25 ottobre 2015 11:21

Quest’anno doveva essere l’anno d’oro per il teatro italiano e c’è il rischio che sia proprio il contrario. Il progetto di riforma – il testimone è passato dal ministro Massimo Bray a Dario Franceschini – che doveva mettere ordine, garantire sostegno, finanziare, strutturare lo spettacolo dal vivo, si sta dimostrando uno strano mostro di inutilità, insufficienza, distorsione.

Le nuove figure inventate da questa riforma – i teatri nazionali e i teatri d’interesse culturale – sono state scelte soprattutto per la possibilità di capienza delle loro sale e per la potenzialità di allargare il pubblico e diventare dei punti di riferimento all’interno della loro regione: sostanzialmente devono, per ottenere fondi, mostrare di essere efficienti, aumentare il numero degli spettatori, delle giornate lavorative, delle repliche, e dall’altra parte svolgere anche una specie di funzione di azienda comunale di servizi per lo spettacolo.

Si delinea una nuova idea di teatro pubblico; quello che qualche settimana fa il critico Attilio Scarpellini e il regista Massimiliano Civica hanno battezzato “teatro pubblico commerciale”.

Questa definizione si trova in un documento intitolato La fortezza vuota che sta circolando tanto tra gli addetti ai lavori, o meglio tra chi ha a cuore il futuro del teatro.

Inizia così:

In segreto, molti di noi non sono più certi che il teatro abbia una funzione e il diritto di esistere nel mondo d’oggi. La riforma ministeriale, con i suoi tagli e la sua impostazione strutturale, ha fatto intravedere il piano che la sottende, quello di una progressiva dismissione del finanziamento pubblico al teatro.
In un paese che sta smantellando lo stato sociale e di diritto, dove la salute, l’istruzione e la cultura ben presto saranno optional appannaggio di chi potrà permetterseli, che ‘diritto’ abbiamo di lamentarci per la crisi teatrale?
Gli spettatori di teatro in quella sorta di indagine di mercato tramite cui lo stato definisce ormai le sue priorità d’intervento costituiscono una bolla di consumatori (o elettori, che oggi fa lo stesso) equiparata a quelle degli appassionati di manga, dei collezionisti di trenini o di palle di Natale rétro; insomma chi ama il teatro rappresenta una fetta di ‘mercato culturale’ piccola ed esclusiva, ed è ‘morale’ che si paghi da sé il proprio ‘vizio’. Per lo stato il teatro non ha già più una funzione pubblica, e molti di noi, anche per la cattiva coscienza del lavoro svolto, non contraddicono o non vogliono prendere nota di questa affermazione. Si va avanti come niente fosse, intenti a cucinare la cena mentre la casa brucia.
Il teatro è minoritario, e oggi ci hanno inculcato il senso di colpa dell’essere minoritari. Sta a noi, se ne abbiamo la voglia, la forza e il coraggio, dimostrare, almeno a noi stessi, che minoritari non vuol dire minori. E trarne le debite conclusioni.

Il bersaglio polemico di Scarpellini e Civica è certo questa riforma, ma anche e soprattutto la miopia di una classe politica che non vede nel teatro, in Italia, una chiave dello sviluppo sociale. La fortezza vuota smaschera il fatto che abbiamo smarrito il senso del teatro come servizio pubblico e dunque la sua funzione civile.

Torniamo all’abc. […] Il teatro è finanziato dallo stato per permettere agli artisti e ai cittadini di entrare in relazione e di farsi ‘comunità’: una comunità virtuosa che, coi mezzi dell’arte teatrale, renda i suoi componenti uomini e cittadini migliori.

Lo stile delle politiche ministeriali comporta invece che questa riforma nasca morta o addirittura necrofila. Uccide di fatto quello che Scarpellini e Civica chiamano la “teatralità diffusa”, tutto ciò che non avviene nelle grandi città.

I centri di produzione, le residenze teatrali, i festival, riceveranno contributi che li porteranno a spegnersi con nemmeno troppa lentezza (è evidente, a chiunque frequenti il mondo del teatro, come la generazione di registi e attori di più di 40 anni – quella che non riesce più a permettersi di investire su se stessa – stia scomparendo dai cartelloni).

Ma soprattutto prelude – dopo decenni di gestione tramite un fondo per lo spettacolo sempre più esiguo – a una cancellazione definitiva del contributo pubblico ai teatri.

La denuncia politica di Scarpellini e Civica contiene anche una importante intuizione critica: la deriva commerciale dei teatri pubblici non riguarderà solo l’organizzazione, ma di fatto la poetica degli spettacoli futuri.

