05 maggio 2015 18:06

“Abbiamo scioperato quasi tutti”, “Da noi la scuola era chiusa”, “Studenti, docenti, personale amministrativo, gli Ata, pure il preside: stiamo tutti qui”.

Questa Buona scuola non piace praticamente a nessuno. La riforma (che continua a non essere chiamata riforma, nonostante la profondità del suo intervento) con cui il governo di Matteo Renzi ha inaugurato la sua legislatura e su cui immaginava di incassare un ampio consenso, sta producendo, al contrario, un fronte di opposizione compatto e soprattutto agguerrito in modo molto inedito per questi tempi.

La manifestazione a Roma. (Filippo Monteforte, Afp)

Il presidente del consiglio, la ministra dell’istruzione Stefania Giannini o il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone hanno molto insistito in questi giorni sulla pretestuosità delle manifestazioni, liquidandole come sciopero politico, ripetendo a ritornello che c’è già stato molto ascolto e che ora è tempo di decisioni, e insistendo che chi protesta non conosce nemmeno il merito della Buona scuola e per questo non l’apprezza.

Ma è bastato semplicemente partecipare a uno dei corposi cortei del 5 maggio per capire che se c’è una cosa di cui non si possono accusare gli insegnanti è di essere impreparati sulle questioni che riguardano il disegno di legge (qui il testo), e la politica della scuola in generale.

Gli aspetti critici che vengono sottolineati in modo puntuale riguardano l’ideologia che la ispira, l’impianto generale, e i singoli articolo del testo: davvero non passa nulla.

Un’insegnante di un istituto comprensivo di Rieti dice: “Si sono dimenticati i princìpi della rivoluzione francese. Forse non l’hanno studiata. Nella Buona scuola non c’è libertà se c’è un preside manager che giudica i docenti in modo arbitrario, non c’è uguaglianza se con il 5 per mille si creano scuole di serie A e serie B, e non c’è fratellanza se si crea una divisione tra insegnanti precari e insegnanti precari, e se non c’è ascolto da parte del governo”.

Il “preside manager” è un bersaglio condiviso. Il comma criticato è il numero 2 dell’articolo 7 del ddl, dove si dice: “Il dirigente sceglie i docenti più adatti a soddisfare le esigenze della scuola”. “Quali sono i criteri con cui il dirigente sceglie o individua un insegnante? Insomma, il come è l’essenza della democrazia”, dice Alessio, un docente romano di filosofia. E poi insiste: “Tutta la parte sul preside è assurda. Il comma 3, per esempio, dove si dice che si può utilizzare personale docente di ruolo in classe di concorso diverse da quelle per la quale possiede l’abilitazione, purché possegga il titolo di studio valido all’insegnamento. Tradotto: io che ho studiato filosofia posso insegnare arte perché ho fatto un paio di esami all’università. Secondo me non va bene. La filosofia deve insegnarla chi ha sudato sui testi di filosofia e chi si è abilitato a insegnarla, e la storia dell’arte deve studiarla chi conosce a fondo la storia dell’arte. Su questo punto sono gentiliano, evviva il contenuto! L’insegnamento delle materia affini è pericoloso perché porta a una cultura manualistica e fondata solo su Wikipedia”.

Lo strapotere che assumerebbero i dirigenti scolastici vuol dire “creare di fatto una forma di sudditanza”, spiega un gruppo di insegnanti di Napoli. “Soprattutto se leggi il comma dove si dice che il dirigente attribuisce incarichi di durata triennale rinnovabile; in pratica la scuola diventa un’agenzia interinale”, e due colleghe della scuola media Purificato alla Cecchignola a Roma concordano: “Si precarizzano gli insegnanti. Che continuità didattica si immagina con contratti triennali?”.

“È la definitiva distruzione degli organi collegiali, che erano già stati svuotati, ridimensionati, e che diventano una coorte”, fanno eco gli insegnanti dell’istituto comprensivo Gandhi a San Basilio a Roma.

Peggio dell’articolo 7 viene però trattato l’articolo 21 del ddl, quello che si intitola: “Delega al governo in materia di Sistema Nazionale di Istruzione e Formazione”.

