenti che non si conformano alle norme di genere sono quotidiane, costanti e spesso taciute. Non solo: secondo il rapporto Rainbow Europe di Ilga, l’Italia riconosce alle persone Lgbtqia+ il 23 per cento dei diritti che garantisce agli altri cittadini. Il 62 per cento delle persone afferma di non dichiarare mai o mai completamente il proprio orientamento sessuale e la stessa percentuale sostiene di non tenere per mano il partner in pubblico per paura di aggressioni. Il 92 per cento delle persone Lgbtqia+ pensa che l’Italia non conduce per nulla o quasi per nulla “una lotta efficace ed effettiva contro l’intolleranza e il pregiudizio”. E questo, come sottolinea Massimo Prearo, ricercatore del Centro di politiche e teorie della sessualità dell’università di Verona, significa che nove persone Lgbtqia+ su dieci in Italia “non si sentono protette dallo stato e dalle istituzioni, non si sentono considerate o addirittura si sentono escluse e dimenticate. Nove persone Lgbtqia+ su 10 in Italia “non si sentono pienamente cittadine e cittadini”.
La legge contro l’omobilesbotransfobia prova a colmare questo vuoto, proponendo delle aggiunte alla legge Mancino, che condanna chi diffonde odio razziale e incita a crimini su questa base. Questo è di per sé rilevante, perché riconosce una realtà a lungo sperimentata da una parte del movimento Lgbtqia+ e transfemminista: le alleanze tra persone Lgbtqia+ e persone oggetto di razzismo e l’idea che non si possa lottare per i propri diritti senza riconoscere quelli degli altri. Chiedendo l’estensione della legge Mancino, invece che una legge ad hoc, il ddl Zan riconosce, a differenza di altre proposte di legge contro l’omofobia (che si susseguono dal 1996), il carattere divisivo, conflittuale, politico dell’inclusione che si richiede, perché s’inserisce in una legge di chiara impostazione antifascista. Il testo aggiunge quindi alle discriminazioni basate sull’odio razziale quelle che riguardano “l’identità sessuale della vittima”, intendendo con identità sessuale “l’insieme, l’interazione o ciascuna delle seguenti componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale”.
Certamente questo può essere un esempio di linguaggio che si serve di termini dai significati mutevoli e aperti, sempre in divenire a seconda delle lotte che li accompagnano, ma che allo stesso tempo ci dice che sottrarsi alle norme di genere provoca aggressioni. E questo è utile non tanto per garantire una maggiore repressione o pene più aspre – che arrivano dopo che i fatti sono compiuti e che non sono una risposta efficace a problemi strutturali della società – ma per fissare un confine tra cosa è accettabile e cosa no e per mettere in campo forme di tutela preventiva (analisi statistiche per conoscere meglio il fenomeno, percorsi formativi) e di supporto reale, come i centri antiviolenza, oggi quasi assenti in particolare per uomini gay e persone trans.
Questa legge non può rispondere al carattere strutturale della violenza omobilesbotransfobica, che non è, come non lo è la violenza sulle donne, un’emergenza o un’eccezione, ma uno strumento con cui la norma viene riprodotta.
Del resto il sistema giuridico in cui s’inserisce non fa che rafforzare la discriminazione che la nuova legge dovrebbe combattere, sia attraverso la negazione di diritti a una percentuale consistente di popolazione, sia attraverso l’impianto stesso delle norme, la cui supposta neutralità presuppone sempre un soggetto maschile. La violenza, in altre parole, è perfettamente coerente con la norma, e non si limita a negare diritti e riconoscimento, ma rischia di ridurre l’identità delle persone a quella passiva di vittime, che come tali non possono fare altro che chiedere protezione. Questa prospettiva vittimizzante permette ai difensori dell’eteronormatività e del patriarcato di concedere qualche protezione senza modificare i rapporti tra soggetto e oggetto, superiore e inferiore, attivo e passivo che la norma stabilisce.
Lottare contro questa dimensione strutturale, perciò, significa abbandonare questa prospettiva e in primo luogo dare spazio alla lunga storia e alle molte pratiche di autodifesa e di complicità che la storia dei movimenti Lgbtqia+ e femministi ci consegna. Ma senza mai dimenticare che sottrarsi alle norme di genere vuol dire stare politicamente sul filo del paradosso, tra inclusione e sovversione. Significa sostenere la sfida di costruire delle soggettività, degli io che possono diventare noi, sempre aperti e mutevoli. Si possono prendere gli strumenti che la legge offre (come lo stanziamento di fondi per i centri antiviolenza) senza lasciarsene addomesticare (per esempio facendo di quei centri antiviolenza dei luoghi politici di lotta). E leggere quell’”identità di genere” nel testo della legge come un significante aperto al futuro, alle identità che possono sorgere dalla rivendicazione di una differenza che mette in scacco la norma. Lottare contro la discriminazione e l’odio verso le persone Lgbtqia+ significa riconoscere la parzialità all’interno di quel noi mutevole che ci accomuna come femministe, transfemministe e soggetti Lgbtqia+, e continuare a interrogarci su quello che facciamo di ciò che è stato fatto di noi. Significa scegliere di essere soggetti politici che subiscono violenza ma che da quella sanno partire per sradicare la norma che la produce.
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