L’epilogo del Centro teatro ateneo

Questa è una tendenza già in atto. A fronte di un numero di spettatori teatrali che, secondo le statistiche, aumentano leggermente ogni anno – anche se subiscono un calo netto dopo i 18 anni – l’evidenza è che il teatro di qualità e di ricerca sia un fantasma che non si presenta nemmeno in scena.

La maggior parte degli artisti campa – male, alle volte malissimo – facendo altri lavori, provando a fare l’insegnante di teatro, organizzando laboratori e stage, oppure decidendo di reinventarsi come organizzatore teatrale, amministratore, segretario, ufficio stampa (le uniche figure che questa riforma sembra in parte tutelare dal punto di vista lavorativo).

L’allestimento dello spettacolo, l’andare in scena, sembra quasi lo scotto da pagare per poter continuare a dirsi teatranti; molti tra i migliori artisti italiani hanno smesso di fatto di lavorare come registi o come attori, dedicando alla burocrazia, al fundraising, alla rendicontazione, la maggior parte del loro tempo.

I toni preoccupati di Civica e Scarpellini non sono affatto infondati, e la speranza che lanciano alla fine del loro intervento – “ricostruire tra le macerie una nuova alleanza tra gli artisti, gli spettatori e la critica” – è certo da coltivare, ma elude un’altra questione altrettanto centrale. Quella dell’educazione del pubblico.

Se si vuole sintonizzarsi sul fetido spirito dei tempi, e quindi ha senso in questi giorni prestare l’orecchio al grido d’allarme della Fortezza vuota, ha altrettanto senso occuparsi di quello che sembra essere il tragico epilogo di una delle più importanti realtà di educazione e ricerca per il teatro italiano: il Centro teatro ateneo (Cta) dell’università Sapienza a Roma.

Con un’intensa lettera (che potete leggere sul sito dell’università) Valentina Valentini ha deciso di dimettersi poche settimane fa da direttrice del centro.

Ho assunto, nel dicembre del 2011, la direzione del Centro Teatro Ateneo.
La prospettiva di una imminente restituzione, dopo i lavori di restauro, alla Sapienza, alla città di Roma e alla cultura italiana del Teatro Ateneo, teatro storico dell’Università e della città di Roma, mi facevano ben sperare sull’immediato futuro del Cta, il centro di ricerca sullo spettacolo della Sapienza Università di Roma: un modello di sperimentazione scientifica, didattica e tecnologica la cui storia si fonde dal 1981 con quella del Teatro Ateneo.
La prima e fondamentale ragione delle mie dimissioni è di carattere culturale: riguarda, il ruolo, il rango e le funzioni del Teatro Ateneo. Questo illustre teatro – luogo di nascita e di maturazione di almeno due generazioni dell’avanguardia teatrale italiana – viene considerato oggi analogo all’aula magna dell’ateneo e verrà gestito da un centro servizi e come tale verrà trattato.

Dopo aver svolto le sue attività in condizioni di emergenza per i lavori di recupero, Valentini si è vista deprivata della possibilità di fare – di continuare a fare – del Cta un luogo di ricerca scientifica, di progetto, di didattica; e ha mollato. A gestirlo sarà il consiglio d’amministrazione della Sapienza: sostanzialmente, dei medici.

Un doppio sconforto

“Questo quadro di declassamento del rango e delle funzioni del Teatro Ateneo va a innestarsi nel più generale processo di impoverimento e di marginalizzazione delle istituzioni culturali del nostro paese”, scrive Valentini alla fine della lettera, e la sua non è un’affermazione né generica né vittimistica, ma coglie bene un doppio sconforto.

Lo spettacolo Verklärte Nacht di Anne Teresa De Keersmaeker al Romaeuropa festival, ottobre 2015. (Anne van Aerschot, Per gentile concessione di Romaeuropa festival)

Da una parte quello che vede l’aggravarsi di molti problemi del nostro teatro – ricambio generazionale, diffusione territoriale, economie, tutele per i lavoratori, investimenti (sono interessanti gli interventi di Andrea Porcheddu in merito) –dall’altra la consapevolezza di un’assenza di un progetto culturale di sistema.

Nelle scuole e nelle università italiane s’insegna non tanto l’amore per le scene, ma per la letteratura teatrale

Un’assenza che è tanto più assurda se paragoniamo la situazione italiana a quella di paesi che hanno una tradizione teatrale altrettanto importante come la Francia ma anche a quelli che ne hanno una decisamente minore come il Belgio.

In entrambi però dagli anni ottanta si è deciso di investire milioni di euro per finanziare la scena contemporanea, e ora giustamente si raccolgono i frutti di un lavoro di creazione di un teatro europeo, e si vendono produzioni enormi in tutto il mondo: Teresa De Keersmacher e Jan Fabre, che abbiamo appena omaggiato al Romaeuropa festival.