“È una delega in bianco su una materia così delicata e fondamentale per la democrazia come la scuola”, “Questo ddl è solo il cavallo di Troia per dare all’esecutivo carta bianca per la distruzione della scuola, e l’articolo 21 è la porcata peggiore”. “La qualità democratica della scuola italiana si fonda su tre princìpi: cooperazione, corresponsabilità e condivisione. Con questa riforma li puoi buttare al cesso”.

Due docenti dell’istituto tecnico commerciale Crocetti Cerulli di Giulianova che sono già brutali nel bocciare tutto il testo comma per comma, sull’articolo 21 s’infiammano: “Non c’è nulla da salvare, niente sulla dispersione scolastica, niente sul diritto allo studio, nulla sul multiculturalismo… E intanto si danno tredici deleghe in bianco all’esecutivo che potrà deliberare su materie fondamentali come gli ordinamenti, gli orari, la contrattazione, i cicli, gli orari… Mettici anche la svendita ai contributi privati… Vuoi sapere cosa è successo a scuola nostra? Mica sventola la bandiera della repubblica, sventola quella della Bosch”.

La Bosch?

“Sì, l’azienda di elettrodomestici, che finanzia la scuola, e la preside è costretta a dargli spazio. Questo significa legare la scuola al territorio secondo le idee della riforma. Oggi è la Bosch, ma che facciamo se non ci sono imprese nei dintorni?”.

Già, perché invece l’articolo 15 prevede che le famiglie possano devolvere il 5 per mille alla scuola dei propri figli. E questo, secondo molti, porterà a un’iniqua distribuzione delle risorse.

“Io insegno in una scuola dell’alto reatino”, mi blocca una docente delle medie, “dove sto io non c’è più nulla economicamente, hanno anche chiuso il distributore di benzina, me lo dici se dovessimo campare con le risorse del territorio, cosa accadrebbe? Che avvenire gli do a questi ragazzi?”.

Scuole di serie A e serie B, appunto; ma da quello che si percepisce, anche di serie C, D, fino a Y e Z.

Giuseppe Benedetti, insegnante di italiano e storia del Tasso di Roma, oggi è in piazza sotto il sole, qualche mese fa scriveva sul suo blog di Left:

Con l’attuale ddl l’autonomia assume sempre più chiaramente il valore di un invito del governo alle singole istituzioni scolastiche ad affinare l’arte di arrangiarsi. Nell’ottica di chi l’ha generato, l’istruzione deve diventare una spesa privata corrispondentemente a scelte private. In questa direzione vanno la frantumazione dei curricula nazionali, la possibilità di versare ai singoli istituti il 5 per mille, con esiti prevedibilmente diversi tra zone ricche e aree povere.

Ma se sulle questioni organizzative prevale l’indignazione, sulla formazione è il sarcasmo a farla da padrone. Un docente romano che ha vinto il concorso – è al primo anno in classe e insegna al liceo artistico di Civitavecchia – racconta: “In queste settimane sono costretto ad andare tutti i pomeriggi a Cerveteri per il corso di formazione per neoassunti. Ieri l’argomento era Autovalutazione e autoapprendimento. In pratica un’insegnante della primaria ci raccontava dei problemi di sua figlia al liceo che prende sette e vorrebbe prendere otto. Da mamma è molto arrabbiata con l’insegnante”.

Luisella dal Prà, che è stata per molto tempo coordinatrice della Ssis delle materie umanistiche a Roma, è sconfortata: “Ci abbiamo provato per anni a ripensare le scuole di formazione per gli insegnanti. Non c’è nulla da fare. Le hanno continuate a pensare come un parcheggio per i portaborse e i precari dei professori universitari. Dopo la Ssis abbiamo fatto un sacco di incontri, e abbiamo elaborato molte strategie anche con gli ex studenti. Poi hanno messo su questo Tfa che è ridicolo, con un mese di tirocinio in classe. Io mi sono rifiutata di partecipare ancora come coordinatrice a questo scempio”.

I cahiers de doléances di scuola in scuola risuonano l’un l’altro, ma non compongono una voce monotona. Ogni istituto ha le sue problematiche, ogni classe la sua specificità, ogni studente è un caso a sé. “Un insegnante è in continua sperimentazione. Non esistono formule. Per questo non aver ascoltato le varie componenti della scuola è il più grave errore di questa Buona scuola”. Eppure, come è immaginabile, i documenti non sono mancati.

