18 settembre 2015 12:52

Il dibattito sulla scuola rischia sempre di alimentare due retoriche contrapposte: una, quella dell’innovazione come panacea di tutti mali, dei tablet in classe, dei prof 2.0, dei test Invalsi come unico metro di misura dell’esistente; e l’altra, quella dello studio come si affrontava una volta, della missione salvifica degli insegnanti, degli studenti svogliati e distanti da riavvicinare alla conoscenza.

Da una parte c’è un gruppo di persone che potremmo chiamare “prestazionali”, quelle che vivono con un’ansia da risultati mescolata al feticismo della tecnologia, che insieme danno vita a un perverso pedagogismo, sempre in cerca di una presunta misurabilità dei metodi educativi.

Dall’altra ci sono gli impressionisti – quelli che prendono la propria esperienza personale e ne ricavano un paradigma, a prescindere da qualunque confronto con i dibattiti pedagogici, dal dovere di considerare i dati che abbiamo sull’istruzione, dal fondamentale confronto con bibliografie aggiornate.

Queste due retoriche sono due scorciatoie. E siccome aggiornarsi, fare bene il mestiere del professore è impegnativo, chi non ha tempo, e voglia, è meno capace di mettersi in discussione e di pensare l’istruzione come una forma continua di autocritica, e imbocca una delle due scorciatoie sentendosi rassicurato: sta nel giusto, si pensa innovativo, è migliore degli altri, ai quali spesso addirittura fa la morale.

La maggior parte degli insegnanti per fortuna non è così. La maggior parte degli insegnanti in Italia è sottopagata e nonostante questo prepara bene le lezioni, è dubbiosa, si forma, studia, segue corsi d’aggiornamento, cerca di capire come rispondere al meglio ai problemi degli studenti, capitalizza quello che impara in classe per provare a immaginare strategie d’istruzione: seria, dedicata, professionale.

I comitati di valutazione dei docenti servono per uniformare la scuola alle aziende

Perciò queste due retoriche sono dannose. Perché di fronte ai veri bisogni dei docenti – più soldi, più formazione qualificata, più conoscenza del mondo, più libertà pedagogica – rispondono con la fiacca illusione di due vie facili. E gli insegnanti meno critici, o anche semplicemente quelli più stanchi, si lasciano abbindolare.

Ecco che così, proprio in questi giorni, la maggior parte dei collegi docenti – invece di pensare a come reclamare più reddito e più aggiornamento, a strutturare un serio piano formativo – si trova ad avere a che fare con l’inutilissima bega della formazione dei cosiddetti comitati di valutazione dei docenti stessi.

La complessità resta sottovalutata

Questi organismi – presieduti dal dirigente scolastico, e formati da tre insegnanti, due rappresentanti dei genitori, e un componente esterno – sono pensati dalla riforma della Buona scuola per fare in modo che la scuola si uniformi alle aziende, quelle aziende dove già dagli anni novanta si è affermato il management per obiettivi.

È ormai pacifico che i presidi e i comitati di valutazione hanno a loro disposizione i risultati dei test Invalsi, e in base a quelli improntano le loro decisioni.

Ma se ci riflettiamo, i test Invalsi si concentrano sulle prestazioni e di fatto trascurano completamente i contesti sociali, storici, culturali degli studenti, sottovalutano la complessità dei rapporti umani e dei processi sociali, non tengono conto del fatto che le interazioni nel contesto educativo sono dinamiche e in continua evoluzione. A che servono veramente?

Qualunque sociologo metterebbe in discussione la loro validità svincolata dal contesto; e invece – cosa terribile – i test Invalsi finiscono per trasformare i numeri in minacce. Mettiamo che la scuola A abbia più studenti con voti alti della scuola B – gli insegnanti delle scuola B sono chiamati a recuperare. In base ai risultati si riceveranno più fondi, bonus, premi. Come si sposa tutto questo con la libertà del docente?

E soprattutto cosa ha a che fare tutto questo con la ricerca pedagogica? Come fa notare un recente articolo di Alain Goussot, non è tanto l’arretratezza dei docenti ma l’approccio pedagogico a sembrare l’unica vittima delle ultime riforme della scuola.

Molti insegnanti hanno spesso una scarsa preparazione pedagogica, non conoscono i fondamentali delle varie correnti metodologiche in educazione, hanno un grosso deficit di sapere sul piano delle didattiche vive che sanno inventare e creare situazioni di apprendimento lì dove sembrava impossibile.
Quanti insegnanti oggi sono mai entrati in contatto con i testi e il pensiero, e quindi le pratiche, dei grandi pedagogisti ed educatori del passato? Quanti hanno letto non solo Rousseau e Pestalozzi, ma anche Maria Montessori, Ovide Decroly, John Dewey (…) Ernesto Codignola, Giovanni Maria Bertin, Mario Lodi?
È come se questo patrimonio storico-pedagogico di esperienze vive nel campo educativo non fosse parte del loro bagaglio culturale: invece nel loro bagaglio troviamo i manuali di una didattica meccanica e standardizzata, i vari trattamenti provenienti dalle correnti comportamentali e cognitivistiche, i kit applicativi con tanto di griglie e schede che funzionano come tanti schermi che gli impediscono di vedere e vivere la realtà scolastica e relazionale per quello che è.

