25 marzo 2016 15:51

Al liceo Virgilio di Roma nella mattinata di martedì 22 marzo due agenti in borghese entrano nel cortile all’ora di ricreazione per una serie di controlli: cercano dei ragazzi che spacciano. Portano via cinque studenti e poi li lasciano andare, tutti tranne uno, maggiorenne, che viene arrestato.

Subito si crea un’assemblea spontanea nel cortile di scuola, gli studenti chiedono conto del blitz alla preside, che però si barrica dentro la vicepresidenza, e ne esce solo scortata dai carabinieri. Intanto davanti alla scuola arrivano diverse camionette delle forze dell’ordine e gli uomini della Digos.

Il giorno dopo molti studenti per reazione a quella che considerano un’esagerata esibizione punitiva organizzano un corteo che dovrebbe partire dalla sede del liceo e sfilare per le vie del quartiere. La manifestazione viene però bloccata da due blindati a pochi metri da via Giulia: quando i ragazzi decidono di tornare a scuola, la preside Irene Baldriga non li accoglie. Allora alcuni vanno verso piazzale Clodio e mettono su un presidio per aspettare il loro compagno che dovrebbe essere rilasciato a momenti. Nel frattempo la preside ha indetto un’assemblea a scuola per confrontarsi con gli studenti che va avanti per tutta la mattina.

La notizia scuote l’ambiente del Virgilio, che è storicamente un liceo molto politicizzato. La scuola si spacca in due: da una parte la preside e chi difende il suo approccio legalitario, dall’altra gli studenti che rimproverano alla preside un atteggiamento solo repressivo e non educativo. La tensione non è nuova: sono mesi che le assemblee, i consigli d’istituto e quelli di classe mostrano l’esistenza di due anime all’interno della scuola.

Anche dell’episodio di martedì si danno due versioni. La preside sostiene che non era a conoscenza del blitz; che si è serrata nella vicepresidenza perché impaurita dall’assalto degli studenti; e che questi si erano accalcati davanti alla porta minacciando di sfondarla e urlando contro carabinieri e Digos (“Le confesso che ho avuto paura”). Gli studenti lamentano invece un trattamento violento da parte degli agenti in borghese (“Hanno umiliato inutilmente i ragazzi perquisiti nel cortile”), e degli altri agenti che, chiamati a difendere la preside, hanno spinto e strattonato gli studenti trattandoli come dei criminali.

Probabilmente, sostengono gli studenti, l’arresto è avvenuto grazie alle immagini catturate dalle telecamere interne di sorveglianza, e questa è un’altra vexata quaestio: i ragazzi si sentono presi in giro dalla preside che li aveva assicurati di averle fatte installare per tenere d’occhio una caldaia pericolosa, ma ora sembra che fossero state pensate a uso della polizia.

“Non siamo dei facinorosi. Siamo la parte più attiva della scuola e per questo non veniamo visti di buon occhio”, dice una delle rappresentanti del collettivo autorganizzato del Virgilio. “Tra studenti e dirigente ci sono stati sempre dei contrasti gravi. Durante l’occupazione la preside ricorreva sempre alla minaccia di sgombero o di denuncia, pare che non sappia usare altre armi. Il ruolo di chi reprime non è quello di chi educa. Quando la preside parla di dialogo spesso intende che noi dobbiamo assumere le sue comunicazioni. L’altro giorno non volevamo assolutamente spaventarla, un dirigente non dovrebbe chiudersi, non dovrebbe avere paura; ma eravamo arrabbiati e volevamo delle risposte. Anche l’assemblea convocata dopo averci cacciato da scuola, mentre eravamo in presidio a piazzale Clodio, ci è sembrata una scorrettezza”.

Per la preside chi causa questa tensione è “una minoranza di studenti, spesso manipolati anche dai genitori, affiliati a un generico estremismo di sinistra, infiammati da un antagonismo a prescindere. La maggioranza della scuola è dalla mia parte e non solo mi ha dimostrato solidarietà, ma riconosce anche che io sono sempre per il dialogo, come dimostra l’assemblea di ieri. Io però – oltre ad avere il ruolo di educatrice che lavora sul lungo periodo – sono anche un funzionario dello stato. Quindi se ci sono dei reati a scuola, io devo far sì che quei reati vadano puniti. Non dobbiamo essere succubi di un ipergarantismo dannoso, che immagini la scuola come un porto franco, in cui può accadere di tutto. Per questo difendo anche lo sgombero dell’occupazione: non sono una bacchettona, ma sono convinta che le occupazioni si facciano anche perché le scuole diventino luoghi di smercio di stupefacenti”.

I ragazzi non rivendicano ovviamente nessun’area franca e – anche nel caso dello studente arrestato – si prendono le proprie responsabilità. Ma è sull’interpretazione della legalità che le posizioni sono polari, e anche molti genitori sono perplessi.

