03 febbraio 2016 15:20

È più raro e impopolare, rispetto a qualche anno fa, condannare le unioni civili. Sebbene permangano proteste particolarmente arretrate, la furia si è spostata sulla maternità surrogata. “Gli adulti va bene, ma i figli?”. Schiavitù, sfruttamento, mercificazione, sacralità della madre sono i termini che ricorrono in un dibattito sbilenco e caratterizzato da argomenti emotivi e irrazionali.

La maternità surrogata ha compiuto anche una specie di miracolo: ha messo d’accordo ultraconservatori, prolife, entusiasti o ignari partecipanti al Family day e femministe di tutto il mondo (o almeno alcune di loro). Ieri il comunicato dell’associazione ProVita, “Elisa Gomez: il dramma di una madre surrogata”, e il convegno internazionale per il divieto universale della surrogata, organizzato da alcune associazioni lesbiche e femministe presso l’assemblea nazionale di Parigi, sembravano provenire dallo stesso schieramento. Mano nella mano. Contrari alla surrogata di tutti i paesi, unitevi!

Il comunicato di ProVita sulla conferenza stampa di ieri in senato è perfetto: “Maternità surrogata: voce alle vittime”. Si prende un caso singolo, quello di Elisa Gomez, e lo si rende legge universale.

Accanto a Gomez si elencano parole magiche come “dramma”, “madre” (anche se surrogata – che poi ci sarebbe molto da dire sulla frammentazione della madre e sulla conseguente necessità di intenderci sulle parole che usiamo; la gestazione non è una condizione né sufficiente né necessaria per essere madri), “pittrice, organizzatrice di mostre, terapeuta a fianco di disabili e malati” (perché se faceva la ballerina di lap dance sarebbe stata meno presentabile) e si parla di scelta compiuta per necessità.

Ora, o scegli o sei soggiogato dalla necessità. Ma andiamo avanti.

L’ossessione per la coercizione e l’illusione che sia lo strumento migliore è una malattia recente

Il “dramma senza fine” di Gomez è il suo rimpianto. Dieci anni fa ha fatto da portatrice in una maternità surrogata per una coppia gay. Chissà se il rimpianto sarebbe stato diverso con una coppia etero.

Gomez ora è pentita. Consumata dal rimpianto di quella scelta (per necessità, ribadiamo il nonsense).

È il rischio insito nella possibilità di scegliere: pentirsi. Ma cosa significa questo, al di là della storia singola? Quasi nulla. Soprattutto se si evita con cura di citare quante donne hanno scelto (ripeto, scelto) di offrirsi come portatrici e non si sono pentite.

Come non significa nulla tentare la stessa fallace strategia con l’interruzione volontaria di gravidanza (è l’invenzione della sindrome post abortiva) e come non serve in nessun altro caso.

Se Mario si è sposato liberamente e poi ha divorziato e ora è pentito, sono forse da condannare i matrimoni, i divorzi e la facoltà di scegliere? Se ha fatto amicizia con qualcuno che poi l’ha tradito e derubato, dobbiamo salire su una sedia e declamare: “Non fate amicizia con nessuno perché sarete traditi e derubati!”. Anzi, vietiamolo per legge così stiamo più tranquilli.

L’ossessione per la coercizione e l’illusione che sia lo strumento migliore è una malattia recente. Dopo la faticosa conquista delle libertà, assistiamo a un rinculo di bigottismo e paternalismo e moralismo che nemmeno nel ventennio, spesso da parte di chi gode di quelle libertà (in senso formale e sostanziale, negativo o positivo per dirla con Benjamin Constant). Pensare poi che la coercizione possa risolvere tutte le difficoltà è il risultato di una miopia imbarazzante. Qualcosa non vi piace? Vietiamola! Facciamo moratorie universali! Lanciamo petizioni, tanto basta firmare mica serve capire. Se siamo tanti, allora vuol dire che abbiamo ragione! Nemmeno fosse una riunione di condominio.

Al contrario, è indicibile il pensiero opposto: ho fatto un figlio, faccio la madre e sono pentita

Se Gomez ha potuto scegliere, poi, è bizzarro che si presti alla volontà di negare la scelta agli altri. Ma gli ex fumatori sono spesso i più feroci intolleranti verso i fumatori attuali. Anche se vivono altrove. È una intolleranza esistenziale, una forma di io ti salverò e, soprattutto, è per il vostro bene. Le avete viste le lastre dei fumatori?

È ancora più facile essere paternalisti a posteriori o essere certi, tardivamente, della scelta giusta. Ed è anche facile pentirsi di aver rinunciato a un figlio quando si è fatta questa scelta. Al contrario, è indicibile il pensiero opposto: ho fatto un figlio, faccio la madre e sono pentita. Mai, nessuna donna mai può pentirsi di essersi riprodotta e di fare la madre!

In altre parole, le strade dei nostri pentimenti e dei possibili rimorsi sono tortuose e a volte imprevedibili. Ogni volta che scegliamo X escludiamo tutti i non X, e a volte la scelta è faticosa, conflittuale, contraddittoria. È quella meno insoddisfacente o meno dannosa. A volte può essere sbagliata, ma la valutazione tardiva è spesso annebbiata da un revisionismo emotivo e contestuale che non giova alla lucidità dell’analisi.

Manco a dirlo, il rimpianto non dimostra nulla, né può sostenere un’accusa o costituire la base per la coercizione legale.

ProVita poi insiste: la “nuova schiavitù degli uteri in affitto”, una “forma di tratta di esseri umani”, il “mercato di donne e bambini”.

Era già successo con la storia di Baby M, e in quel caso ci furono addirittura inseguimenti e fughe. Anche allora, come per Gomez, la portatrice aveva donato l’ovulo, quindi la gestante era anche madre genetica. Ancora una volta dovremmo ripetere quanto già detto: un incidente non fa una regola, non dimostra l’immoralità di una scelta o la ripugnanza di una decisione.

Sempre ieri c’è stato un incontro mondiale a Parigi per vietare in tutto il mondo la surrogacy – o meglio, per abolirla. È confortante che nella Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata, firmata alla fine del convegno, non si faccia distinzione tra casi, giudicando intrinsecamente questa pratica come una forma di sfruttamento e altri orrori. È anche consolante che gli abusi vengano confusi con le scelte (oh, no, nessuna donna può scegliere diversamente da quanto stabilito da queste femministe).

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