Quest’assenza non è solo il prodotto scontatamente malato di una radicata incultura politica, ma anche l’esito di scelte decennali nel settore dell’istruzione pubblica.

Se ci riflettiamo, nelle scuole e nelle università italiane s’insegna non tanto l’amore per le scene, quanto quello per la letteratura teatrale.

Leggiamo per tutta la durata delle scuole medie e delle superiori una quantità enorme di testi – da Eschilo a Plauto a Shakespeare a Goldoni a Pirandello, e ci sorbiamo perfino i drammi non memorabili di Manzoni o di Alfieri – e all’università è molto probabile che chi sceglie una facoltà umanistica s’imbatta in esami che si chiamano “letteratura teatrale”, che sia italiana o inglese.

E in tutto questo non abbiamo idea di quale sia l’arte dell’attore, di cosa sia la tradizione del teatro di regia, cosa voglia dire una recitazione brechtiana, magari non abbiamo cognizione nemmeno di come funzioni una quinta, cosa sia un boccascena, cosa voglia dire dare una battuta, in cosa consista la relazione sul palco. Siamo analfabeti da un punto di vista teatrale o, quando ci alfabetizziamo, capita che spesso lo facciamo contro la scuola.

Ora ci si rende conto che mancano gli spettatori consapevoli

È ovvio quindi che se formiamo gli spettatori proponendo un’esperienza di spettacolo basata solo sui codici televisivi, il teatro che andranno a vedere e che riusciranno ad apprezzare sarà quel novero immenso di rappresentazioni che ricalca quegli stessi codici televisivi. E quindi il progetto ministeriale di un teatro pubblico commerciale verrà incontro a questo pubblico.

Di questo deficit si è reso probabilmente conto il ministero dell’istruzione quando quest’anno ha emanato un bando per progetti di formazione teatrale nelle scuole, con una scadenza – a dire il vero – talmente ravvicinata che è stato costretto a prolungarla.

Se l’intenzione è ottima, occorre però pensare come tutto questo vada a integrarsi con le attività svolte in classe, chi seleziona i progetti, e come questa formazione debba riguardare gli insegnanti prima ancora che gli studenti.

Altrimenti il rischio è che questi soldi siano solo l’ennesimo ammortizzatore sociale per i teatranti che non possono fare il loro mestiere e che quindi si affidano all’insegnamento per poter sopravvivere.

Preparazione e volontà politica

Accanto alle mancanze della scuola va messa certo la responsabilità della critica, dei teatri pubblici, dell’editoria: perché è rarissimo seguire uno spettacolo con il testo sotto mano? Perché spessissimo i foglietti d’introduzione sono incomprensibili? Perché è quasi la regola che le recensioni sui grandi giornali siano comprensibili solo dagli addetti ai lavori, e alle volte nemmeno da quelli? Perché quasi in nessun caso si accompagna lo spettacolo con un incontro di introduzione? Perché l’editoria teatrale non riceve fondi pubblici per poter sopravvivere?

E questo lungo discorso, questa perorazione, fatta essenzialmente per il teatro di prosa, potremmo estenderla ad altre forme di spettacolo.

Se devo concludere con due esempi per il tutto li prenderei dalla danza.

Uno è quello di Roberto Castello: la sua compagnia è una delle eccellenze della danza europea. Il suo spettacolo – premio Ubu – del 1985, Il cortile prodotto con Sosta Palmizi, è considerato giustamente seminale per la storia della coreografia italiana degli ultimi trent’anni, e il suo ultimo spettacolo, In girum imus nocte (et consumimur igni) non è di minore bellezza.

Eppure, a parte due giorni nella rassegna romana di Short theatre e una decina di date sparse per l’Italia, sarà complicatissimo vederlo. Perché? Perché in questi trent’anni che ci separano dal Cortile si è fatto pochissimo per educare il pubblico, si è pensato che bastasse promuovere gli eventi, e ora ci si rende conto che gli spettatori consapevoli mancano.

È andata diversamente, dicevamo, in Belgio. A Romaeuropa festival quest’anno Anne Teresa De Keersmaeker ha presentato un meraviglioso cofanetto di un libro e quattro dvd realizzato con Bojana Cvejić dedicato alla presentazione del suo lavoro: The coreographer’s score. Nei quattro dvd non c’è solo la celebrazione di una star della coreografia mondiale, ma un’ampia documentazione della sua didattica. Una via che la stessa De Keersmaeker ci offre per entrare nel suo laboratorio artistico; e farlo è quasi altrettanto gratificante che vedere i suoi splendidi spettacoli.

Investire nella formazione del pubblico non è così complicato, e restituisce risultati evidenti anche da un punto di vista economico. L’unica condizione, certo, è che ci siano la preparazione e la volontà politica per farlo.

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