08 settembre 2023 11:00

Domenica 27 agosto, 12 milioni di studenti francesi si preparavano a tornare a scuola il giorno dopo. La prima misura del nuovo ministro dell’istruzione francese, Gabriel Attal, per accompagnare il loro rientro, è stata annunciata con grande enfasi al telegiornale del primo canale, Tf1: a scuola sarà vietato indossare l’abaya e il qamis, due vestiti lunghi per donna e uomo, tradizionali nei paesi del golfo.

Una settimana dopo, lo stesso Attal ha annunciato che 67 studentesse sono state rimandate a casa per aver violato il divieto. In percentuale, sui 12 milioni di studenti, il fenomeno è assolutamente marginale.

Il tenore e la violenza del dibattito sui divieti degli indumenti a connotazione mediorientale o musulmana sta diventando invece un elemento centrale nella polarizzazione politica francese: i difensori del divieto insistono sulla tutela della laicità, per molti altri si tratta dell’ennesima stigmatizzazione di una parte della popolazione francese.

Che cosa sono l’abaya e il qamis?
Il quadro giuridico invocato dal ministro si rifà alla legge del 2004, che vieta qualsiasi segno religioso “ostentatorio” a scuola. Ed è proprio questo che rifiutano molti musulmani francesi, a cominciare da Abdallah Zekri, vicepresidente del consiglio francese per il culto musulmano, che assicura che “l’abaya non è un abito religioso, bensì un’espressione della moda”.

L’associazione Action droit des musulmans ha dal canto suo depositato un ricorso al consiglio di stato, che ha cominciato il suo esame il 5 settembre in quanto questo divieto “viola i diritti dei minori, perché prende principalmente di mira ragazze e ragazzi musulmani, creando così un rischio di profilazione etnica a scuola”.

Il velo islamico era già stato vietato a scuola dal 2004, ma il fatto di indossare solo l’abaya o il qamis non può essere considerato automaticamente un segno religioso. Da dove provengono questi nuovi indumenti?

I grandi marchi della moda propongono nuove versioni dei vestiti tradizionali mediorientali, sia per le donne sia per gli uomini

Il successo che sta vivendo la modest fashion in tutti i paesi musulmani è dilagante, ed è ora ripreso e adottato dalle adolescenti francesi che seguono i social network della regione.

Il nuovo soft power che gli Emirati, come Dubai o Qatar, o l’Arabia Saudita esercitano nel mondo arabo e musulmano si è tradotto negli ultimi anni in un vero trend, anche molto redditizio per l’industria della moda in Medio Oriente: molte donne influencer di Dubai, Doha o Riyadh, con i loro vestiti lunghi o indumenti “modesti”, competono in eleganza tramite i loro account su TikTok o Instagram.

Così le adolescenti musulmane francesi che le seguono indossano “l’abaya color corallo perfetta per l’estate”, e si chiedono quale sia la differenza tra un vestito ampio e l’abaya “almeno che non sia il nome di chi lo indossa a fare la differenza, per esempio se si chiama Rachida o Justine”, o propongono alternative sempre modest friendly.

Le abaya, vestiti tradizionali della regione, con le loro maniche larghe e lunghezze ampie, sono recentemente tornate di moda con nuove interpretazioni anche attraverso un’intera linea creata da Dolce e Gabbana intitolata “L’alba di una nuova eleganza” e ispirata “alla grazia e alla bellezza dell’Arabia, con camicie morbide abbinate a pantaloni, tuniche allungate, mantelle eleganti e abiti sofisticati”. Il qamis, la versione maschile meno discussa in questi giorni, è il vestito bianco lungo portato da molti uomini nei paesi del golfo o in Africa, che non ha una particolare valenza religiosa.

Moda islamica, islamismo, terrorismo
La forte polarizzazione politica intorno a semplici indumenti mediorientali, scrive sul Guardian la sociologa Kaoutar Harchi, deriva dal fatto che tutto quello che viene dai paesi del golfo è considerato per definizione una moda che spinge all’islamismo e al jihad globale. Harchi sottolinea anche come immediatamente si suppone che queste adolescenti francesi “in quanto donne e ‘straniere’, stiano cospirando contro la nazione francese”.

In mezzo alla polemica, i credenti cercano di portare il dibattito su altri livelli. Il filosofo Abdennour Bidar, specialista dell’islam, non prende posizione ma invita i musulmani a vedere questi attacchi del governo francese come un’opportunità: “Questo divieto che arriva dall’esterno può ricordarci che la fede è una questione intima, che non si mostra con i vestiti o esteriormente, ma si vive e si esprime nel profondo”. In un podcast dedicato alla questione, l’avvocato cattolico Jean-Pierre Mignard ha invece ricordato che la lotta tra la laicità francese e i cattolici si è conclusa con l’apertura di scuole private cattoliche, un movimento che ricorda quel “separatismo” tanto temuto dal governo francese, che accetterebbe difficilmente l’apertura di scuole private musulmane.

Così, mentre il portavoce del governo Olivier Veran dichiarava che l’abaya è “ovviamente un segno religioso”, un “attacco politico” che porta “al proselitismo”, il presidente Macron dichiarava che davanti alle “proporzioni folli” che sta prendendo la polemica c’è bisogno di “smorzare il dibattito” e ha proposto la possibilità di introdurre “un’uniforme (tenue unique) che potrebbe risolvere molti problemi”.

Il presidente Macron, difendendo la legge davanti alla giovane star francese di YouTube Hugo Décrypte, ha collegato nello stesso dibattito il divieto della veste lunga e l’assassinio di Samuel Paty, il professore ucciso da un ceceno di 18 anni perché aveva discusso della libertà di espressione in classe mostrando le vignette di Charlie Hebdo.

Visto dai mezzi d’informazione arabi, come Al Quds al Arabi, il governo francese “usa questi attacchi alla minoranza musulmana per evitare di parlare dell’alto livello di abbandono scolastico nel paese, o della mancanza di quattromila insegnanti per le scuole”.

L’emittente Al Jazeera dà invece la parola a Loubna Regui, presidente dell’organizzazione Étudiants musulmans de France, secondo cui il divieto è “intrinsecamente razzista: insieme all’Afghanistan e all’Iran, la Francia è l’unico altro paese a legiferare su ciò che le donne possono e non possono indossare”.

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