30 giugno 2022 17:17

Fin dai primi mesi della rivoluzione, gli attivisti siriani hanno usato i loro telefoni come armi di difesa. Nel contesto di un regime dittatoriale dove l’informazione indipendente era totalmente assente, i social network rappresentavano un formidabile strumento di comunicazione con il mondo che smentiva la propaganda statale.

L’entusiasmo per la potenza dei social network e per il citizen journalism è stato importantissimo in Siria: per la prima volta si scopriva l’importanza dei telefonini per documentare in diretta la violenza contro la popolazione e per svelare i crimini di guerra del regime, delle milizie islamiste e dal 2015 dell’offensiva russa a sostegno del presidente Bashar al Assad.

A partire dal 2015 però, un’altra guerra, basata sulla disinformazione online e sulle teorie del complotto, ha screditato e messo in pericolo numerosi attivisti e organizzazioni siriane. Uno studio intitolato Deadly disinformation, promosso dalla Syria campaign e realizzato dall’Institute for strategic dialogue (Isd), ha analizzato decine di migliaia di tweet in lingua inglese e post di Facebook e Instagram che hanno preso di mira attivisti siriani e organizzazioni umanitarie, attaccandole con potenti campagne di disinformazione e teorie del complotto tra il 2015 e il 2021.

Il caso dei Caschi bianchi siriani
Il gruppo di volontari siriani chiamato Caschi bianchi è stato il primo a prestare soccorso dopo i bombardamenti. Quando i volontari hanno cominciato a indossare telecamere go-pro sui loro caschi per documentare gli orrori del conflitto in tempo reale “sono diventati una vera minaccia al regime di Assad e come tale, sono diventati il bersaglio principale delle campagne di disinformazione”, spiega il rapporto, “con oltre 21mila tweets cospirazionisti lanciati contro di loro”.

Più i Caschi bianchi attiravano l’attenzione, come quando furono nominati per il Nobel della pace nel 2016 o quando il documentario Netflix su di loro vinse l’Oscar nel 2017, più le campagne di disinformazione si facevano violente. Gradualmente, i Caschi bianchi da eroi sono passati a essere descritti come terroristi. E anche per chi non si fidava fino in fondo delle teorie del complotto, il dubbio era ormai insinuato.

La disinformazione permette anche di giustificare l’inerzia della comunità internazionale

Il gruppo di ricerca ha usato Brandwatch, una piattaforma online di archiviazione dati che permette di analizzare consumi e comportamenti, e CrowdTangle, una piattaforma di ricerca di proprietà della Meta, per cercare i contenuti pubblicati su Twitter, Facebook e Instagram dagli attori selezionati tra il 1 gennaio 2015 e il 31 dicembre 2021 (circa 900mila tweet).

Seguendo questa metodologia, la ricerca ha individuato il funzionamento della rete di complottisti. Comincia con 28 giornalisti che giustificano Assad, come la freelance Vanessa Beeley o il giornalista Aaron Maté di Greyzone che si “fanno portavoce di molti argomenti del Cremlino: un articolo scritto da Maté mette in dubbio le indagini dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw)”. Ed è stato il link più condiviso online tra il 2020 e il 2021. Entrambi i giornalisti sono anche stati invitati dalla Russia alle Nazioni Unite per difendere il governo siriano dalle accuse di uso di armi chimiche.

Il doppio colpo
Da questi 28 account di giornalisti, continua il rapporto, parte la seconda fase della disinformazione online: un totale di tre milioni di account di cui 1,8 milioni con un solo follower. Così, i 19mila tweet originali di questi complottisti sono stati ritwittati più di 671mila volte.

Oltre agli account fasulli, un’importante fonte di disinformazione proviene dagli account ufficiali del governo russo. I ricercatori ne hanno monitorati tre – quello dell’ambasciata russa in Siria, quello dell’ambasciata russa nel Regno Unito e quello della missione russa presso le Nazioni Unite – scoprendo che “hanno svolto un ruolo particolarmente importante durante il picco di disinformazione successivo all’attacco chimico a Duma nell’aprile 2018”, mese in cui questi tre account accumularono 13mila retweet, il 13 per cento di tutti i retweet di disinformazione in quel periodo.

Il punto più cruciale emerso dalla ricerca è l’impatto dei retweet cospirazionisti sulla vita reale delle persone. Definire “terrorista” chi riesce a testimoniare subito cos’è accaduto sui siti dei bombardamenti permette di squalificare i testimoni di potenziali crimini di guerra ma soprattutto consente la pratica del “doppio colpo”, spiega Hamid Kutini, volontario dei Caschi bianchi in Siria nordoccidentale: il regime e la Russia bombardano una seconda volta poco dopo i primi bombardamenti per uccidere i soccorritori. È certamente più facile giustificare questi bombardamenti se i soccorritori sono “terroristi”.

La disinformazione permette anche di giustificare l’inerzia della comunità internazionale, spiega un ex diplomatico occidentale intervistato dai ricercatori: in questo modo paesi più lontani dal conflitto, come l’India e il Brasile, non prenderanno posizioni forti sulla Siria all’Onu accettando la “complessità della situazione”.

Per i soccorritori, per le vittime di attacchi con armi chimiche o per i sopravvissuti ai crimini di guerra in Siria, l’odio online è “sale sulle ferite”. Una negazione di tutto quello che hanno sopportato, “una negazione dei fatti stessi che hanno devastato le loro vite”, conclude il rapporto.

Le teorie del complotto che hanno provocato tanti danni in Siria, avvertono gli attivisti siriani, avranno ripercussioni in Ucraina: i mezzi d’informazione russi hanno già accusato i Caschi bianchi di avere inviato terroristi in Ucraina.

Lina Sergie Attar, fondatrice della Karam foundation, che si occupa di rifugiati siriani, avverte: “Gli eroi di oggi sono i nemici di domani. La Russia sta giocando la stessa partita in Ucraina. I mezzi d’informazione occidentali sono sul campo ora, ma quando le telecamere si gireranno da un’altra parte e le persone perderanno interesse, la Russia potrà rimettere tutto in dubbio e allora le persone si chiederanno: cosa sta succedendo veramente in Ucraina?”.

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