Patrizia Borrelli, un’insegnante dell’istituto comprensivo Purificato a Roma, dopo aver tracciato uno spartito di note dolenti – edilizia scolastica, stato di salute delle classi (“abbiamo le processionarie a scuola”), il tempo pieno che da Gelmini in poi è stato falcidiato, i ragazzi con i Bes (i bisogni educativi speciali) che sono speciali solo sulla carta, la dispersione scolastica… –, tira fuori dalla borsa un libretto del 2013: Idee ricostruttive per la scuola (qui l’intero pdf). L’hanno realizzato vari docenti ed esperti per il Forum istruzione creato nel 2010 dal Partito democratico, e coordinato da Giovanni Bachelet. “Era una roba del Pd, era il risultato di due anni di lavoro, e dentro c’è tutto l’opposto di questa riforma. Bachelet a un certo punto ha capito l’andazzo e si è arreso anche lui”.

Come dire: ci avevamo sperato. Del resto, anche a risfogliare il programma del Pd sulla scuola alle ultime elezioni, “L’Italia giusta”, si poteva leggere:

La scuola non ha bisogno di grandi riforme, ha bisogno di certezze, stabilità e soprattutto di fiducia. Fiducia dopo i tagli di Berlusconi-Tremonti-Gelmini, dopo gli insulti ricevuti, dopo le stagioni Moratti-Gelmini la cui direzione ideologica è stata quella di smantellare il sistema di istruzione pubblico. L’impegno dei democratici e dei progressisti non può esser fatto di roboanti promesse, ma di un confronto aperto, affinché l’istruzione non sia il luogo delle divisioni, ma dell’unità del Paese e gli insegnanti abbiano quel riconoscimento economico e sociale che giustamente meritano. È chiaro che gli organi interni alle 8.127 istituzioni scolastiche (di cui 1.500 ancora prive di dirigente scolastico) dovrebbero essere adattati alla maggiore autonomia decisionale delle scuole: il dirigente scolastico non può rimanere senza un controllo efficace da parte del consiglio di istituto, in modo da garantire una verifica di qualità.

Qualcuno per esempio in questi anni ha provato a elaborare progetti diversi: “Ma l’hai letto il disegno di iniziativa popolare sulla scuola?” (è qui, per chi volesse confrontarlo con quello che viene discusso in questi giorni in parlamento). Qualcuno come la precedente ministra Carrozza boccia nel merito questa riforma. Mentre qualcun altro ne rivendica in fondo l’ispirazione: la scrittrice Paola Mastrocola, per cui, non da oggi, chi ha affossato la scuola sono stati i sindacati.

È chiaro che questo sciopero è uno scontro politico (“È la prova generale per distruggere il pubblico impiego”), ma non si capisce perché a farne le spese debbano essere gli insegnanti precari.

Quasi tutti i docenti con cui parliamo si fanno una domanda molto semplice: perché non si stralcia la questione assunzione con un decreto apposito? Perché mettere insieme una materia molto delicata come la riforma della scuola con una materia molto urgente come quella della stabilizzazione dei centomila precari (che erano 150mila e forse diventeranno 50mila)?

“E mi raccomando, scrivete che saranno stabilizzati, non assunti. Siamo tutta gente che lavora a scuola da cinque, dieci, quindici anni. E c’è una sentenza della Corte europea che obbliga a fare queste immissioni in ruolo, altrimenti scatta una multa molto salata, che comunque pagheremmo noi”.

Ma c’è un altro aspetto costruttivo che ci tengono a sottolineare molti insegnanti che sono oggi in piazza: “La scuola è una comunità che lavora bene se le relazioni funzionano”. “Il sistema scolastico si regge su un equilibrio delicato che va rispettato”. “La scuola è un affare di tutti, è un motore di democrazia e non si può pensare di legiferare senza un reale ascolto delle parti coinvolte”.

Il pericolo, paventato da più parti, è che altrimenti questa riforma eroda proprio un valore che invece è l’essenza della scuola: l’educazione alla democrazia. E questo riguarda i politici, gli insegnanti, gli studenti, le famiglie. “Manifestare per la scuola significa in fondo che ti stanno a cuore non solo i tuoi figli, ma anche quelli degli altri”.

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