Dal 7 ottobre il conflitto tra Hamas e Israele ha dato di nuovo forza a una narrazione su Israele e Palestina che va avanti dal 1948 e ha come elementi principali uomini che imbracciano armi, bombardamenti, promesse di vendetta, vite spezzate e città rase al suolo.

Ogni tanto bisognerebbe allontanarsi da questa visione. Un modo per farlo è vedere Bye bye Tibériade di Lina Soualem. Presentato alle Giornate degli autori durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia, al festival internazionale di Toronto e nominato per rappresentare la Palestina agli Oscar, il film di Soualem mette al centro la versione delle donne sull’espropriazione, l’esilio e il conflitto israelo-palestinese.

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Per ricostruire la storia della sua famiglia, la regista riporta la madre, Hiam, nel suo villaggio di Deir Hanna, che ora fa parte di Israele. Lì ritrovano la madre di Hiam e le sue sette sorelle. Diverse generazioni di donne palestinesi che sono riuscite a tenere insieme i fili della memoria, anche grazie alla sorellanza.

Una di queste donne è piuttosto famosa: Hiam Abbas, madre della regista, è anche una delle più importanti attrici del mondo arabo. I suoi ruoli – da La porta del sole di Yousry Nasrallah a Paradise now di Elia Souleiman – sono tutti iconici. Interpreta anche uno dei personaggi principali della serie tv statunitense Succession.

Quando sua madre e le sette sorelle si ritrovano a Deir Hanna, a pochi chilometri dal lago di Tiberiade, in Galilea, bevono caffè e fumano, punzecchiandosi di continuo. Le immagini del ritorno sono interrotte da flashback che ci riportano agli anni settanta e ottanta. Lina Soualem è andata a frugare tra i filmati in super 8 di matrimoni e momenti familiari, ricordi di tutte le sue estati passate in Palestina, dove tornava ogni anno con la madre. Chiacchiera dopo chiacchiera, immagine dopo immagine, riesce a tessere la trama di una piccola vicenda, quella delle donne della sua famiglia, fittamente intrecciata alla storia più ampia dei palestinesi.

Sua nonna, Um Ali, fu testimone della guerra del 1948. Cacciata da casa sua dai soldati israeliani e britannici, si rifugiò in Libano. Da lì Hosni, una delle sue sorelle, attraversò la frontiera con la Siria, finendo per rimanere bloccata tutta la vita a Yarmuk, il più grande campo profughi palestinese del paese. Le due donne si sono potute rivedere solo dopo trent’anni, anche se vivevano a pochi chilometri di distanza.

Con un marito “diventato pazzo e morto di dolore”, Um Ali ha dovuto crescere da sola, e con una sola macchina da cucire, i suoi otto figli. Nemat, una delle figlie di Um Ali, è una professoressa e ha a sua volta cresciuto da sola i suoi dieci figli, otto femmine e due maschi.

Hiam Abbas ha invece lasciato il villaggio a vent’anni di sua volontà, in cerca di libertà. Quando sua figlia Lina decide di ripercorrere le storie delle donne della famiglia si accorge che non è facile: lo scontro tra generazioni è molto forte. Tutte queste donne, dotate di una resistenza fuori dal comune, vivono secondo la regola “Never explain, never complain” (Mai lamentarsi, mai spiegare), Hiam Abbas compresa. E alle insistenti domande di Lina, la madre risponde con un tono irresistibile, tra l’infastidito e il materno: “Ya, Lina… Cosa cerchi? Cosa vuoi da me? Non aprire le ferite del passato”. Ma è proprio quello che la regista sta cercando di fare.

Una di queste ferite riguarda il rapporto di Hiam Abbas con i genitori. Partita giovanissima dal villaggio palestinese in cerca di una carriera artistica in Europa, aveva rapporti conflittuali con il padre e la madre, usciva con i ragazzi senza nascondersi, e per questo provocava scalpore. Le sorelle si divertono a ricordare le ribellioni di quand’era adolescente, raccontando davanti alla telecamera i motivi che la spingevano a cercare la libertà con tanta passione.

Lina è la prima donna della sua famiglia a essere nata fuori dalla Palestina. Alla ricerca della sua identità, parla a volte arabo, a volte francese, sentendosi un po’ a metà tra due mondi. Come molte persone della diaspora non vuole perdere le sue radici e lavora per ricomporre la memoria della sua famiglia. Suo padre è l’attore francese di origine algerina Zinedine Soualem. Prima di cominciare questo lavoro su sua madre, Lina ha realizzato un documentario su di lui e il suo paese, Leur Algérie.

“Attraverso Hiam, Um Ali, Nemat, le mie zie, vorrei cercare di rispondere alla domanda che mi tormenta: come abita il mondo una donna? Le storie qui raccontate non sono solo vicende tramandate da una donna all’altra, o da una madre alle figlie. Intrecciano la storia di un popolo che si è visto negare l’identità, costretto a reinventarsi costantemente. È una storia fatta di luoghi scomparsi, esperienze trasformate, ricordi sparsi”.

In una scena del documentario Hiam Abbas racconta bene il conflitto israelo-palestinese. Dal balcone della sua vecchia casa guarda in lontananza e dice: “Di qua c’è il mare, di là ci sono il Libano, la Siria, la Giordania… e poi ci siamo noi, qui in mezzo”. Niente invettive. Niente grandi sistemi geopolitici. L’ironia e la saggezza femminile spiegano in poche parole il senso di smarrimento di chi, dal 1948, vive come rifugiato in quella che un tempo era casa sua.

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