Una madre, rappresentante d’istituto, mi dice: “Abbiamo dovuto creare un sito di genitori per conto nostro, perché la preside non ha voluto che fosse sul sito della scuola. Quando c’è stata l’occupazione, non è stata capace di mediare. L’altro giorno si è defilata totalmente. Addirittura sono stati più concilianti Davide Faraone (sottosegretario del ministero dell’istruzione) e una carabiniera, che mi ha detto: ‘Mica vogliamo un’altra Diaz, i nostri nemici sono i mafiosi e i terroristi mica i ragazzi che fanno qualche scorrettezza’. Non c’è capacità di mediazione, dialogo, né di ascolto. Non c’è stata sulla progettazione didattica. Le faccio un esempio: nessuna delle proposte dei ragazzi è stata inserita nel piano di offerta formativa, che è stato approvato senza i voti della componente studentesca”.

Il punto sembra proprio la droga. O meglio le canne. Per Irene Baldriga quella contro gli stupefacenti è una battaglia prioritaria: “Drogarsi vuol dire non aver rispetto di se stessi. Il consumo di droga è espressione di non lucidità, una via di fuga, un sintomo di disagio o la ricerca di riconoscimento del gruppo. Io non ci vedo nulla di bello nello stare insieme a fumarsi uno spinello. Consumare hashish in un’età delicata, come quella tra i 14 e i 16 anni, provoca – lo dicono i neuroscienziati – danni permanenti”.

In un articolo intitolato “La droga nella scuola: giù la maschera”, nel numero di Tuttoscuola del dicembre del 2015, la dirigente era ancora più chiara:

C’è un grande problema che si annida nelle nostre scuole. È un male profondo che si dirama in modo subdolo e inesorabile, un male di cui tutti siamo al corrente senza comprenderne le origini e senza riuscire ad affrontarlo in modo risolutivo e franco. La droga è ovunque, camuffata in molte forme – sempre e comunque dannose – e ha assunto ormai la drammatica veste di un problema scontato, di un fenomeno in qualche modo ‘inevitabile’.

O ancora:

Ci si domanda ancora come mai, di fronte allo sconcertante e gravissimo fenomeno delle ‘occupazioni’ (dannosissimo sotto tutti i punti di vista: didattico, istituzionale, sociale, formativo, igienico-sanitario, legale, lavorativo, ecc.) non si dica a chiare lettere che esso ha una precisa connessione con il consumo e lo smercio di sostanze stupefacenti.

L’azione di contrasto e prevenzione che mi descrive è molto articolata: incontri con la Asl, con molti esperti, formazione per i genitori, consulenze, quella che lei definisce “aggregazione virtuosa” (coro, laboratori, redazioni di giornale): “Il motivo della droga è il non saper stare insieme”.

Per i ragazzi invece queste iniziative sono spesso non qualificate, e uno di loro mi cita la notizia – già comparsa per esempio sul Manifesto – che ricostruisce come un corso di prevenzione fosse stato affidato a Scientology.

Ma l’aspetto più problematico di tutta questa vicenda locale, e anche più esemplare di una crisi della scuola, non è forse né l’arresto a ricreazione né il consumo di hashish tra i ragazzi, quanto la fragilità della fiducia tra le componenti della scuola, preside, genitori, studenti.

Un articolo recente su Vice rifletteva sul rapporto tra scuola e consumo di stupefacenti e riportava le parole di Maria Stagnitta, presidente di Forum droghe:

Il problema dei consumi giovanili di sostanze stupefacenti dovrebbe, soprattutto all’interno delle scuole, passare attraverso un processo educativo di prevenzione che si basi sulla fiducia reciproca fra educatore e studenti.

Imparare questo genere di fiducia vuol dire effettivamente educarsi alla futura fiducia nel dialogo con le istituzioni da adulti. E, se per la preside (almeno a leggere le parole dei ragazzi su Facebook o sul blog della scuola) questi episodi sono proprio l’indice di una “tendenza a delegittimare le istituzioni in sé” , paradossalmente sembra che da parte degli studenti ci sia una precisa volontà di dichiarare le proprie responsabilità, ma anche di chiedere conto agli adulti delle loro.

D’altra parte la questione della prevenzione delle tossicodipendenze e dell’educazione alla salute passa per un interrogativo ancora più serio: se l’uso di certe sostanze è tanto diffuso tra i ragazzi, siamo sicuri che criminalizzarli sia il disincentivo giusto? E siamo sicuri di non esporli in questo modo ai rischi ben maggiori di un uso non consapevole, spinto continuamente nella clandestinità?

Per fortuna la scuola rimane un luogo dove alle crisi di questo tipo si può dare il tempo giusto per un confronto, lasciando aperte le domande più che provando a chiuderle in fretta per paura di non sembrare abbastanza risoluti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it