A questa smania valutativa che nasconde – nemmeno troppo – forme di controllo si affianca la reazione scomposta di rimpiangere la scuola com’era una volta. La paladina di questa ideologia nostalgica è Paola Mastrocola. Il suo libro appena uscito, La passione ribelle, è la summa di una serie di pregiudizi che la probabile buona fede e il consenso di cui gode la sua voce non rendono meno pericolosi.

Mastrocola guarda al mondo dei ragazzi e descrive un panorama distopico, un paesaggio postapocalittico in cui nessuno studia più.

In classe nessuno segue, a casa nessuno fa i compiti, davanti a un libro nessuno riesce a capire nulla, in biblioteca perdono tutti tempo. Per affermare questo genere di tesi, Mastrocola però non cita nemmeno un dato, non pensa sia doveroso fornire una bibliografia pur minima a conferma, si avventura in campi come la neuroscienza o l’economia che evidentemente non padroneggia senza però temere di essere imprecisa, scrive in modo così trasandato che le accuse di approssimazione e sciatteria che muove ai ragazzi in generale risultano poco credibili.

Eppure i suoi interventi sono letti. I suoi libri sono citati, circolano nelle sale insegnanti. Perché? Perché consolano. Perché danno a quei professori sostanzialmente reazionari e poco volenterosi una sorta di credito morale, in nome del quale possono lanciare strali sul mondo moderno con le sue diavolerie (le lavagne interattive! I registri elettronici! Perfino le macchine fotocopiatrici!).

La scuola non è separata dalla società. La scuola è la società

È un vero peccato insomma che il dibattito sulla scuola si sia ridotto a questo. Perché invece saper leggere i dati e usarli per progetti pedagogici coraggiosi ci farebbe comprendere come la politica scolastica può rappresentare la vera leva dello sviluppo di questo paese.

Per esempio? Non pensando di ridurre l’alunno a una unità di misura identificabile con il suo comportamento.

Per esempio? Rivalutando la psicanalisi, e imbracciando la sfida delle difficoltà di apprendimento senza appiattirla a un problema di medicalizzazione attraverso la pioggia di diagnosi di bisogni educativi speciali (Bes) e disturbi dell’apprendimento (Dsa), evitando che tutto passi da una rilevazione di “comportamenti problema”, di difficoltà e di sintomi da incasellare in qualche griglia prefabbricata e prodotta dagli esperti del comportamentismo e del cognitivismo.

Esercitare il dovere della critica

Per esempio? Pensando che la scuola non è separata dalla società. La scuola è la società. E le problematiche sociali devono essere affrontate con una politica scolastica studiata.

Per dire: la questione meridionale – tornata nei dibattiti in questi mesi – è un nodo ancora irrisolto perché in Italia esiste un’asimmetria sociale talmente ampia che nemmeno centocinquant’anni di scuola unitaria sono riusciti a modificare; un interessante libro appena edito da Donzelli, L’istruzione difficile, a cura della Fondazione Res lo conferma, dati alla mano.

E se vogliamo problematizzare quella che ormai è una weasel word – una parola che vuol dire tutto e niente – come valutazione, possiamo rileggerci il bel numero di Aut aut dedicato al tema (qui trovate l’intero pdf).

Mentre, per rispondere ai catastrofismi sulla scuola e sull’educazione in generale con qualcosa di più della nostalgia dei tempi antichi, è utile riprendere un libro uscito nel 2014 che ha avuto poca fortuna, La congiura contro i giovani di Stefano Laffi.

Ossia uno dei pochissimi testi recenti che – invece di costruire un alibi per gli educatori liquidando i giovani con un ritratto da nichilisti, disimpegnati, ripiegati su stessi – sottolinea una mancanza evidente di molti dibattiti sulla scuola: quando si parla di educazione non possiamo sottrarci al dovere di criticare con radicalità i capisaldi della società in cui viviamo.

Sulla scorta di Paul Goodman e del suo meraviglioso La gioventù assurda (Einaudi 1971; tra l’altro perché nessun editore italiano lo ripubblica?), Laffi ci mostra che fare scuola, pensare la scuola, è, o dovrebbe essere, sempre un atto di critica politica: e la critica non può essere rivolta a quello che fanno i ragazzi ma a coloro che evidentemente hanno il potere, e che vogliono – attraverso l’educazione – replicare un universo pieno di merci, tecnocratico, ipercompetitivo.

L’inutile versione in piccolo del brutto mondo che già noi adulti abitiamo.

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